Alchimia

1. La premessa morale

Scopo ultimo della Grande Opera alchemica è, come sappiamo, la fabbricazione dell’Oro dell’arte. Ogni operazione dell’alchimista è quindi diretta a questo fine. I falsi alchimisti, o soffiatori di carbone, divorati dalla sete di potenza che concede la ricchezza, intendevano lo scopo della loro arte nel senso volgare della parola e non in quello mistico-magico superiore, che è stato già caratterizzato nel corso di questo studio. Gli Adepti invece erano consci del loro grande fine e sapevano che l’uomo, il quale eleva e nobilita se stesso, lo fa per amore della missione umana e coopera con i1 suo sforzo personale alla sublime opera creatrice delle Potenze divine. Perciò lo sforzo del vero alchimista era e doveva essere un atto morale. Gli alchimisti dicevano: «Colui che desidera la Pietra Filosofale per la ricchezza ch’essa può dare e per il bene materiale ch’essa può procurare, non la troverà giammai».
Queste parole ci fanno ricordare che un simile monito si trova alla fine del primo capitolo dell’opera steineriana Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori?: «Chi aspira alla conoscenza superiore per accumulare tesori di sapere o per dominare sugli uomini, non la conseguirà giammai. Chi invece la desidera per purificare e nobilitare il suo essere, potrà avanzare di molti passi».
Questo atteggiamento morale, e il fine iniziatico dell’alchimista Adepto, non ci devono lasciar supporre che la sua attività si esaurisse unicamente in pratiche ascetiche interiori e che egli lasciasse le fatiche di laboratorio agli spregiati attizzatori di carbone. La conoscenza dell’Adepto era cosí profonda che egli sapeva che vi è un rapporto morale-naturale tra l’anima dell’uomo e l’universo fisico. Nel laboratorio egli ricercava conoscenze di ordine naturale e le mutava in conoscenze di ordine morale. Perciò il laboratorio dell’alchimista era al contempo un santuario nel quale non mancava mai il tabernacolo con la lampada accesa. La fusione interiore tra sapienza e moralità elevava l’Adepto al di sopra della schiera degli uomini comuni. La natura gli rivelava i suoi segreti attraverso le impressioni morali che egli ne riceveva. Le conoscenze cosí acquisite gli permettevano a loro volta di agire potentemente sulla sua stessa anima per trasformarla e nobilitarla. L’Adepto, per esempio, esponeva una verga di ferro all’azione del fuoco e poi la immergeva nell’acqua. Il ferro cosí si temperava, cioè acquistava proprietà che prima non aveva. Questo processo di ordine naturale permetteva all’Adepto di comprendere l’analogo processo di ordine morale che subisce l’anima dell’uomo quando passa attraverso le prove del fuoco e dell’acqua. Non è senza caso che la parola “tempera” sia parente della parola “temperamento”, che sta a denotare la presenza dei quattro elementi entro la complessione umana. Tanto l’una quanto l’altra derivano poi da “tempus”, che indica le forze elementari entro la natura. In verità una sola legge divina e una sola materia cosmica governano ogni aspetto della realtà.

2. Uomo e natura

Non a torto l’alchimista affermava che non vi è nulla nella natura che non sia al contempo nell’uomo. È appunto la Scienza dello Spirito antroposofica che ci aiuta ad estendere il concetto di umanità fino agli estremi limiti del nostro cosmo solare. La vera e la sola opera creatrice degli Dei è l’Uomo. Non vi è nulla di creato che non sia una parte dell’uomo. Dovunque volge lo sguardo, l’uomo non scorge altro che se stesso. I minerali sono umanità rimasta indietro al grado di Saturno; le piante sono umanità fermatasi al grado solare; gli animali sono umanità evoluta solo fino al grado lunare. Qualora non si voglia dare alla parola un significato deteriore, è giusto definire la natura quale scoria dell’uomo. Perciò i segreti della natura che l’alchimista cercava, erano in realtà i segreti dell’uomo. Con le forze della natura egli sapeva di poter agire sull’uomo, e con le forze dell’uomo sulla natura. Tra le piú grandi leggi cosmiche scoperte dall’alchimia, è quella che soltanto il simile agisce sul simile. Gli alchimisti affermavano che la loro scienza era allo stesso tempo Teosofia e Medicina, perché le conoscenze che essa trasmetteva erano atte a svelare i segreti dell’opera divina e a risanare l’organismo umano malato. Ciò è possibile solo per il fatto che, prendendo un medicamento tratto dai minerali o dalle piante, l’uomo assume in sé delle forze che appartengono alla sua stessa natura. L’uomo trae dalla sua stessa umanità le forze di cui abbisogna. Conscio di questa legge fondamentale, il genio di Paracelso pose sull’alchimia le basi della moderna medicina scientifica. Del resto la stessa legge si manifesta in maniera mirabile nel grandioso processo della nutrizione.

