Nella storia spirituale
dell’uomo vi sono pochi testi cosí potenti e autenticamente rivoluzionari
– rivoluzione, nel senso etimologico, significa revolvere, ossia
ritornare alle origini – come questo Vangelo metafisico dell’India ariana.
Si consideri, innanzitutto,
la particolarità della visione meditativo-religiosa indiana, la
quale fonda ogni riflessione filosofica su una precedente esperienza spirituale
vissuta, che consiste nella realizzazione diretta e in-mediata (anubhava)
di stati di coscienza cosmici e sovrumani, il cui carattere è aspaziale
e atemporale(1).
Una tale visione è
totalmente affidata alla centralità cosmico-magica dell’ente-uomo,
tant’è che, anche per l’attuale filosofia indiana (Ramana Maharsi,
Aurobindo Ghosh ecc.), è assolutamente vigente l’antichissima norma
vedica: chi non sia un Dio non può rendere culto a un Dio (na
^ adevo devam arcayet). Questo atteggiamento fa senza meno appello
alle forze volitive, eroiche presenti in colui che si appresta a compiere
il rito, il cui fine non è tanto quello di rendere omaggio al Dio
oggetto di devozione (bhakti), quanto quello di realizzare nell’asceta
l’autoluminosità del sé umano (jiva-atman), rispetto
all’universa realtà (brahman), annientando cosí l’originaria
ignoranza cosmica (a-vidya), causa della dualità tra l’Io
e il grande sé (mahan-atma), entità solare primordiale
di cui le stesse divinità del pantheon indiano sono pure ipostasi!
La realizzazione – su un
piano conoscitivo – dell’unità metafisica dell’Io umano con l’Uno
universale è quindi l’essenza che contraddistingue la meditazione
teoretica indiana. La severa disciplina che deve condurre a questa cosmicizzazione
dell’individuo è lo yoga: un soggiogamento-incatenamento delle illusorie
forze psicosomatiche, fonti di dogmi e astrazioni, e una liberazione in
vita (jivan-mukti), ovvero il fluire della essenzialità (la
“quiddità” della Scolastica) spirituale nel tessuto animico individuale.
La Bhagavad Gita,
«Canto del Beato», fa parte dell’ambito religioso Krishnaita.
Krishna è infatti l’incarnazione del Dio-uomo cosmico, il quale,
nella guerra narrata nei 700 versi della Bhagavad Gita, combatte
a fianco dei Pandava, figli di Pandu “il pallido”, contro i Kaurava (discendenti
di Kuru).
Arjuna, il capo dei cinque
fratelli Pandava, incarnazione del dio Indra, proprio nel momento di dare
vita al guerreggiare si sente spossato e privo di forze per attaccare,
tanto che si chiede se non sarebbe meglio perire piuttosto che commettere
il peccato di uccidere persone della propria casta e i propri stessi parenti.
A questo punto – mediante una epifania – Krishna interviene presso Arjuna
– “il Raggiante” – sotto forma di Auriga (che, come già nelle Upanishad,
simboleggia l’Io cosmico ordinatore delle caotiche forze psichiche e sensuali)
e gli comunica una vera e propria Scienza Occulta, la morale cavalleresca
di questo meraviglioso poema.
L’eroe-asceta, impegnato
nell’azione, non deve rinunciare ai patimenti o alle gioie che essa comporta,
ma deve distaccarsi animicamente (tyaga) dai risultati pratici dell’azione
medesima (bhoga, il fruimento) – vittoria, sconfitta, gioia, dolore
ecc. – affinché il principio trascendente-Krishna fluisca in lui
e lo guidi nell’agire senza agire.
«Nessuno muore e nessuno
nasce» insegna Krishna: ciò vuol dire che ogni ego individuale
porta occulto in sé un Io superiore, Luce piena di Vita, che rimane
immoto e inalterato nonostante ogni accadimento karmico.
La via dell’Io solare e
della salvezza è quindi quella del puro combattimento, della strenua
lotta che, a differenza di altre concezioni, non conosce separazione di
piani; nel monismo magico indoario non esiste dualismo, ma, casomai, una
naturale e armonica gerarchia di piani fisici e celesti che recano, entrambi,
il soffio dell’Uno primordiale (tad Ekam): tutto dal Logos discende
e tutto al Logos deve riascendere.
Questa morale guerriera,
che si fonda sull’azione per l’azione e sulla immaginazione magica del
superamento del Nemico dell’uomo, interiore ed esteriore, è la via
della liberazione dal ciclo oscuro e caotico del samsara, l’autentica
ascesi dell’uomo Ario (arya, appartenente alle persone degne di
rispetto), basata sul principio del vero Amore Immortale, identità
pura e metafisica tra l’Io sono e il mondo, reso libero dalla pietrificazione
ahrimanica.
L’azione propugnata dal
Canto del Beato è, come visto, l’azione che nell’agente è
interiormente libera dai frutti che questa stessa comporta (karma):
è pertanto l’agire conforme al vero Ordine cosmico (rta),
l’atto metafisico che annichilisce l’egoità imprigionata nella materia
(prakriti) e nella continua mutabilità impermanente dei tre
guna, dato che l’uomo può cosí sperimentare la sintesi
di bhoga, fruimento dell’azione, e yoga, ascesi pura. Quest’atto
metafisico è gnosi trascendente (jnana), intuizione sopramentale
nel buio psichico, che corrisponde alla discesa della bhakti nel
sentire umano. Bhakti vuole dire sentire, ma nel senso di sperimentare
il Divino magicamente operante nelle universali leggi naturali.
