- È inevitabile per il cercatore
spirituale, che voglia essere completamente sincero con se
stesso, di partire da quello che egli concretamente è,
dalle forze limitate e dalla ancora parziale consapevolezza
che possiede. Talvolta il sentiero del cercatore spirituale
ha al suo inizio una crisi radicale che travolge le certezze
umane, intellettuali, morali – in verità di consistenza
solo apparente – della vita cosiddetta “normale” e
scuote violentemente tutta la struttura interiore dell’uomo.
Questa crisi – radicale – è forse il momento piú
prezioso di tutto il suo cammino, quello piú intenso e
sincero, nel quale il cercatore vede – in taluni casi per
la prima volta – in maniera inattenuata il vero aspetto
della condizione umana generale, e, soprattutto, quella sua
individuale, personale. Questa crisi è il principio del
cammino spirituale: principio non tanto, o non solo, in
quanto inizio temporale dal quale si prendono le mosse per
la ricerca, ma soprattutto come situazione-limite, come
stato interiore dell’anima nel quale l’urgenza e il
pericolo hanno fatto emergere forze che, altrimenti,
avrebbero vegetato nel sonno torpido e ottuso di una
condizione vitale e animale indisturbata: in una condizione,
appunto, “normale”.
- È indubbiamente una crisi molto
pericolosa, che sommuove dal profondo dell’anima tutte le
forze dell’essere umano, cosí che questi è costretto a
far fronte ad un’emergenza, che violentemente travolge
tutto ciò che vi è di autentico in lui e nel mondo attorno
a lui. Crisi che il suo essere cosciente – limitatamente
cosciente – non ha voluto e che il Destino gli ha portato
incontro come un enigma che è per lui vitale sciogliere,
come una prova estrema da superare. L’emergenza mette in
evidenza quanto poco cosciente, appunto, sia la sua
coscienza, quanto radicalmente egli s’inganni sulla
saldezza delle proprie “certezze”, quanto relativi, o
addirittura falsi, siano i “valori” ai quali, prima
della crisi, con ingenua fiducia si affidava e che
costituivano la “concretezza” e la “normalità”
della sua vita. Se, per viltà o per “ignoranza”, tenta,
o s’illude, di evitare l’affrontare la prova – che
irrompe repentina e violenta – la crisi può avere un
esito catastrofico, addirittura letale.
- Non sempre all’inizio della Via
vi è questa crisi totale, ma – per quanto ciò possa
sembrare paradossale – il verificarsi di essa è da
considerarsi un evento particolarmente felice, addirittura
un prezioso dono del Cielo, del quale ci si accorgerà
presto di dover essere grati, come di un privilegio raro che
il destino ci concede, perché questa crisi ci offre l’occasione
di un energico risveglio interiore, di una trasformazione
decisiva, che può giungere sino alle radici piú profonde e
nascoste della nostra anima. A quel momento decisivo il
cercatore dello Spirito può sempre di nuovo riportarsi:
può evocarne l’intensità, il potere risvegliatore e
purificatore. In effetti, l’emergenza improvvisa, l’evento
critico, ha il potere di mobilitare le forze piú energiche
dell’Io ed evoca il clima vero dell’anima nel quale si
deve svolgere l’ascesi, perché questa sia feconda: dà la
misura dell’intensità della forza che ogni volta deve
essere impegnata nell’esercizio interiore.
