Sulle onde di un destino greco

Considerazioni

Sulle onde di un destino greco

La tragedia nacque in Grecia moltissimi anni or sono; poi venne la commedia, e infine, mischiandosi al gusto salace delle popolazioni italiche, arrivò la farsa. Nessuno tuttavia (tranne forse Cassandra) avrebbe potuto prevedere che dalla farsa si poteva tornare alla tragedia.

Considerando il tipo “normalità” con la quale, nelle prospettive vacanziere, ci arrovelliamo alla ricerca d’una spiaggia amena (e isolata), partiamo dalla farsa.

Questo non è un problema semplicemente balneare, è molto di piú: è un punto d’arrivo, un traguardo di pensiero che, complice la perdurante calura dell’estate, si pone a sunto emblematico delle acquisite esperienze, pratiche o astratte, da parte dell’uomo, in ordine ad un suo presupposto sviluppo evolutivo, e contestualmente va ad incorniciarne l’afflitto quadro sintomatico con lo spessore e l’elevatezza raggiunti, o forse è meglio dire non raggiunti.

Spiaggetta isolataCito papale papale: «Una spiaggia dicesi isolata in quanto evitata dalla folla o, per contro, è l’evitamento da parte dei bagnanti a renderla isolata?».

Non è una constatazione del mio sacco; anche sforzandomi non riuscirei a compenetrare a tal punto i circuiti avveniristici dello smarrimento bussolare. La faccenda ci viene invece posta e riproposta, con spietata perseveranza, da uno dei tanti spot televisivi che infestano il piccolo schermo, e che, anche non volendolo, ci aiutano a superare il farnetichío quotidiano, col distoglierci per un attimo dalle storture d’una realtà, a dir vero, fin troppo intrigante e fracassona.

Che dopo, tale distoglimento risulti il peggiore dei rimedi, sarebbe già epico supporlo. Ma nel frattempo si va avanti cosí: una ciurma di ciechi che naviga a vista.

A tutta prima la questione è davvero misera; siamo ampiamente convinti che il problema dei migranti, della crisi greca, degli integralisti islamici, o, se vogliamo, di qualcun’altra di quelle centinaia di specifiche grane che ci riguardano da vicino, siano di gran lunga piú serie e degne di attenzione. Se non che, pur dal miserrimo, pur dal minimo deficenziale, può derivare, magari estraendolo a forza, un significato di fondo, o di principio (basta sapere da che parte guardare), che travalica la demenzía cronicizzata, baipassa la viltà del messaggio subliminare, e scavalca di slancio l’indecenza d’un vulnus logico difficilmente sanabile.

Una causa produce un effetto, altrimenti non sarebbe una causa. Ma – e qui ti voglio – l’effetto una volta prodotto potrebbe generare una causa simile a quella dalla quale nacque? In altri termini: un effetto può trasformarsi al punto di dar causa a se stesso?

Beh, alle volte sí, succede. Un seme di melo produce l’albero prima, e poi il frutto che a sua volta restituisce il seme alla terra. Ma non è detto che vada sempre cosí. Ad ogni buon conto, nel percorso dal melo alla mela c’è un processo, un interludio di tempo, nonché ulteriori elementi di differenziazione, fattori tutt’altro che trascurabili.

Per un esempio piú calzante: scoperta e dichiarata la crisi economica, abbiamo giustamente adottato le misure per contrastarla; ma queste misure, dicono, hanno reso la crisi peggiore di prima; per cui, se la cura aggrava la malattia, vuol dire che la rappresentazione dell’effetto vince la rappresentazione della causa, e che pertanto la cura era sbagliata. Quindi: via le restrizioni e abbasso l’austerity!

Cosí mormora la vox populi; la quale, non sapendo distinguere bene le restrizioni e l’austerity dalle loro rappresentazioni, tuttavia orgogliosa e fiera d’aver trovato un rimedio che unisca diletto ad efficacia, resta sorda e indifferente alle opinioni che tentano, in tutta modestia e senza pretesa, di avvertire il popolo trionfante, che non c’è proprio nulla da festeggiare e di cui andar fieri, se non altro per due piccole ragioni: quel che abbiamo scambiato per austerity avrebbe dovuto essere solo l’inizio di un lungo periodo di travaglio e di sacrifici personali e collettivi che evidentemente nessuno è disposto ad accollarsi se non a parole; secondariamente, quei sacrifici, ancora una volta, a nulla sarebbero serviti, se l’autorità, le leggi, la stessa pubblica opinione non avessero – contemporaneamente ‒ sradicato dalle radici le gramigne e le parassitarie che, da troppo tempo impunite, hanno proliferato divenendo padrone d’un campo da gioco che, pur avendo nel nostro caso la forma geografica d’uno stivale, non riesce proprio a calzare la gamba europea.