Questo sublime insegnamento
del guerriero ario dell’India primordiale non può certamente essere
confuso con presunte guerre sante, che in realtà andrebbero piú
appropriatamente definite guerre di conquista, le quali a differenza di
quanto predicato dalla Bhagavad Gita sono tutte protese al fine,
piuttosto che distaccate da esso; il fine in questione è semplicemente
la totale sottomissione di tutti i non credenti, affinché si attui
una mondiale società teocratica, regolata da dogmi e ferree norme
jahvetiche, alle quali i cosiddetti Dottori della Legge non consentano
si trasgredisca. Ora, questo normativismo giuridico (nemmeno etico-morale!)
a cui ci si deve sottomettere è la negazione piú recisa dell’autentica
Tradizione Solare d’Occidente, di cui la Bhagavad Gita è
uno dei piú elevati vertici metafisici. Il guerriero ario combatte
perché questa è la sua suprema via di autorealizzazione,
la sua autentica natura, quindi non per conquistare un paradiso essenziato
di gioie naturali o per imporre con la forza il suo credo. Non a caso il
prof. Filippani Ronconi ha scritto:
«A voler caratterizzare
l’etica della Cavalleria, cosí come si è andata formando
nel nostro Occidente dal X al XIII secolo, si può dire che essa
esprima i propri ideali quando si afferma come una consacrazione para-religiosa
della vita e delle opere del Cavaliere: l’essenza guerriera dell’homo
d’arme o dell’homo de mesnata, obbedendo ad un principio trascendente
si tramuta in servizio, talvolta perfino in sacrificio per la fede, per
la giustizia, per la vedova e l’orfano e per il pellegrino, secondo l’impegno
solenne a cui si è obbligato durante il solenne rito dell’”addobbo”.
Questo, che al principio era solo un rito di passaggio dall’adolescenza
alla virilità guerriera dei Germani, si trasforma lungo il cammino
dei secoli in un’autentica iniziazione sub specie christianitatis,
che mira a trasformare la vita interiore di colui che, fino a poco tempo
prima, era stato paggio o scudiero o, nella migliore delle ipotesi, il
vassaletus di un gran signore …Ma, se vogliamo conoscere le radici
metafisiche dell’essere cavaliere, dobbiamo abbeverarci alla millenaria
cultura indiana e alla tradizione iranica, dove questo ideale viene esaltato
in una dimensione religiosa, in particolar modo dalla Bhagavad Gita,
il Canto del Beato, il Beato essendo il Dio Krishna – uomo e Dio allo stesso
tempo – dato che Krishna ha una nascita umana e morirà fisicamente
per una frecciata scoccata da un ignoto cacciatore, Jaras, “il Vecchio”,
in una data certa – 3120 a.C. – con cui inizia l’“Età dell’Oscuramento”,
il Kali-yuga, per cui l’Umanità entra nella storia»(2).
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Il significato sacro e occulto
della funzione regale (rajanya) e della morale ksatriya è
quindi un ideale di tolleranza, come nella migliore romanità, di
amore per la distanza e le differenti culture; niente di piú lontano
da ciò è quindi l’imporre, con la forza e la sopraffazione,
la propria morale o la propria religiosità, appiattendo e avvilendo
in un barbaro livellamento il differente genere spirituale e culturale
umano.
Potrebbe, invece, risultare
interessante osservare come nella Bhagavad Gita, cosí come
in altri testi di provenienza indoeuropea, vi sia spazio per un assunto
la cui modernità è senza dubbio sorprendente: essendo la
dimensione in cui “origina” la guerra una dimensione metafisica, occulta,
vi sono in un contesto bellico delle concrete entità spirituali
di segno luminoso che si fronteggiano, per lo piú, con entità
telluriche di segno negativo, il cui fine è ostacolare la retta
evoluzione spirituale dell’uomo.
Da questo si evince che
l’atto del guerriero non è affatto un atto frutto di un’ideologia,
politica e religiosa, già bella e fabbricata, che aspetta solo di
essere applicata con la violenza (es. la conversione forzata di popoli
che non conoscono la Rivelazione, l’instaurazione della democrazia collettivista
per il progresso umano ecc.), o ancora, frutto del gusto e del piacere
soggettivo, ma al contrario è un atto di Volontà Solare super-individuale,
una pura visione veggente, vidya, compiuta in un clima di estremo
sacrificio, di mistica tensione e di pericolo, non solamente per il superiore
Bene della propria Nazione, ma, anche, affinché si compia quanto
dicono gli indiani: katam karaniam «è stato compiuto
quel che deve essere compiuto».
Per cui, in un contesto
storico in cui un indegno Occidente, dimentico di sé, rinnega le
proprie piú nobili tradizioni spirituali, non ci si può non
volgere pieni di devozione a questo sublime vangelo dell’India.
(1) Per approfondire, si veda: M. Scaligero,
Yoga, meditazione, magia, Teseo, Roma 1971; P. Filippani Ronconi,
L’induismo, Università di Napoli 1959; Von Glassenap, Filosofia
indiana, SEP 1962
(2) P. Filippani Ronconi, L’etica cavalleresca della Bhagavad
Gita, Perugia 1999
Immagine: Krishna e Arjuna sul carro alato suonano
la sacra conchiglia Shanka per incitare i guerrieri alla battaglia
in cui si confrontano le forze del Bene e del Male
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