- L’aiuto piú prezioso della
crisi, il suo dono veramente inestimabile, è il
dissolvimento della sensazione di apparente “normalità”
della vita abituale, cioè il dissolvimento o la demolizione
di quella menzogna che stempera l’aspetto tragico dell’esistenza
– che è il suo volto autentico – diluendolo nelle
banalità della tran-tranquillità quotidiana, e spegne,
narcotizzandola, la percezione intensa, anche se dolorosa,
dell’urgenza dell’azione interiore che la condizione di
pericolo, o la prova estrema, sollecita. La sensazione dell’apparente
“normalità” del vivere solito è soltanto un’abitudine
emotiva, ossia il ripetersi passivo, sempre piú meccanico,
di uno stato d’animo obbligato, che venendo subíto in
forma sempre meno cosciente, arriva a diventare uno stato
cronico, una vera e propria memoria organica, profonda, che
come una falsa spontaneità prevarica sull’Io e impone il
modo “naturale” di vedere e di agire nel mondo. Questa
ipnotica abitudine alla “normalità” ha un effetto
anestetizzante – ossia desensibilizzante – sulla
coscienza, la cui consapevolezza si abbassa e, come
conseguenza di questo intorpidimento, cessa la tensione
della volontà, la sfrangia e la disperde, sino a che non vi
è piú presa su una volontà ridotta al sonno e alla
paralisi. Per molti – per i piú ormai – è addirittura
inconcepibile e indesiderata una condizione dell’uomo
diversa da questo turpe servaggio.
- Il dissolvimento dell’aspetto di
apparente “normalità” di una vita, la cui spenta routine
è basata sulla visione ottusa e pigra di certezze
approssimative e di valori limitati e scontati, porta l’asceta,
che vuole realmente percorrere l’aspro sentiero della
realizzazione spirituale, ad attuare coraggiosamente lui
stesso, per iniziativa autonoma, quest’opera di
destabilizzazione della assestata “normalità” animale,
a voler vivere in uno stato interiore di mobilitazione
permanente di tutte le proprie forze, ad impegnare in
maniera incessante la volontà consacrata in una disciplina
alacre, intensa, fervida, serrata, volta ad affrontare
risolutamente ogni limite interiore incontrato, a combattere
instancabilmente, per superarlo, ad amare, con nostalgia
appassionata, questo stato interiore dell’anima assetata d’Assoluto,
che non si acquieta nella “normalità” di un’animalità
indisturbata, ma è teso a superare con slancio quella
barriera con la quale la “natura” domina ferreamente
coloro che subiscono passivamente il suo tirannico imperio e
contro la quale s’infrangono gli sforzi pavidi ed indecisi
di coloro che spensieratamente “giuocano” con lo
spirituale e che vorrebbero ridurlo al proprio fiacco
livello, per evitarne la travolgenza trasformatrice.
- Se al principio del sentiero
spirituale non si verifica questa crisi totale – che,
ripetiamo, oltre che necessaria è “felice”, “fausta”,
in definitiva “augurabile” – è molto difficile che si
abbia, nel procedere, l’energia richiesta per una
trasformazione radicale di sé. È veramente difficile che
si abbia questa energia, perché non se ne scorge la
necessità: restando immutata la visione del mondo e della
vita, non venendo incrinati dalla crisi e fatti vacillare
gli illusori valori sui quali ci si appoggia, non si ha la
forza di percepire che la condizione umana è una condizione
ad alto rischio, una situazione pericolosa, tutt’altro che
stabile e salda, anzi, estremamente fragile e precaria, per
la quale sarebbe oltremodo salutare – e salvifico – lo
scuotersi dal tramortito sonno della visione “normale”
delle cose e della vita e il vincere – ed è necessario
lottare per farlo – il modo “normale”, “naturale”
e “spontaneo” di un comportamento creduto autonomo e
nostro, mentre è soltanto il segno di quanto siamo dominati
e giocati da Deità Avverse.