3. L’omologia della realtà

L’unità è la grande legge dell’universo. Dice Zosimo (III sec.): «Ogni cosa procede dall’unità, ogni cosa si ordina nell’unità, ogni cosa è moltiplicazione dell’unità». L’unità dell’opera divina è data dall’uomo. Ogni realtà creata, come abbiamo visto, è umanità a diversi stadi della sua evoluzione. L’essere è dunque l’unità del molteplice sussistere dell’universo creato. Eppure l’essere appare non semplice, ma complesso. Non unità dunque, ma dualità viene ad espressione attraverso ogni forma di essere. La dualità è data dalla forma e dal contenuto, da una essenza interiore e da un aspetto esteriore, dall’Anima e dal Corpo. Ciò vale tanto per l’uomo, quanto per l’universo. Alla luce delle considerazioni fin qui svolte, non deve perciò far meraviglia che gli alchimisti attribuivano anche ai metalli un contenuto animico-spirituale trascendente. Essi avevano giustamente osservato che non vi è realtà che non presupponga un’essenza intima, una tintura, secondo la quale si conforma poi l’aspetto esterno della cosa. Se chiamiamo Spirito l’aspetto interno e Materia l’aspetto esterno della realtà, possiamo dire che non vi è Spirito senza Materia e che non vi è Materia senza Spirito. Questa legge si esprime con chiarezza nel segno del macrocosmo, che è dato dall’intreccio di due triangoli, l’uno bianco, con il vertice in alto, e l’altro nero, con il vertice verso il basso.
Spirito e Materia, Fuoco ed Acqua, sono dunque presenti in ogni realtà. Eppure l’esagramma lascia intendere che la dualità che ne deriva non è sostanziale, ma solo formale. Spirito e Materia, Fuoco ed Acqua, non sono che “posizioni” e “tinture” diverse di una stessa sostanza. Dunque anche la complessità costitutiva dell’essere è ancor sempre unità. La Scienza dello Spirito atroposofica ci conduce nella concretezza di questa legge del reale. Essa c’insegna che ciò che è il mondo morale dell’uomo in vita diventa il suo mondo naturale dopo la morte. E se consideriamo similmente la realtà in rapporto con la coscienza delle Gerarchie e dell’Uomo, ci appare che la Natura, se è il mondo esterno dell’Uomo, è al contempo il mondo interno delle Gerarchie.
Spirito e Materia, o, secondo gli alchimisti, Fuoco ed Acqua, sono in sé omologhi, ossia nascondono sotto l’apparenza diversa la loro identità sostanziale.

