Antroposofia

1. La terra di Posidone

Al di là dell’antico confine del mondo segnato dalle colonne d’Ercole che gli antichi avevano un sacro terrore a varcare, dove oggi si estende per piú di duemila miglia marine l’Oceano Atlantico, sorgeva in tempi immemorabili un grande continente, l’Atlantide, culla e teatro di una fiorentissima civiltà. Questo continente scomparve nel decimo millennio prima di Cristo, per opera di quel tremendo cataclisma acqueo che la Bibbia ricorda con il nome di diluvio universale. Prima però che la terraferma s’inabissasse del tutto, una parte degli Atlantidi si trasferí su altri continenti. Cosí tanto l’Africa, l’Europa, l’Asia, quanto le due Americhe, quella del Nord e quella del Sud, furono la mèta delle grandi ondate migratorie atlantiche. In questi discendenti degli Atlantidi, ma soprattutto nei popoli che posero piede in America, e le cui estreme propaggini sono costituite oggi dai cosiddetti Pellirosse, rimase vivo per molto tempo il ricordo del diluvio e tramandato di generazione in generazione dalla storia e dalla leggenda. Rivolgeremo perciò oggi la nostra attenzione quasi esclusivamente ai Pellirosse, perché le loro condizioni di vita sono una debole eco di quella che fu la veramente grande civiltà atlantidea. Diciamo subito che i Pellirosse sono gli ultimissimi discendenti delle prime razze atlantiche. Come la nostra evoluzione eurasiatica si svolge attraverso sette razze portatrici di cultura – l’indiana, la persiana, la semitica, la greco-latina, la germanica, la russa e l’americana – cosí anche la remotissima Atlantide vide fiorire successivamente sette culture, sette civiltà, ciascuna delle quali legata a una singola razza. Nella tradizione occulta, alle sette razze atlantiche si sogliono dare i seguenti nomi:
1. i Romohals
2. i Tlavatli
3. i Tolteki – da queste prime tre razze atlantiche discendono gli odierni Pellirosse
4. i Turani – da cui derivano i Cinesi
5. i Protosemiti – che furono i progenitori tanto dei Semiti che degli Ariani
6. gli Akkadi – da cui discendono i Camiti (popoli dell’Africa settentrionale da cui discendono Egiziani, Berberi, Somali, Nubiani ed altri; il nome, derivante dalla Bibbia indica i discendenti di Cam, figlio di Noè)
7. i Protomongoli – da cui derivano gli odierni mongoli asiatici ed europei.
Osserviamo che mentre le ultime razze si sono successivamente piú o meno ancora evolute, le prime sono rimaste in posizione statica. Perciò i Pellirosse, ed anche i Cinesi, ricordano piú che gli altri popoli le condizioni interiori di vita dell’uomo atlantideo.
Platone, nelle sue opere Timeo e Crizia, ha dato alla civiltà occidentale la prima notizia sulla esistenza dell’Atlantide. Egli dice di trarla da Solone, il quale l’ebbe a sua volta dai sacerdoti di Sais, città posta sul delta del Nilo. Dal Crizia ricaviamo una prima importante nozione. L’Atlantide era la terra di Posidone. Posidone è il nome greco di Nettuno, il dio delle acque. Ciò ci fa comprendere che l’acqua era l’elemento che per gli Atlantidi aveva la massima importanza.
Platone ci descrive la città capitale di un regno di Posidonia, l’Atlantide da cui ebbe poi il nome tutto il continente. La città era completamente circondata da un triplice fossato pieno d’acqua. I fossati comunicavano tra loro per mezzo di canali abbastanza larghi per permettere il passaggio di una nave, e i bastioni, che dividevano i fossati a loro volta, erano congiunti per mezzo di ponti. Tra il fossato esterno e il mare c’era un grande canale artificiale lungo circa dieci chilometri, largo trecento metri e profondo venti metri. Ogni città atlantidea aveva press’a poco questo aspetto, perché gli Atlantidi si davano cura di recingere le loro città con un complicato sistema di anelli d’acque. Una colonia atlantidea esisteva anticamente anche nell’Africa occidentale, dove si estende oggi il Marocco. La regione era allora amena e fiorente, e il lago Tritonide era pieno di acque azzurre. Nel centro del lago, su palafitte, i progenitori dei Berberi avevano costruito la città di Cernes, congiungendola alla riva con tanti ponti, a somiglianza dei raggi di una ruota che dal mozzo vanno al cerchio.