- Nella via egoica, si accoglierà
dello Spirituale quel tanto che non incide ed altera l’andamento
piú o meno tranquillo o agitato – a seconda della “natura”
che ci domina – della vita abituale. Ovverosia, il centro
dell’esistere sarà costituito dal fatto che si mangia, si
beve, si lavora, si gioisce e si soffre, si perseguono le
proprie varie ambizioni, grandiose o meschine, comunque
illusorie: tutto questo lo si chiama “vivere”, lo si
ritiene un valore assoluto. A lato di questo “vivere” vi
sarà, perifericamente, come comoda cornice egoica, una
spiritualità timida e consolante, oppure una spiritualità
“culturale”, intellettualmente “interessante”, che
porti una nota di colore e un po’ di varietà nella noia
esistenziale e nella vacuità sostanziale di un “vivere”
spento e ripetitivo, che è un morire e un decomporsi dell’anima,
al quale non si ha la forza – per comodità – e il
coraggio – per viltà – di opporsi. Per questa ragione,
per questo stato di menzogna rispetto alla situazione di
concreto pericolo, che si evita di conoscere, e di
diserzione con la quale ci si sottrae all’impegno di
lottare per lo Spirito, la via egoica impedirà che si
proceda oltre i primi passi, paralizzando ogni sforzo che
possa destabilizzare lo stagnante status quo.
- Nella via eroica, la crisi
radicale demolisce tutto ciò, mostrandone l’irrealtà e
la distruttività. Il discepolo si accorge dello stato di
sordità e di opacità spirituale nel quale era immerso e
della paralisi della sua volontà vera, quella capace di
movimento autonomo rispetto alle sollecitazioni della “natura”.
Al centro del suo esistere viene ora a porsi, come
necessità vitale, la ricerca della conoscenza spirituale,
la realizzazione del suo autentico essere interiore. Lo
Spirituale diviene per lui l’essere reale, concreto,
centrale del suo esistere, e l’impegno ascetico è ciò
attorno a cui ruota, tutta intera, la sua vita che anela a
rispondere al richiamo dell’Assoluto. Questa è per lui la
necessità vitale: rispetto ad essa la vita esteriore, che
pur vive, con le sue gioie e i suoi dolori, con le sue
necessità e i suoi drammi, con i suoi doveri ai quali non
si sottrae, diviene provvisoria, contingente: periferica
rispetto alla concentrazione interiore continua, intensa,
fervida, che la sua consacrazione alla Via spirituale, in
quanto via eroica, esige. Ovviamente è inevitabile vivere,
e il vivere ha giustamente, al suo livello, le sue
necessità, i suoi impegni, che comportano doveri e
responsabilità. Ma in quanto valore apparente,
illusivamente autonomo, questa vita esteriore, contingente e
periferica, se è vista come realtà in se stessa e come
scopo a cui volgersi, diviene il campo della frantumazione e
della dispersione, proprie alla molteplicità esteriore,
contrapposta all’unità e alla concentrazione dell’essere
interiore. Nel suo risuonare nell’anima e nell’afferrare
il sentire, l’apparire consuma e oscura la vitalità
spirituale, erode e paralizza le forze del volere. Alla
presa illegittima dell’apparire, l’asceta si sottrae,
svincolandosi, “morendo al secolo” – come dice un
antico testo ermetico – ossia al mondo, pur rimanendo
attivo, cosciente e sensibile nel mondo. È un morire al
passivo e involontario assenso che il nostro essere
istintivo, “naturale”, “normale”, vorrebbe dare,
come in passato, ai valori irreali dell’apparire del
mondo, che non è il mondo.
- Abbandonata la riva falsamente
rassicurante dell’antico modo di esistere, che ora, in
conseguenza di questa voluta morte dell’essere apparente,
si realizza vuoto e inconsistente malgrado le sue molte
lusinghe, ci si inoltra a guadare una perigliosa corrente, e
si avverte la necessità di conquistare, con fatica e lotta,
nuovi valori e nuove, meno peregrine, certezze. Con la lena
di chi tende ad una mèta fortemente anelata, si
moltiplicano gli sforzi che, procedendo nel cammino,
crescono in numero, intensità e durata, e arrivano a
coinvolgere tutto l’essere cosciente. È mutata alquanto
la visione del mondo e della vita, e i nuovi valori, ai
quali si fa riferimento, sono il risultato di duri sforzi,
di aspre lotte, di insistenza tenace oltre ogni sconfitta,
oltre ogni inevitabile fase di oscurità e di aridità.