La povera Grecia, dal canto suo, si sacrifica per fornirci un’anteprima di quel che succederà inevitabilmente ai vicini commediterranei, se continueremo imperterriti a volerci dichiarare immacolati sbandierando l’elenco dei profumi e dei cosmetici con i quali imbellettiamo (nascondendola) la nostra scarsa propensione all’igiene interiore. Che, sembra strano, è diversa, molto diversa, dall’igiene intima.

AcropoliI barbari nordeuropei, un tempo affascinati e incantati dalle rovine classiche, nonché dal luminoso patrimonio culturale di un’epoca che fu, divenuti ora un po’ meno barbari di prima, perduta quindi l’antica soggezione reverenziale, non si lasciano piú irretire dal trucchetto delle tre carte, e pretendono che ogni gioco si svolga dentro il tracciato di regole prestabilite. Pretesa che per i popoli d’area mediterranea è autentica fantascienza. D’altra parte la storia insegna che quelli che subiscono le controriforme non sono mai gli stessi che hanno fatto le riforme. Ma questo è un altro paio di maniche.

Dall’antica tragedia, attraverso la commedia, si giunge dunque alla farsa; quando però la farsa stessa tende a tornare tragedia, la gente non ride piú, e anzi pretende indietro il prezzo del biglietto pagato. Come dire: io sono venuto al mondo per divertirmi, mica per fare sacrifici! Il vecchio precetto del “sangue-sudore-lacrime” va sempre bene, ma quando si limita a fungere da consiglio per uso esterno; dovendolo adottare direttamente su di sé e per piú di cinque minuti, diventa oltraggio, infamia, un giogo insopportabile che un popolo per bene non può accettare supinamente. La quaestio aeconomica trasmuta in quaestio dignitatis, e da quel momento in poi tutto è possibile; compreso il fatto che il debitore plurindebitato vada dal suo creditore sollecitando, pure con una certa verve, ulteriori aiuti, almeno per pagare, dice lui, i debiti piú datati.

Cosí ci troviamo adesso a dover gestire la situazione di sempre, nella convinzione che sia diversa per intervenute varianti, le quali possono? potranno? potrebbero? mediante una serie di acconce (e spericolate) conversioni ad U, andare a ritoccare le cause.

Il che ci riporta al primo interrogativo, che ora si può riformulare meglio e a un livello di maggior interesse: pensare scorrettamente e/o in modo incompleto, produce una continua mortificazione dell’anima e la porta ad uno stato d’immoralità generale? O è piuttosto l’immoralità generale che, dopo aver depauperato le forze interiori, intacca il pensiero al punto di renderlo esercitabile solo per esibizioni dialettiche che aggiungono vuoto al vuoto?

Coloro che evitano questi interrogativi, ritenendoli alla stregua della peste bubbonica, si possono dividere grosso modo in tre categorie:

  • i “Provvidenziali”, che riempiono le pie ceste della loro candida inerzia con il pensiero: c’è un Dio saggio e buono; Lui sa cosa e come fare. Per cui l’uomo (cioè io) può riaccomodarsi nella sdraia e tornare al cruciverba interrotto;
  • gli “Interventuali”, che si radunano per macinare chilometri di catene meditative e convincere cosí gli Spiriti dei Popoli ad andare a creare difficoltà d’ordine geopolitico da altre parti, il piú lontano possibile dalle nostre;
  • Ed infine i “Ficcanasisti”, ossia quelli che osservando il groviglio del busillis, si sentirebbero disposti a dipanarlo, mettendosi per intanto all’identificazione dei vari capi-bandolo; ma senza inviare avvisi di garanzia a nessuno. Anche perché siamo tutti indagati, stante il fatto che le indagini preliminari durano oramai da piú di venti secoli. Peggio del caso indiano dei due marò.