L’esploratore Désiré Charnay descrive le rovine di una gigantesca metropoli azteca nello Stato messicano di Tabasco. Egli, nel suo libro Le mie scoperte nel Messico, dice che le rovine, resti di colossali piramidi, di enormi palazzi, di templi superbamente decorati, si estendono nella laguna di Bellota e raggiungono il mare su una linea di venti chilometri.
Anche l’abate Brasseur de Bourbourg, nella sua Storia del Messico, ci fa sapere che le città indiane erano poste sulle acque e che perciò la valle d’Anahuac, ricca di grandi laghi e di corsi d’acqua, fu per molto tempo un fervido centro di vita.
Se dall’archeologia passiamo alla mitologia, troviamo subito riconfermato questo profondo legame tra gli Atlantidi e l’elemento acqueo. Le leggende e le favole che raccontano ancor oggi i Pellirosse fumando la pipa all’ombra delle loro tende, hanno quasi tutte per protagonista il colombo marino, il gabbiano. Nel gabbiano che erra su e giú lungo le coste e sorvola gli scogli flagellati dalle onde gettando il suo rauco grido selvaggio, i Pellirosse credono di vedere la loro stessa anima che piange per la scomparsa della terra d’origine. Nel gabbiano che nidifica sugli scogli e remiga incessantemente sul mare, anche noi possiamo avere un’immaginazione verace dell’anima atlantidea.
Ora chiediamoci: perché le città atlantiche erano cosí intimamente connesse con le acque? Il pensiero materialistico ci suggerirà subito una risposta: perché le acque difendevano gli abitanti dalle fiere e dai nemici. Lasciamo da parte questi luoghi comuni della mentalità pseudoscientifica e leggiamo invece una pagina dello scritto di Rudolf Steiner I nostri progenitori dell’Atlantide. «Gli Atlanti erano in grado di servirsi di quella che chiamiamo forza vitale. Come oggi si trae dal carbone la forza del calore, che si trasforma nell’energia dinamica dei nostri mezzi di locomozione, cosí gli Atlanti sapevano servirsi a scopi tecnici della forza germinatrice. …Gli Atlanti avevano degli apparecchi che trasformavano la combustione coi germi delle piante, trasformando la forza vitale di questi germi in energia applicabile alla tecnica. ...A quell’epoca l’acqua era su tutta la Terra assai piú fluida di ora; e per questa sua fluidità l’acqua poteva, mercé la forza germinatrice di cui gli Atlanti sapevano servirsi, essere diretta a usi tecnici tali che oggi sarebbero impossibili. Per il condensarsi dell’acqua, è divenuto impossibile guidarla e dirigerla con l’arte mirabile di allora. ...L’uomo atlantico assorbiva un’acqua che la forza vitale propria al suo corpo poteva elaborare ben diversamente da come è possibile nel corpo fisico d’oggi, e in virtú di ciò egli poteva servirsi volontariamente delle proprie forze fisiche altrimenti che non l’uomo attuale. Possedeva cioè il mezzo di aumentare in sé le proprie forze fisiche quando ne aveva bisogno per le proprie occorrenze»(1).
Senza questa spiegazione di Rudolf Steiner, molte cose che la scienza ufficiale riesce a scoprire sul conto della civiltà atlantidea e delle tracce lasciate da essa in Europa e in America, rimarrebbero completamente inesplicabili. I germi delle piante e l’acqua erano dunque le materie prime fondamentali dell’industria atlantidea. Gli Atlanti non usavano il fuoco. L’acqua serviva per ogni occorrenza sia dell’industria, sia della vita casalinga quotidiana.
Sui larghi bastioni che nelle città atlantidee separavano i canali circolari d’acqua, sorgevano grandiosi stabilimenti metallurgici, i quali però avevano un aspetto del tutto diverso dalle nostre fonderie, dalle nostre acciaierie, dai nostri altiforni. Non il fuoco difatti alimentava gli immensi stabilimenti metallurgici atlantici, ma l’acqua. A questo proposito si può affermare che la nostra industria, per quanto poderosa e perfetta possa apparirci, è ben misera cosa se paragonata alla incredibile perfezione dell’industria dell’Atlantide. Le testimonianze storiche, numerosissime e concordi, non lasciano ombra di dubbio in proposito. Ne sceglieremo soltanto alcune.

