L'Archetipo Anno III n. 8, Giugno 1998

Il racconto

STORIA DEL SACRIFICIO

Una volta il Bodhisattva era, si dice, un re che aveva ottenuto il regno per successione ereditaria. In questo regno frutto delle sue azioni meritorie, egli non aveva rivali. Tutti i signori dei confini gli si inchinavano, e, ogni difficoltà nei suoi ed altrui domini e via dicendo essendo composta, egli governava incontrastatamente e pacificamente il paese.
Questo sovrano aveva vinto i nemici sensi e non era attaccato a quei frutti che portano biasimo. Inteso con tutto il suo essere al bene dei sudditi, il solo scopo delle sue azioni era il giusto, e in tal modo si comportava non altrimenti che un anacoreta. Egli ben sapeva che il popolo minuto tende per natura ad imitare il costume dei grandi, e, tutto desideroso di condurre i suoi sudditi verso la salvezza, era specialmente attaccato all'esecuzione dei suoi doveri religiosi. Prodigo di doni, egli osservava strettamente i precetti della buona condotta, coltivava la pazienza e si sforzava per il bene del mondo. Questo desiderio di beneficare le creature lo rendeva poi cosí benigno d'aspetto, che egli splendeva come la giustizia incarnata.
Una volta avvenne che il suo regno, quantunque protetto dal suo braccio, fosse nondimeno afflitto in piú luoghi dalla siccità e dai conseguenti scompigli, per causa forse di malignità di fortuna dei suoi abitanti o di una trascuratezza degli angeli deputati alle piogge. Il re non ebbe dubbio alcuno che questa calamità non fosse stata causata da un malo adempimento della giustizia e dei doveri morali e religiosi da parte sua o dei sudditi; e, avendo assai a cuore il benessere della sua gente, oggetto delle sue cure costanti, né potendo perciò sopportare questa calamità, domandò ai brahmani piú anziani e reputati per la loro conoscenza delle cose religiose, e tra essi prima di tutti al prete di famiglia e poi ai suoi ministri, se ci fosse mezzo alcuno per mettere fine a siffatta sventura.
Costoro pensarono che per far venire la pioggia ci sarebbe voluta una cerimonia sacrificale, eseguita secondo i precetti del Veda, costituita dalla paurosa uccisione di molte centinaia di animali; e passarono tosto a descrivergliela. Il re, ragguagliato del tenore di questa cerimonia, per la gran compassione davanti all'uccisione degli animali prescritta nel sacrificio, non approvò in cuor suo le parole dei brahmani. In omaggio all'educazione, egli non volle tuttavia contraddirli con aspre parole e, parlando loro di altre faccende, si ritenne dal manifestare la sua opinione in proposito. Quelli, d'altro lato, appena si offerse loro l'occasione di intrattenersi con lui di argomenti religiosi, lo esortarono a celebrare questo sacrificio, senza minimamente intendere il suo profondo e nascosto consiglio:
«Tu, nel vero, non lasci mai l'opportunità d'attendere a tutte quelle azioni, che necessariamente deve fare un re per conquistare e mantenere i suoi domíni. Come mai, dunque, ti fai cosí trascurato e neghittoso, quando si tratta di por mano a questo ponte che mena al mondo degli Dei, detto per nome sacrificio? Certo, tu sei già iniziato e purificato, ora e sempre, mercé le tue continue elemosine e l'attenta osservanza delle restrizioni. Nondimeno, è opportuno che tu paghi il tuo debito agli dèi coi sacrifici prescritti nel Veda. Ché, al vero, le divintà, soddisfatte da convenienti sacrifici, onorano in cambio le creature colla pioggia. Cosí considerando, poni mente al bene dei tuoi sudditi e tuo e compi questo glorioso sacrificio».
Ma al re venne cosí da pensare: «Ahimè! Questa gente, questi sedicenti amanti del giusto, questi credenti, sono davvero scostumatissimi, mali cattivatori della fiducia altrui, ruvidi di cuore, poco desiderosi di conoscenza! Ché laddove proprio coloro che son stimati tra gli uomini come il miglior rifugio, vanno offendendo gli altri, sotto il pretesto del giusto, il popolo, che segue il sentiero da essi indicato, precipita in una caterva di sventure! Che relazione, di grazia, mai esiste tra la dimora nel mondo degli dèi, tra la propiziazione delle divinità, il giusto, e il desiderio di uccidere degli animali? "L'animale sgozzato, grazie al potere delle formule magiche, va al cielo; sicché la sua uccisione non è contraria alla Legge". Cosí essi dicono, ma è solo menzogna. Dobbiamo credere davvero che i celesti, messo da parte lo splendido nettare servito loro da vaghe ninfe, si rallegrino tutti dell'uccisione di un pietoso animale?».
Deciso dunque che era venuto il momento giusto, il re fece sembiante di essere tutto ansioso di celebrare il sacrificio, e, facendo mostra di consentire alle loro parole, disse loro:
«Oh, che io sono davvero ben protetto, ben favorito, disponendo di consiglieri par vostri, miei degni signori, tanto solleciti del mio bene. Io voglio dunque celebrare un sacrificio umano di mille vittime. E procurino i miei ufficiali, secondo i loro vari uffici, di radunare tutte le robe atte a questa bisogna. Si esamini altresí attentamente qual è il terreno adatto alle tende e agli edifici che la cerimonia richiede, e, oltre a ciò, quando cade la congiunzione dei giorni lunari e le costellazioni piú favorevoli».
Il prete di famiglia rispose:
«Per ottenere il successo desiderato, bisogna che Vostra Maestà prenda il bagno finale alla fine di un sacrificio; e, di mano in mano, saranno poi celebrati i seguenti. Se Vostra Maestà prendesse infatti mille vittime umane tutte insieme, i sudditi ne resterebbero certo scossi e turbati».
Il prete di famiglia aveva appena finito di profferire queste parole, approvate dagli altri brahmani, quando il re rispose:
«Non è il caso, degni signori, di temer dell'ira dei sudditi. Infatti, io farò in modo che in loro non entri turbamento alcuno».