Naturalmente ci sono diverse gradazioni di ibridi che s’incrociano tra un settore e l’altro; e tenuto conto che uno stesso soggetto può appartenere, nel tempo, o anche contemporaneamente, a piú categorie, sia palesemente sia occultis modibus, se ne desume che la spettrografia risultante, pur non riguardando direttamente l’assetto del Parlamento, offre un’onesta panoramica del disordine e della confusione in cui molti cittadini disonesti sono costretti a condurre la propria esistenza (non ho ancora i dati di come se la cavi la parte sana della popolazione, ma credo che se è davvero sana, non le occorra nient’altro).

Cielo stellato dietro le nuvoleDal momento che a tutto c’è rimedio, anche alla morte, anziché restare lí imbambolati a fissare il dito dei mestieranti demagoghi, che servono solo ad ingrossare il Partito dei Cialtronisti Fanfaronici, io propongo un momento di silenzio, di raccoglimento, e di osservazione del cielo, che è sempre stellato anche quando a noi sembra di no. Non è certo una prova scientifica, può anzi, sembrare la morale di una fiaba per bambini, ma se ciascun uomo, per quanto contorto e miscredente sia, “sa”, ed è pienamente “consapevole di sapere” che dietro le coltri di nuvole, c’è sempre un cielo stellato, e tale convinzione gli è del tutto indipendente da circostanze o situazioni personali, interiori e non, come fa costui a scartare l’ipotesi che dietro e sopra i suoi pensieri, vi sia la presenza costante, in quanto eterna, di una Forza Pensiero, che, disteso lo scenario spaziotemporale, si vuole e si cerca attraverso le innumerevoli prove delle esistenze umane individuali? Come fa a non capire che il messaggio derivante da tale Forza è talmente immane, talmente possente, irraggiante entusiasmo, fiducia e amore, da concedergli persino l’uso incondizionato di una libertà cosí “libera” da poterglisi anche rivoltare contro?

Noi vogliamo capire i retroscena delle cause e degli effetti che dominano il mondo; ma lo dominano nella parte meccanica, ossia quella parte che è inanimata, là dove lo Spirito ha voluto arrestarsi, sospendendo l’impulso creativo divino per dare spazio all’impulso creativo umano. Nella fiduciosa attesa che questo finalmente (prima o dopo) arrivi.

Vediamo, studiamo e ragioniamo solo sull’inorganico, sul disanimato, sulla materia; ne riscontriamo la caducità, il continuo deperire, e su questo paradigma abbiamo intessuto e costruito la nostra cultura, la scienza ufficiale, il sapere da tramandare. Che è un sapere di morte; una cultura che esala il melenso odore delle camere mortuarie, dove crisantemi e orchidee finiscono nella medesima decomposizione. Compreso il modulo di “causa-effetto” o di “vita-morte”, che immancabilmente viene trasferito di peso anche là dove la sua applicazione, piú che inutile, sarebbe falsa. E infatti lo è.

Il trovarci oggi in mezzo a problemi di portata enorme, travalicanti le sforacchiate frontiere, inarrestabili come tutti gli eventi le cui cause rimangono confinate nel buio dell’incoscienza, è la prova – ancora non sperimentata come prova ma almeno intuitivamente operativa in questo senso ‒ che il numero delle cose di cui non abbiamo capito nulla è molto maggiore di quelle che crediamo d’aver afferrato cognitivamente e di possedere come dato basilare e categorico.

Filo spinatoDi fronte all’impulso esondativo del nuovo che avanza, commovente e beffardo, le anime dei conservatori reazionari, probabilmente terrorizzate, si sforzano a tirar su muraglie e barriere di filo spinato. Nulla o poco piú avendo appreso dalle leggi della termodinamica che insegnano i modi per cui una forza caotica e incontenibile possa venir contenuta e incanalata verso effetti benèfici.

Come è accaduto una infinità di volte: basta il guizzo di una nuova intuizione, di una idea inedita, corroborata dalla sofferenza di doverla inserire in un mondo che, al momento, non la vuole né vedere né sentire, per trasformare l’irrisolvibile in un problema risolto e archiviato.

Non sono pochi i filosofi e i pensatori i quali ritengono che la malvagità sia una componente imprescindibile di ogni essere umano. L’uomo compirebbe dunque il male perché per sua natura è portato anche al male, e questa caratteristica si giustificherebbe mediante una visione, piuttosto complessa e articolata, di una bio-dinamica universale, che, per affermarsi, deve contrapporsi a se stessa e quindi combattere una guerra fratricida.