2. Le  meraviglie della metallurgia atlantica

Cominciamo da Platone. Egli dice che i tre bastioni della capitale atlantidea erano intonacati per tutta la loro estensione: il primo di rame, il secondo di stagno, il terzo d’oricalco dai riflessi di fuoco.
Se voi mi chiedeste che cosa sia l’oricalco, io non vi saprei rispondere. È una lega di oro, allo stesso modo che il peltro è una lega d’argento, ma gli altri componenti ci sono ignoti. Gli Atlanti, venendo in Europa, vi portarono la conoscenza della fucinazione dei metalli, ma molte delle loro nozioni andarono perdute.
Enrico Schliemann, il celebre archeologo scopritore di Troia, lasciò scritto d’aver trovato fra il tesoro del re Priamo un vaso con la scritta in geroglifici fenici: «Dal re Chronos di Atlantide». Il vaso era fatto di una lega di platino, alluminio e rame. E lo Schliemann annota: «Questa specie di lega non fu mai conosciuta dagli altri popoli antichi ed è sconosciuta oggi».
Queste testimonianze antiche forse non persuadono. Cerchiamone perciò delle altre, piú recenti e lampanti, riportate da coloro che misero piede in America e che videro con i loro occhi. Nel diario di Cristoforo Colombo troviamo scritto che il navigatore genovese riportò dall’America in Europa, come oggetto piú prezioso, un rasoio di rame temperato. Cristoforo Colombo ne era giustamente sbalordito, e sbalorditi ne siamo anche noi. Da allora sono passati quasi cinque secoli, ma la tecnica moderna non ha trovato ancora il modo di rendere duro alcun metallo, fuorché il ferro, ottenendone l’acciaio. L’idea di un acciaio di rame, proprio della civiltà atlantidea, sta per l’arte metallurgica moderna al di là di ogni immediata o remota possibilità.
Montezuma regalò a Cortez alcuni specchi di platino incorniciati d’oro, ciò che prova che la fusione e la lavorazione del platino erano ben note agli Indiani.
Il Carli, nelle sue Lettere americane, dice che tanto per il matematico quanto per il tecnico rimane un problema insolubile il fatto che i popoli d’America siano riusciti a fondere statue d’oro e d’argento, tutte d’un getto, vuote nell’interno, sottili e senza sostegni. Egli scrive: «Ho potuto ammirare dei piatti con otto riquadri, ciascuno d’un metallo diverso, cioè alternati d’oro e d’argento, senza alcuna apparente saldatura; pesci ed uccelli dei quali le scaglie e le pinne, ora d’oro, ora d’argento, si alternavano senza la minima traccia di saldatura artificiale».
Oviedo vide oggetti fatti di una lega di oro e rame ad altissima tempera, e perciò piú resistenti dell’acciaio. Cieza de Leòn ci lasciò una descrizione addirittura fiabesca di Cuzco del Perú, città reale degli Incas barbaramente saccheggiata e distrutta dai conquistatori spagnoli. Su di un’altura dominante la città sorgeva il grande tempio del Sole, circondato da sei templi minori per gli altri pianeti. Nello spiazzo fra i templi si elevavano alte colonne metalliche, sulle quali erano incise le osservazioni dei sacerdoti astronomi sui movimenti degli astri. Davanti al tempio del Sole si estendeva un meraviglioso giardino a terrazze, il quale terminava a picco sul fiume Huatanay. Questo veniva con ragione chiamato il giardino metallico. Ogni sua terrazza aveva per pavimento una lastra di oro puro, dalla quale si innalzavano alberi d’argento e messi di spighe fatte d’oro. Nel giardino metallico si vedevano inoltre farfalle posate sui fiori, uccelli nascosti tra le foglie, serpenti avvolti intorno ai rami, verdi lucertole, chiocciole, tutto in oro puro e in argento cesellato con arte mirabile e tempestato di gemme. Il vento piú impetuoso non poteva sradicare il piú sottile stelo di quel magico giardino, ma le soldataglie spagnole furono piú forti del vento.
