Siti e Miti

Era quello dunque il luogo designato, uno scoglio arido che il Mare Egeo circondava e incideva con le sue veloci correnti e il vento frustava senza posa. Un lembo di terra avulso dal mondo, isola superstite a cataclismi primigeni, risparmiata dal Diluvio. Come il discepolo che Gesú amava, sopravvissuto a tante morti, risuscitato dalle tenebre, sottratto alle lapidazioni, ai supplizi. Quello comminatogli a Roma, a Porta Latina, si era risolto con la conversione dei carnefici, dopo che lo avevano visto uscire illeso dalla caldaia dell’olio bollente nella quale lo avevano immerso.
Nel vortice del martirio erano invece scomparsi, prima Giacomo, decapitato da Erode Agrippa a Gerusalemme; Pietro e Paolo martiri a Roma sotto Nerone; Andrea a Patrasso, nel Peloponneso; Filippo, crocefisso a Geropoli, in Frigia; e altri, perduti in terre pagane per diffondere la parola del Cristo. E nonostante il loro sacrificio, la loro inoppugnabile testimonianza, molti dimenticavano, o dubitavano, alcuni contestavano la natura divina del Salvatore, altri giungevano persino a negarne l’esistenza terrena. Per questo, in quei giorni d’esilio, scriveva le vicende di cui l’Apostolo Giovanni era stato partecipe e testimone seguendo il Signore per le strade e i villaggi della Palestina. Emergevano da quei fatti prodigiosi due elementi: la Luce e la Parola. Ovunque Gesú operava, si diffondevano quella luminosità arcana e la Sua Voce che tutto animava di vita.
Per la prima volta era accaduto a Bethabara, sul Giordano, quando al Battista che annunciava la venuta del Regno, Gesú si era presentato per essere battezzato con le acque del fiume. Dall’alto era venuto un suono che sillabava la natura del Cristo, unito a un palpitante bagliore. E ogni volta la Sua natura divina, fatta di Luce e Parola, si manifestava. Cosí era stato anche sul Tabor, durante la Trasfigurazione, e poi nella casa di Giairo: ricordava l’attimo in cui il Maestro, chinandosi sulla fanciulla morta, le aveva detto «Talita qumi» e lei si era risvegliata circonfusa di un chiarore soprannaturale. Infine sulla croce, al compimento dell’opera divina, il tuono e la tenebra avevano significato la negazione dell’armonia sonora e della luce eterea, segnalando agli uomini che il Figlio di Dio non era piú sulla Terra.
Ma sapeva che non era il semplice racconto dei fatti e miracoli che si voleva da lui. Patmo, quell’esilio totale, la tabula rasa della vita naturale, doveva servire ad altro. Il suo compito era contenuto nelle parole dette da Gesú a Pietro, l’ultima volta che era apparso ai discepoli dopo la Resurrezione e prima di ascendere al Padre. Alla domanda dell’antico pescatore di Cafarnao: «E di lui, che ne sarà?» il Maestro aveva risposto: «Se io voglio che questi rimanga fino a tanto che io ritorni, a te cosa importa? Tu seguimi!»
Spesso usciva dal suo riparo nella roccia, portandosi alla sommità di una rupe da cui guardava il mare percosso dal vento. Si alzavano dalla superficie nubi e vapori. Le onde sotto la sferza violenta del soffio schiumavano, creavano onirici inganni di forme e presenze. Il sibilo si accaniva contro i frastagli del monte, scuoteva i radi arbusti di cardi e aneti, impaurendo lucertole e scorpioni, che si rintanavano rapidi. Nelle giornate piú chiare, quando il vento spirava dalle montagne del Tauro e la foschia si diradava, riusciva a scorgere l’isola di Samo, quasi unita alla costa Lidia. Oltre, era Efeso. La immaginava biancheggiare distesa tra la foce del Caistro, fiorita di giunchi e papiri, lungo la costa folta di pinete, dal porto animato di traffici fino alle colline dell’Anatolia. Ma non era piú la città dei fervori cristiani delle origini. Domiziano aveva ripristinato i culti pagani, e nel suo tempio, meraviglia del mondo, Artemide riceveva rinnovati onori e devozioni. I cristiani subivano persecuzioni, torture e carcere, a volte perdevano la vita. Si chiedeva se gli emissari dell’imperatore romano avessero risparmiato la casa, poco fuori città, dove la madre di Gesú era passata dalla vita terrena a quella celeste. Anche in quel portentoso transito della materia che si assimilava al divino, una grande luminosità si era propagata dal cielo, permeando le cose e gli uomini. Sempre quella luce, che al suo acme di intensità diventava turbine sonoro, parola ardente, Logos, Spirito divino alitante nella materia resa vivente.
Un fuoco partito da ignote scaturigini percorreva i secoli e colmava le anime degne, ne faceva oracoli viventi del Verbo. Come Elia, rapito in cielo da un turbine di luce e vento, come Ezechiele, al quale, sulle rive del fiume Chabora nell’esilio di Babilonia, si erano dischiuse le porte del Cielo. Gli tornavano alla mente le parole delle Scritture: «Ed ecco, vidi un turbine di vento che veniva da settentrione, e una nube grande, e un fuoco che in lei si immergeva, e uno splendore intorno ad essa, e al suo centro una immagine come di elettro». In mezzo a quel vorticoso bagliore, il profeta aveva ravvisato quattro figure che avevano rispettivamente faccia di uomo, di leone, di bue e una, con sembianze di aquila, che sovrastava le altre tre.
Forse quell’isola perduta nel Mare Egeo, quello scoglio battuto dal vento e morso dalla salsedine, rappresentava la soglia estrema di una realtà terrena varcata la quale lo attendeva la visione straordinaria di quel luogo eccelso dove nella Triade divina il Figlio sedeva alla destra del Padre. Sostenere tale folgorante radianza, librarsi in cosí alti cieli e penetrarne i piú reconditi misteri, tutto ciò richiedeva al suo essere proprio le virtú del re degli uccelli, capace di fissare il sole a occhi aperti e tendere le ali fino agli spazi eterei, oltre i limiti concessi all’uomo.
Portata dai tedofori dello Spirito divino, la fiamma sonora del Logos, passando da Elia al Battista e da questi a lui, si accingeva ora a manifestarsi. Cosí aveva promesso il Cristo: «on vi lascerò orfani aveva detto tornerò a voi», e ancora: «Quando sarò partito e avrò preparato il luogo per voi, verrò di nuovo e vi prenderò con me». Ma il Maestro, ne era certo, non parlava ai pochi che erano con Lui nel cenacolo: si riferiva a tutti gli uomini uniti nel Suo nome. A lui toccava ora il compito di narrare la Parusia finale: l’Apocatàstasi dalla quale sarebbe iniziato il mondo nuovo.
Soltanto da una terra nuda, senza alcun segno dell’umano corrotto dalla venalità e dalla superbia, dove non erano templi né palazzi né libri né ori, solo da un luogo privo di civiltà imperfetta si potevano estrarre i materiali animici per edificare la Chiesa dell’Uomo interiore, su fondamenta e conoscenze inedite. Patmo era solo il prologo all’avvento del Regno di Dio, di quella Gerusalemme celeste dove dolore e morte “e tutte le cose di prima non saranno piú”.
Doveva soltanto aspettare che luce e vento si fondessero nel turbine sonoro e lo rapissero. Il suo spirito era pronto.

Ovidio Tufelli

Immagine: Gustave Doré «Giovanni a Patmo»

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