Si creano cosí inevitabili schieramenti, o necessità di schierarsi, che molto spesso ti costringono a prendere una posizione anche se, da furbetto, sventoli il passaporto svizzero e invochi la neutralità a trecentosessanta gradi.

Ma se vogliamo fare una pulizia di pensiero e relative vedute, non ci vuole poi molto per comprendere che uno scenario mondiale visto sotto il prospetto di un tragico destino, è secondo virtú di buon senso il risultato inevitabile, o meglio l’effetto ultimo, di chi solo di effetti ha saputo vivere, ogni volta dando il titolo di causa al penultimo della catena.

Per avere un quadro piú chiaro delle cose che “capitano”, bisogna ampliare, e di molto, le proprie vedute, spalancare le finestre dell’anima su una dimensione che non sia quella solita, striminzita e cincischiata delle vicissitudini quotidiane, ovvero della paranoia egoica da queste inferta.

Per quale motivo non rivolgersi al Pensare, alla Forza Pensante che ci permette di fare tutti i pensieri che vogliamo? Datosi che le combinazioni non possono essere altro che infinite, non è possibile, anzi, per la regola dei grandi numeri, è matematicamente escluso, che ci possano derivare soltanto pensieri “brutti”, e nemmeno uno che sia un po’ tonificante, rigoglioso, propositivo, tanto per non aggravare vieppiú la depressione del sentire, per rivitalizzare l’abulico volere che a furia di venir sprecato nell’assurda cura dei dettagli mondani ha perduto perfino il ricordo della sua capacità reattiva.

Pensiero pensanteLe cellule cerebrali funzionano da ricevente, assorbono una parte minimale della Forza Pensante che struttura tutto ciò cui abbiamo dato il nome di universo creato. Con questo piccolo, personalissimo e ad un tempo comune potenziale, l’uomo pensa, e magari in buona fede, nel senso che non ci fa caso, crede che i pensieri siano cosa sua; ed è qui che si deve fare un necessario immediato distinguo; i pensieri sono sicuramente suoi, in quanto a contenuto e forma, ma la sostanza plasmatrice è eterica, ossia appartiene al Mondo spirituale: è la prima manifestazione di vita dell’Io, ed è anche la prova incontestata dell’immediata compartecipazione dell’uomo al mondo dello Spirito.

Se questa premessa, a furia di pensa e ripensa, diviene un fatto accettabile (per quel che mi risulta non c’è ragionamento umano, ponderato e spassionato, capace di smentirla), e viene posta come verità fondamentale al centro della coscienza, che la riconosce quale sua pietra di fondamento, pur non succedendo immediatamente nulla di diverso da prima, ci si accorge (ad alcuni accade lentamente ma non è detto che sia per tutti cosí) di poter partecipare ad una visione molto piú allargata e significativa delle cose vissute e vivende; la quale per nulla smentisce le esperienze precedenti, ma le integra, le ricompone e le riporta su un livello dove la restrizione vorticosa e frastornante del molteplice ha perso in tutto e per tutto l’astringente potere d’ineluttabilità.

Negando la premessa di cui sopra, o ignorandola, che poi è un modo diverso di schivarne la responsabilità, stiamo male, ci aggiriamo per i meandri di una vita che appare insulsa; talvolta ce lo diciamo; anche se per lo piú tentiamo puerilmente di nascondere la situazione non solo a noi stessi ma perfino ai medici, agli psicanalisti e ai terapeuti cui ci rivolgiamo per continuare la fiction di sentirci “ricercatori di guarigione mediante aiuto mercenario”.

Una delle domande che sembra angosciare maggiormente l’umanità è questa: come, o cosa possono fare i pochi uomini dabbene rimasti, quelli buoni, pii e probi, che seguono alla lettera i precetti dei loro Maestri spirituali, di fronte alla perseverante cattiveria dei molti disperati le cui fila s’ingrandiscono ogni giorno di piú?

Si noti che chi ragiona cosí è già schierato, e lo dice; è segretamente convinto d’appartenere alla élite dei migliori. La sua analisi comincia male, perché esclude a priori la valutazione della coscienza. Non potrà far altro che proseguire una via distorta e partigiana.