Tutto ciò fa procedere per un lungo tratto nel cammino. Poi
vi è l’arresto e nuovamente la crisi.
- La crisi che sopravviene sembra
non abbia possibilità di superamento, in quanto
sopraggiunge allorché nell’ascesi – sempre che non ci
si sia risparmiati, ovvero non si sia seguita la via egoica
– si sono esaurite tutte le forze delle quali si
disponeva, ed anche i valori, conquistati a prezzo di
dedizione e sforzo, mostrano di essere, a questo punto, anch’essi
contingenti e relativi. Per quanto preziosi, anzi
assolutamente necessari, si siano dimostrati nel cammino
sino ad allora percorso, essi ora mostrano la loro
relatività e provvisorietà e, per quanto siano stati utili
nella loro trascorsa funzione, oramai esaurita, si rivelano
adesso incapaci di farci superare il sopraggiunto limite che
ci arresta. Per quanto si continui con ostinata tenacia nell’ascesi,
ci si avvede che, continuando cosí, non si procederà
oltre. Ci si senti di fronte ad un abisso che non si riesce
a varcare, ad una parete di impenetrabile roccia che non si
riesce a superare. Tutto ciò può condurre alla
disperazione. Si è coscienti che non si può tornare
indietro, che il sentiero percorso è franato o scomparso
alle nostre spalle e che questa crisi, qualitativamente
diversa dalla precedente, è, come quella, decisiva e
altrettanto pericolosa. Se prima si trattava di “morire al
mondo”, ora si tratta di “morire a se stessi”, e
questo è qualcosa che costa moltissimo, perché si tratta
di morire non a un mondo profano e fatuo, del quale si
scorgeva la vacuità, bensí a quanto ci siamo duramente
conquistati, a quanto è diventato “noi stessi”, al
prezzo di superamenti, sforzi, rinunce.
- Ancora una volta è necessario
essere completamente sinceri con se stessi e riconoscere che
i “valori” conquistati, ai quali facevamo riferimento, e
la visione del mondo, della vita, di se stessi, alla quale
ci eravamo sforzati di giungere, erano quello che, partendo
da ciò che eravamo all’inizio del cammino – ossia
limitatamente coscienti e solo parzialmente mutati –
eravamo in grado di concepire. Ma era, tuttavia, un modo di
concepire, di intuire la mèta e il cammino ancora “umano”,
ossia ancora soggettivo e provvisorio. Abbiamo detto che la
crisi iniziale è importante, perché essa è il principio,
ossia il modello, l’archetipo della necessaria
trasformazione interiore. Il suo sopraggiungere non era
stato da noi voluto: era un dono del Cielo e del Destino. Ma
ad esso possiamo sempre di nuovo richiamarci. La sua azione
di dissolvimento dell’apparire e del contingente in noi,
possiamo audacemente volerla. Possiamo, rovesciando gli
appoggi ai quali ci aggrappiamo, aprirci coraggiosamente all’assolutamente
nuovo, all’ignoto, ancora inconcepibile, ma presentito
necessario e reale.
- Per cui di fronte allo spalancato
abisso che ci blocca, alla impenetrabile roccia che ci
arresta, possiamo, rivolgendoci al Mondo Spirituale, alla
Suprema Potenza che regge i destini degli uomini e del
mondo, chiedere che venga suscitata in noi l’intuizione
vivente del compito che ci attende e che è necessario
affrontare. Questa richiesta, meditata, a lungo ripetuta,
intensamente sentita, appassionatamente rivolta al Cielo,
con sincerità, con slancio, con coraggio, con disperazione,
può suscitare la percezione lucida dell’azione interiore
richiesta al superamento dell’abisso. Può essere donata l’intuizione
o la consapevolezza di quanto prima necessariamente ci
sfuggiva, perché non avevamo le forze per concepirlo, e che
ora si presenta in tutta la sua concretezza. Quanto intuito,
se accolto con coraggio e venerazione, diviene una forza
agente, trasformatrice della nostra interiorità e del
Destino.