Non credo che sia necessario spendere altre parole per mettere in rilievo la portentosa arte metallurgica degli Indiani. Per quanto meravigliosa ci possa apparire, ricordiamoci che essa non è che una fievole eco di quella che fu la tecnica e la scienza degli Atlanti. Di fronte a tanta meraviglia la nostra scienza ufficiale si mostra perplessa ed impotente. Non cosí la Scienza dello Spirito. Questa c’insegna che gli Atlanti e i loro discendenti lavoravano i metalli con le forze e i procedimenti che si basavano sull’impiego delle forze vitali e dell’acqua. Tutto ciò è divenuto impossibile all’uomo moderno, e da questa sua impotenza nasce in lui il senso della meraviglia e del miracolo. I giardini metallici degli Incas e degli Aztechi non sono però sorti per miracolo, ma per opera di una tecnica andata ormai perduta. Anzi a questo proposito bisogna dire che gli Aztechi e gli Incas non hanno costruito quei meravigliosi giardini metallici, quelle immense città longitudinali piene di piramidi, di templi e di palazzi, ma li hanno ricevuti in eredità e gelosamente conservati.
Montezuma disse a Cortez queste testuali parole: «Noi non siamo oriundi di questa terra. Non è passato che un piccolo numero di secoli da quando i nostri avi, venuti dalle regioni del Nord, si sono stanziati in questo paese. Io non sono che un viceré e governo le genti che mi sono sottoposte in nome di Quetzalcoatl e secondo l’autorità che da lui mi è stata conferita».
Secondo lo storico Montesinos, gli Incas giunsero nel Perú verso il 2450 prima dell’era cristiana e vi trovarono già il meraviglioso giardino metallico di Cuzco e le gigantesche rovine della civiltà preincaica. Ciò è confermato anche dalla tradizione occulta. Le costruzioni messicane e peruviane non poterono essere edificate che da uomini che avevano ancora in sé, almeno fino a un certo grado, forze e facoltà proprie degli Atlanti. Sono perciò dunque antichissime e coeve della civiltà egizia.
Benché ultimi e tardissimi discendenti degli Atlanti, i popoli dell’America ne conservano ancora le principali qualità interiori e i costumi. Gli Atlanti erano chiaroveggenti, questa facoltà spirituale mancava quasi del tutto ai tardi popoli americani, ma tuttavia essi si sentivano in stretto contatto con la divinità.
Quando Montezuma fece a Cortez il nome di Quetzalcoatl, lo Spagnolo gli chiese: «Chi è questo re supremo in nome del quale tu governi?». Montezuma rispose: «È un sacerdote vestito di nero che passeggia lungo le rive del mare. Il suo nome significa il serpente incoronato di piume. Egli è la perpetua guida del nostro popolo».«E tu sei in contatto con questo essere misterioso?» chiese allora Cortez. «Io non faccio nulla che non sia la sua volontà», rispose il re degli Aztechi.

Fortunato Pavisi (1. continua)

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(1)R. Steiner, Cronaca dell’Akasha, Ed. Bocca, Milano 1940, pp. 17-19.

Trieste, 21 settembre 1946. Per gentile concessione del Gruppo
Antroposofico di Trieste, depositario del Lascito di Fortunato Pavisi.