Antroposofia

3. Le penne dei Pellirosse indicano la loro appartenenza ai mondi divini

Gli Indiani [d’America] non solo sanno di essere in rapporto con i mondi spirituali, ma lo manifestano anche esteriormente adornandosi di piume d’uccello. Le penne che discendono per le loro spalle hanno lo stesso significato delle ali piumate degli Arcangeli che appaiono in certe tele del Rinascimento: vogliono essere la rappresentazione fisica di organi di locomozione spirituale.
Una leggenda dei Pellirosse canadesi narra che una donna indiana ebbe un figlio con Lucifero, l’astro del mattino. A questa creatura semidivina e semiumana fu posto il nome di Piccolo Astro. Piccolo Astro poteva vivere tanto sulla Terra, quanto sul Sole e sulla Luna. Il Sole prese ad amarlo e gli rivelò i segreti della danza del Sole e i canti che dovevano accompagnarla. Perciò ogni anno, a primavera, gli Indiani danzano sulla prateria la danza del Sole che li guarisce dalle malattie. Il Sole dette a Piccolo Astro anche due penne di corvo da portare in testa come segno che egli era il suo messaggero.
Questa leggenda ha per l’occultista un senso chiaro. Le due penne di corvo stanno in luogo delle due antenne spirituali che vediamo, per esempio, sorgere dalla fronte anche del Mosè di Michelangelo. Esse sono la rappresentazione fisica del Fiore del Loto a due petali che sta nella regione frontale e con il quale l’Iniziato entra in rapporto con le Entità spirituali.
Le due penne di corvo che l’Indiano Pellirossa porta sulla fronte sono il segno della sua comunione con i mondi spirituali.
Le leggende indiane ricordano anche le condizioni di vita proprio dell’Atlantide. Una di queste dice: «C’era un tempo nel quale quella che è ora la Luna splendeva di giorno e quello che è ora il Sole splendeva di notte. Il loro lavoro era esattamente opposto a quello di oggi, perché la Luna di oggi era il Sole e il Sole di oggi era la Luna. Il Sole allora era pallido e argenteo e la Luna era invece molto rossa e lucente».
Queste strane parole, in un certo senso, vanno prese alla lettera. «Il Sole allora era pallido e argenteo». Proprio cosí. Le condizioni atmosferiche sull’Atlantide erano completamente diverse da quelle che si presentano oggi sulla Terra. Noi esperimentiamo oggi, secondo le stagioni, giornate meravigliose con il cielo azzurro e il sole fulgido, e giornate nebbiose e piovose senza sole. L’uomo dell’Atlantide non conosceva né il sole, né la pioggia. Egli viveva durante tutto il corso dell’anno in una nebbia umida e fitta che non si diradava mai. Attraverso questa nebbia il sole gli appariva, come ci dice la leggenda indiana, pallido e argenteo. L’Atlante non vedeva mai splendere il Sole nel cielo fisico; egli scorgeva tutt’al piú una chiazza luminosa che si spostava sull’orizzonte.
Di notte però egli viveva un’altra vita. Coricandosi sul suo giaciglio, non cadeva in un sonno incosciente. Sognava, ma le esperienze del sogno erano vivaci e reali. L’Atlante nel sonno percepiva coscientemente il mondo spirituale. Il Sole spirituale splendeva fulgido sul suo orizzonte. La Luna – cioè l’astro ch’egli vedeva allora di notte nel cielo spirituale – era rossa e lucente. Ecco in qual modo una semplice fiaba indiana ci illumina sulle condizioni di vita del continente atlantico.
Naturalmente il ricordo dell’Atlantide non è rimasto soltanto nelle fiabe degli Indiani, ma anche nei loro riti religiosi e nei loro testi storici. Questi testi storici e i libri sacri venivano custoditi dai collegi sacerdotali, che, presso tutti i popoli dell’America, erano anche gli amministratori del sapere e i rettori delle università. Diciamo solo di sfuggita che nelle scuole sacerdotali venivano insegnate ai giovani non solo le scienze spirituali e sacre, ma anche le scienze applicate, come la matematica, la storia, la geografia, il diritto, il cerimoniale di corte, la diplomazia, la strategia. Le fanciulle venivano educate in speciali conventi di sacerdotesse, cosí che l’istruzione era generale e diffusa presso tutti i ceti della popolazione. Nessun popolo dell’antichità ebbe tanti libri e tante biblioteche quanti ne esistevano, per esempio, presso i Maya dello Yucatan.
I conquistadores spagnoli distrussero tutte le biblioteche e incendiarono tutti i libri con feroce fanatismo religioso. La grandiosa biblioteca reale di Tezcuco, contenente decine di migliaia di opere, fu distrutta per ordine del primo vescovo del Messico. Si salvarono soltanto due opere – il Codice troano e il Codice velletreuse – che un soldato si mise in saccoccia per pura curiosità. In tutto lo Yucatan, i libri che si trovavano nelle biblioteche e nelle case private furono portati in mezzo alle piazze e bruciati in enormi falò. Gli abitanti assistevano ai roghi con volti inondati di lacrime. Erostrato passò alla storia per avere incendiato il tempio di Diana. Anche noi, ad onta perpetua, vogliamo ricordare il nome di colui che avvolse in una sola fiamma distruttrice tutta l’America centrale: il vescovo don Diego de Landa.
Pochi testi ci sono dunque rimasti per attestarci la grande e fiorente civiltà dei popoli abitatori delle Americhe. Da questi testi sono ricavate le notizie che seguono.
Il 12 Yuzcatli (30 gennaio) ogni quattro anni venivano commemorate con cerimonie religiose le tre volte in cui il mondo era stato distrutto. A ricordo di queste tre sciagure, a quell’epoca dell’anno, si digiunava per otto giorni.
A questo proposito citiamo che i sacerdoti messicani dividevano in quattro cicli, o Soli, la storia dei rivolgimenti del globo.