4. La via umida e la via secca

Ne deriva che ogni azione su uno dei due princípi, si riverbera di necessità anche sull’altro, o subito o in prosieguo di tempo. Il processo di perfezionamento del metallo e dell’iniziazione individuale può quindi essere intrapreso da due parti. Si può, in altre parole, svolgere un’azione sulla corporeità per influenzare l’anima o viceversa agire sull’elemento animico-spirituale per determinare un cambiamento fisico-corporeo. Nel primo caso si parla in alchimia di processo per via umida, nel secondo caso di processo per via secca.
L’iniziazione presso gli antichi indiani e nel Medioevo si svolgeva quasi esclusivamente per via umida. Gli esercizi respiratori e le pratiche ascetiche, modificando lo stato fisico-corporeo, agivano fin dentro l’essenza spirituale dell’individuo.
Nei tempi moderni, e in particolar modo nel metodo antroposofico-rosicruciano, si preferisce procedere per via secca, cioè si vivifica e si potenzia l’elemento animico-spirituale in maniera da renderlo indipendente dall’arto corporeo. In tal modo però si opera anche una metamorfosi del corpo fisico nelle sue disposizioni piú sottili.
Questa spirale, che mostra la polarità fra l’azione del Piombo e quella dell’Argento, fra l’azione dello Stagno e quella del Mercurio fra l’azione del Ferro e quella del Rame, cela uno dei piú profondi segreti della natura umana.
Gli alchimisti antichi sapevano che per influenzare uno stato di coscienza spaziale, bisognava agire sullo stato corrispondente di coscienza temporale, e viceversa. Cosí “l’eccedenza mercuriale” veniva corretta con una somministrazione di Stagno. Il Mercurio conduce l’uomo indietro nel tempo, lo porta in quella sfera spirituale in cui aveva dimora prima di discendere sulla Terra, ma in questo cammino a ritroso egli dovrebbe procedere a tastoni come un cieco, se lo Stagno non gli aprisse al contempo la coscienza che è atta ad illuminare la realtà spaziale di Giove.
Gli alchimisti agivano in questo senso in modo concreto, somministrando dosi metalliche in estrema diluizione. Oggi sarebbe oltremodo pericoloso procurarsi una coscienza superiore mediante l’ingestione di sostanze metalliche, perché nel frattempo il corpo fisico ha subíto un radicale cambiamento. Tuttavia la conoscenza della corrispondenza fra l’uomo superiore e l’uomo inferiore può essere di estrema utilità per il medico. Oggi può sembrare stravolgente l’affermazione del Dottor Steiner che per curare la tosse bisogna procurare una diarrea artificiale, e che le cause di certe malattie mentali vanno ricercate in lesioni intestinali. Eppure non è piú stravagante il fisico quando insegna che per sollevare l’estremità di un’asse in bilico bisogna porre un peso sulla estremità opposta.
Vogliamo fare sui Fiori del Loto ancora un’ultima osservazione. I Fiori di Loto, come sapete, nella loro forma luminosa e raggiante, sono chiare finestre che ci permettono di guardare nel Mondo Soprasensibile; sono invece, nella loro forma ottenebrata e caotica, propria dell’uomo comune, le porte infernali attraverso le quali entrano nell’anima i demoni degli istinti incontrollati e delle passioni irrefrenabili. In un testo alchemico antico, accanto ai Fiori del Loto sono indicati i nomi delle sette passioni, dei sette peccati capitali della natura umana: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria. In considerazione di ciò, gli alchimisti definivano “metalli neri o alterati” quelli che agiscono nella natura umana. Nel mito egizio si parla del traviamento di Iside. Iside, prima di abbandonarsi all’amplesso fecondatore di Osiride, deve spogliarsi delle sue sette vesti nere.

5. Unguento e tintura

Cerchiamo ora di capire che cos’è che produce nei metalli il processo di oscuramento e di alterazione. Gli alchimisti ricollegavano a questo fatto due espressioni di uso generale: unguento e tintura. Questi due termini sono passati dall’alchimia alla farmacia, perdendo perfino l’ombra del loro significato originale.
Ogni uomo nasce in un gruppo nazionale o razziale ben definito. I caratteri propri del popolo a cui appartiene gli s’imprimono addosso e ne modellano la forma fisica senza qualsiasi sua partecipazione. Quest’azione modellatrice di forme agente dall’esterno veniva chiamata dagli alchimisti “unguento”. L’espressione “unguento solfureo” valeva appunto per indicare quell’estratto eterico che si eredita dai genitori e che conforma il corpo fisico secondo leggi non legate all’entelechia spirituale. Invece di unguento, spesso si trova nei testi il termine di “olio”. Si badi che gli alchimisti, usando questa nomenclatura, non avevano in mente l’aspetto esterno del composto, ma la sua azione specifica interna. Cosí, per esempio, chiamavano “unguento solfureo” o “olio di vetriolo” quel composto chimico tremendamente corrosivo che oggi conosciamo con il nome di acido solforico (H2SO4) e che non è né un unguento né un olio. Se in un trattato alchemico troviamo scritto: «Per questa operazione devi usare l’olio di vetriolo», dobbiamo saper leggere: «Impiega le forze del corpo eterico».
Qualcosa di diverso si collega con il concetto di “tintura”. Se l’uomo accoglie tanto profondamente in sé un ideale che esso diventa sangue del proprio sangue e carne della propria carne, allora questo fatto, pur non riuscendo a modificare la conformazione fisica, la tinge di un particolare colore. I gesuiti hanno un colore proprio, e anche noi antroposofi abbiamo un colore proprio che ci accomuna sopra tutte le differenze, che pur sussistono, di nazione e di razza. Cosí se unguento od olio vale per estratto eterico, tintura vale per essenza astrale. È appunto un’essenza astrale che dà alla rosa il suo meraviglioso colore.
In genere, nell’alchimia il termine “tintura mercuriale” sta ad indicare una qualità animica che si riverbera fin nell’aspetto fisico esteriore. L’alchimista diceva che da ognuno dei sette metalli planetari si può estrarre la tintura, previa chiarificazione o imbiancamento. Difatti i metalli, come li conosciamo, non sono atti a tingere perché contengono la sostanza nera plumbea, l’ombra terrestre. Abbiamo già detto, parlando del Piombo Nero, che questo fatto dipende dall’influenza arimanica.

Fortunato Pavisi

Immagine: «Tintura mercuriale» da un manoscritto tedesco del XVIII secolo