Il re, dunque, convocata un'assemblea di uomini di città e di villa, disse loro:
«Io voglio celebrare un sacrificio umano di mille vittime, ma nessun uomo onesto e dabbene sarà da me scelto come vittima, contro la sua volontà. Sappiate perciò questo: da ora innanzi, chiunque di voi, col lucido insonne attento occhio delle mie spie, io vedrò trasgredire i confini degli onesti costumi e disprezzare il mio ordine, lo prenderò senz'altro per vittima del sacrificio; ché uomini tali son la macchia delle loro proprie famiglie e una spina per il mio paese».
Allora i principali dell'assemblea, colle mani giunte, gli dissero:
«Tutte le tue azioni, o sovrano, tendono al bene dei tuoi sudditi. E che ragione c'è quindi di disprezzare i tuoi ordini in questo proposito? Tutto quello che è caro a Vostra Maestà, questo è caro anche a noi; e quanto non è caro e favorevole a noi, non è neppure a te caro».
Il re, dopo che questi uomini di città e di campagna ebbero inteso e accettato i suoi comandi, spedí ufficiali nelle città e nel contado, dichiarati per tali con gran rumore, che risultassero ben chiari al popolo, allo scopo di catturare i malvagi; e in ogni dove fece pubblicare bandi di tal fatta:
«Il re, garante di sicurezza, garantisce sicurezza a tutti gli uomini dabbene, di costante buona condotta. Il re, per il bene dei sudditi, desidera celebrare un sacrificio con mille vittime umane, da esser scelte tra coloro che consentono a disonesti costumi. Chiunque perciò d'ora innanzi si renda manifesto per i disonesti costumi cui indulge e disprezzi cosí il comandamento del re, rispettosamente osservato anche dai re suoi vassalli, sarà a viva forza, dalle sue stesse azioni, condotto a tale, da essere vittima nel sacrificio; e il popolo lo vedrà legato al palo sacrificale, smarrito e miserabile, argomento di compianto».
Gli abitanti del regno, che udivano ogni giorno questo bando terribile del re e vedevano, sparsi in ogni dove, i suoi messi, tutti intenti a scoprire e a catturare i malfattori, non tardarono a rendersi conto dello zelo con cui il sovrano cercava gli uomini di cattivi costumi per sacrificarli. L'effetto fu meraviglioso e ogni attaccamento alla cattiva condotta scomparve. Tutto il popolo osservava cosí strettamente le restrizioni e i precetti del buon vivere morale, evitava ogni occasione di inimicizia, era cosí pieno di scambievole amore e rispetto, aveva cosí composto i suoi dissensi e querele, obbediva a tal punto alle parole degli anziani, era cosí desideroso di far parte del suo agli altri, cosí amichevole verso gli ospiti, tanto sollecito delle buone maniere e della modestia, che parve veramente di essere tornati all'età dell'oro. La paura della morte e il pensiero dell'altro mondo, il rispetto verso la famiglia e il mantenimento della buona fama, e infine il profondo senso di pudore dovuto alla purezza di cuore, tutto, insomma, fece cosí che il popolo avesse ora il buon costume per immacolato ornamento.
E visto che tutti, grazie alle savie misure adottate dal re, tenevano buoni costumi, le piaghe e le calamità persero forza e, sopraffatte dalla prosperità, scomparvero naturalmente. Le stagioni presero piacevolmente a succedersi in modo regolare, tutte dedite all'ordine naturale delle cose. La terra produceva diverse specie di grani e i bacini erano colmi d'acque azzurre e immacolate, ornate da loti. Le malattie piú non affliggevano gli uomini e le erbe medicinali possedevano piú acuta virtú. Il vento soffiava regolarmente, in obbedienza alle stagioni, e i pianeti si muovevano per strade auspiciose. Di pericoli, nessuno, né provenienti da imperi estranei né da discordie intestine né infine da scompigli naturali. Il popolo, pieno di modestia e di dedizione alla giustizia ed alle restrizioni morali, viveva come nell'età dell'oro. Per merito dunque di questo sacrificio fatto dal re in accordo con la Legge, le calamità erano ormai scomparse e la terra, gremita di gente soddisfatta, offriva un aspetto prospero e dilettevole; e la rinomanza del re era diffusa in ogni dove dal popolo occupato a dir le sue lodi e a benedirlo.

tratto da: Arya Sura, Storia della tigre e altre storie delle vite anteriori del Buddha (Jatakamala)a cura di Raniero Gnoli, ed. Leonardo da Vinci, Bari 1964


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