- Per impreviste e imprevedibili
vie, a questo punto, la vita porta incontro al cercatore
compiti e prove talvolta estremamente dure, che trasformano
l’esistere in un insonne lottare contro la morte, nel
quale l’accelerazione degli eventi non permette piú la
stasi inerte, propria alla via egoica.
- Questo lottare esige la
consapevolezza che la Via non è per noi, ma per il Divino,
che il superamento della nostra soggettività, mai esaurito
e definitivo, ci apre alla possibilità di fare
coraggiosamente nostri – in libertà e per amore – i
fini dello Spirito, che il sacrificio del transitorio e dell’effimero,
nella visione del mondo e di noi stessi, accende nelle
nostre anime il fuoco celeste, la folgore che, percotendola,
dissolve la “natura” inferiore e la riplasma secondo il
Logos, che la nostra anima “ignificata” può tuffarsi
nell’apparire e riconsacrare ogni aspetto della vita e
dell’esistere. Questa trasformazione interiore può
portare ad incontrare grandi difficoltà, di fronte alle
quali inizialmente ci si potrà sentire non adeguatamente
preparati. Potrà portare ad una involontaria solitudine,
anche esteriore, per l’intensità e la rapidità degli
eventi che violentemente possono irrompere inaspettati nella
nostra vita. Potrà portare persino ad una anche troppo
prevedibile incomprensione, da parte di molti, rispetto a
scelte e ad azioni che rispondono a richieste imperiose
degli eventi, e che possono condurre ad un agire tempestivo
e talvolta ‘fuori’ rispetto alla conformità alle regole
convenute: quindi ‘problematiche’ di fronte alle “abitudini”
mentali e morali proprie ad una “normalità” irrigidita,
che paventa e resiste di fronte ad una trasformazione
radicale.
- Quelle scelte, e la decisione ad
esse relativa, scaturiscono nel silenzio del sacrario dell’anima:
per la loro natura comportano solitaria responsabilità di
fronte al Cielo e a se stessi, e non cercano condivisione.
- Questa crisi, e lo scenario non
proprio semplice che a questo punto si apre, possono
rivelarsi una vera e propria “discesa agl’Inferi” e
– per dirla con un nostro vecchio concittadino – non
sono cosa da prendere a gabbo e, proprio per la natura delle
cose, riteniamo che il temerario e poco invidiabile
viandante possa e debba trovare il suo Virgilio.
- Massimo Scaligero, che è stato al
contempo un audace Enea e un sapiente Virgilio, ci ha
mostrato che possiamo trarre la forza per vincere la prova
della consapevolezza che la Via è per il Divino e che il
fuoco sacrificale della consacrazione all’Opera, acceso da
amore per l’Assoluto, trasmuta la nostra individualità,
imperfetta e confusa, nel veicolo cosciente dell’azione
trasformatrice del Logos.
- Questo trasmutante fuoco celeste,
questa consacrazione sacrificale, Massimo Scaligero ce li ha
donati nell’insegnamento vivente della sua parola, da lui
instancabilmente offertaci, nelle sue opere nelle quali
rifulge la luce della celeste Sophia e irradia il calore del
suo Intelletto d’Amore. Con la sua vita, con il suo
coraggio, con la sua veracità e la sua moralità, ci è
stato esempio eloquente dell’audacia e dell’ardore con i
quali si può, per amore dello Spirito, esigere da noi
stessi il superamento dei limiti della“normalità” e la
realizzazione spirituale autentica.
- È la via eroica dell’ascesi
solare, del Pensiero Vivente, la via del coraggio e della
fedeltà all’Archetipo Celeste, la via insuperata del
pensiero folgorante che dischiude il varco alla Sapienza
trascendente, che è Sapienza d’Amore.