1° ciclo o Tlatonitiuh – età della terra, corrispondente all’epoca polare della Scienza dello Spirito.
2° ciclo o Tietonatiuh – età dell’aria, corrispondente all’epoca iperborea.
3° ciclo o Ehecatonatiuh – età del fuoco, corrispondente all’epoca lemurica.
4° ciclo o Atonatiuh – età dell’acqua, corrispondente all’epoca atlantica.
 
Nel Codice Chimalpopoca, che contiene “La storia dei Soli”, sono descritti i quattro grandi cataclismi terrestri. Leggo alcuni brani che riguardano la distruzione della Lemuria.
«Durante la terza epoca chiamata Quiahtonatiuh (Sole di pioggia di fuoco) cominciò a cadere dal cielo una pioggia di fuoco ...ed in un sol giorno tutto fu distrutto. E nel giorno del dolore, detto Chicometecpatl, si consumò tutto ciò che esisteva della nostra carne. ...E mentre la pioggia di lapilli si estendeva, la terra cominciò a ribollire e le pietre si fecero di colore vermiglio».
La sommersione dell’Atlantide, Aztlan nel linguaggio azteco, veniva invece commemorata ogni anno in una festa religiosa speciale detta Atemotzli. Nel Popol-Vuh, o Libro Sacro dei Quichi del Guatemala, si trova una drammatica descrizione del diluvio che sommerse l’Atlantide.
«Nel giorno stabilito dalla volontà divina, le acque cominciarono a gonfiarsi e a crescere. Il cielo si sciolse e una spessa resina si posò sulle campagne. La terra s’oscurò e la pioggia continuò a cadere ininterrotta: pioggia di giorno, pioggia di notte. Si sentiva un continuo crepitare sulle pareti delle case. Ben presto la grande inondazione giunse al di sopra delle teste degli uomini. Allora si videro gli uomini correre, spingendosi, pieni di disperazione; volevano salire sui tetti delle case e le case crollando li facevano ricadere a terra; volevano arrampicarsi sugli alberi e gli alberi si sradicavano e li trascinavano via; volevano ripararsi nelle grotte e le grotte si chiudevano e li inghiottivano...».
Un’analoga descrizione la troviamo nel già menzionato Codice troano, conservato nel Museo Britannico e tradotto dal Plogeon.
«Nell’anno 6 del Kan, l’11 Muluc, nel mese di Zac, la terra fu scossa da terribili terremoti che continuarono senza interruzione sino al 13 del mese Chuen. La contrada delle colline d’argilla, il paese di Ma, fu la prima ad essere sacrificata. Dopo essere stata sconvolta in due riprese, scomparve improvvisamente durante la notte. Il suolo oscillava come un mare in tempesta poiché cedette del tutto. Si formarono enormi crepacci che separarono le terre le une dalle altre. Ciò avvenne 8.060 anni prima della composizione di questo libro».
Nella lingua Maya dello Yucatan si chiama epoca Hun-Jecil (sommersione delle foreste) quel tempo in cui la Terra fu contemporaneamente invasa dalle acque e scossa dagli sconvolgimenti vulcanici.
Roger Dévigne ci fa sapere che «i Peruviani raccontano che il diluvio e lo sconvolgimento seguito all’emergere delle Ande sopravvennero in seguito ad una straordinaria eclissi di Sole durante la quale ogni luce scomparve per cinque giorni».
In tutte queste tradizioni, sia scritte che orali, ci colpisce la precisione dei particolari e l’esattezza scientifica. Perciò non ci possono essere dubbi sul valore obiettivo della loro testimonianza. I popoli delle Americhe conservarono non solo il ricordo dell’Atlantide, ma anche usi, costumi, cerimonie religiose.
Nella valle d’Anahuac si estendeva il piú grande cimitero del Messico. Gli Aztechi lo chiamano Micaotli, la via dei morti. Nel mezzo del cimitero si elevavano due gigantesche piramidi, quella del Sole e quella della Luna. Otto viali d’accesso attraversavano tutta la valle dei morti e terminavano di fronte alle facce delle grandi piramidi. Tutt’intorno i tumuli, secondo la disposizione degli astri. Ogni tumulo era alto dieci metri ed era costruito in forma di piramide. Ogni piramide raccoglieva i morti di una famiglia per piú generazioni. I morti venivano posti uno accanto all’altro e uno sopra all’altro, separati da strati di terra.
L’usanza della piramide mortuaria proviene dall’Atlantide. Gli Atlanti innalzarono questi monumenti funebri dovunque posero piede. Anche gli Etruschi costruirono piramidi, e i Latini ne poterono ancora vedere qualcuna a Porsenna. Che cosa è una piramide? Il termine azteco Micaotli è il piú giusto: la via dei morti. La piramide s’innalza verso gli astri perdendo sempre piú della sua ponderabilità. Cosí è delle anime umane, che, attraversando il Kamaloka, si spogliano giorno per giorno dei gravami terrestri.
Sulle piramidi mortuarie messicane e peruviane si vede scolpito il Fiore del Loto “Chiave di Osiride”: un Tau con sovrapposto un cerchio. Come il Loto, sorgendo dal fango e attraversando le acque, sboccia appena giunge alla luce del sole, cosí l’anima, partita dalla terra e passata attraverso il Kamaloka, festeggia la sua fioritura nei mondi spirituali.
L’Atlantide è scomparsa. Gli ultimi discendenti degli Atlanti sono ora relegati in poche riserve, come selvaggina che sta esaurendosi. Siedono all’ombra dei wigwam, le loro strane tende, costruendo frecce e intrecciando canestri.
Un giorno un cacciatore canadese si sedette vicino a un vecchio pellerossa e gli disse: «I vostri giovani corrono veloci per miglia e miglia senza provare stanchezza. I nostri fisiologi, che pur sono uomini di grande sapere, non sanno spiegarsi questo fenomeno che va contro le leggi della vita. Tu che cosa sapresti dirmi?».
Il vecchio rispose: «La nostra forza e la nostra grandezza sono tramontate da un pezzo. Siamo diventati piccoli di statura e abbiamo perduto le nostre forze. Per i nostri avi sarebbe stato facile attraversare di corsa tutto un continente. Le loro forze erano sempre fresche come l’acqua. Anche gli animali in quei tempi erano diversi, molto piú grandi e forti di ora. Il castoro e lo scoiattolo erano potentissimi e ci hanno insegnato a costruire sull’acqua e a vivere sugli alberi. Il nostro piú grande amico era il coniglio. Il coniglio era un animale bellissimo: grande, forte, coperto di ricca pelliccia, gentile e fedele. Ci veniva sempre appresso e ci serviva da guida nelle immense foreste. Ora tutto è finito. Noi stiamo spegnendoci lentamente come la brace del fuoco».
In queste parole risuona il senso della fatalità. Questo stesso senso di fatalità pervade le parole di Montezuma. Egli disse a Cortez: «Sapevo che tu dovevi venire. L’ho letto nelle stelle. Il tempo stabilito dagli dèi è giunto e le profezie sono compiute».
Cortez aveva con sé cinquecento uomini, dodici archibugi, tre bocche da fuoco, sedici cavalli. Con questi mezzi in poco tempo ridusse in cenere un grande e civile impero. Nessuno degli Aztechi si difese; tutti si lasciavano trucidare senza opporre resistenza.
L’impero degli Incas fu sopraffatto da soli centocinquanta uomini guidati da Diego de Almagro. Anche qui fu una carneficina generale senza che dalle bocche delle vittime uscisse un solo lamento. Gli occhi dei morenti erano rivolti al cielo: là stavano gli dèi e gli avi che li avrebbero accolti tra breve.
Cosí passò l’Atlantide anche nella memoria degli uomini. Sulle immense distese dell’oceano battono l’ali le procellarie. Altri cataclismi aspettano l’umanità. Niente dura nel mondo. Solo lo spirito è eterno.

Fortunato Pavisi
(2. Fine)

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(1)R. Steiner, Cronaca dell’Akasha, Ed. Bocca, Milano 1940, pp. 17-19.

Trieste, 21 settembre 1946. Per gentile concessione del Gruppo Antroposofico
di Trieste, depositario del Lascito di Fortunato Pavisi.