Vien fatto di pensare in modo generalizzato: se le cose proseguono con questo andamento, l’uomo non giungerà mai a completarsi spiritualmente e ad incarnare in modo degno lo Spirito. La missione umana sulla terra potrebbe davvero fallire!

Come scoperta non è un granché, anche se il punto esclamativo la enfatizza; chi la addita quale possibilità esecranda, deve andarsi a riguardare il concetto di libertà: è evidente che la massima espressione di una libertà elargita gratuitamente e senza condizioni, a tutto l’umano, non può patire la restrizione di un fine ultimo garantito. Oppure ci sentiamo scolari di una scuola dove, anche senza studiare, anche senza aver aperto libro, la promozione viene assicurata per legge? Già cosí com’è, è tutto molto difficile e contorto; andiamo a comperarci diplomi e lauree perfino all’estero; non voglio neanche immaginare quel che sarebbe di questa nostra umanità se tutti, e dico tutti, dessero per scontato di avere un posto sicuro in Paradiso!

Questa immagine dell’uomo condannato a fallire nella sua missione terrestre è un ritornello che ricorre spesso, almeno dalle mie parti. Segno che il desiderio di salvezza si è alterato, divenendo una specie di brama che, al pari delle sue numerose consorelle, ammette pure l’uso indiscriminato di armi non convenzionali, come la calunnia autoptica, la contro-antifona bilanciata e la diffusione a livello epidemico di rachitismo animo-spastico. Non me lo sono inventato, è un pensiero che sento spirare da molte parti, apertis verbis, o nelle forme striscianti di psichismo irrisolto e inavveduto. Ed ha un suo colore caratteristico: quello cianotico della fifa blu.

Temere un’eventualità, anche se riguardante l’immediato futuro, è come temere d’uscire di casa per paura di pigliare sulla testa una tegola vagante. Noi siamo venuti al mondo, anzi, abbiamo voluto e in alcuni casi concordato di nascere entro un insieme di precise circostanze, proprio per fare in modo che una simile eventualità non abbia a verificarsi senza una nostra conniscienza, cioè senza un’adeguata preparazione non all’evento in sé, ma ai risultati e alle risonanze interiori che l’evento potrebbe conferire. Quel che invece abbiamo maturato è la tecnica, diventata una vera e propria arte, di schivare i compiti difficili e gli impegni gravosi, disattendendoli con inveterata sinecura, al punto di non riconoscerli piú come tali; il che comporta uno scadimento totale di quei valori, solo attraverso i quali la nostra esistenza avrebbe potuto cominciare ad assumere un suo preciso significato.

Quale potrebbe essere il punto di partenza? Da dove cominciare? Ecco altre due domande, altrettanto inflazionate quanto la precedente. Mi pare ragionevole che se uno si pone il quesito, anche senza aver mai letto una riga dei libri di Rudolf Steiner, vuol dire che si trova nel quesito e che ne fa parte integrante.

Se l’ipocondriaco non si desta dal suo onirismo esistenziale, non avverrà la guarigione. Ma non volendola cercare, per l’appunto, trova molto piú conveniente adagiarsi nelle doglie dell’auto­vittimismo, invocando pietà e sollecitando comprensione e soccorso da tutti.

E questo dimostra che, come in tutte le cose che ritardano e impediscono la libera evoluzione dell’uomo, c’è un punto del percorso in discesa oltre il quale è veramente difficile risalire.

CadutaAlcuni pensatori animati da vero coraggio sostengono che bisogna toccare il fondo perché ci si possa dare la spinta al rimbalzo; non posso dar loro torto: fintanto che stai cadendo, non hai altre possibilità oltre a quella di continuare a cadere.

Il Saggio sul Mistero del Sacro Amore, di Massimo Scaligero, inizia cosí: «Là dove non è piú possibile ulteriore discesa perché manca una sostanza prima da ulteriormente degradare, può accadere che ven­ga tentata la spiritualizzazione del grado della caduta, secondo il valore concepibile a tale livello».

E alcune righe sotto, Scaligero indica come la coscienza, trovatasi a sostenere – comunque ‒ il peso di una condizione sub­umana divenuta stato esistenziale, può ancora proporsi la via di «tecniche operative su se medesima».

Ogni altra strada di reintegrazione con il Mondo spirituale essendo cessata.

La coscienza quindi ha toccato il fondo. Se ha saputo restare coscienza, può ora tentare la risalita.

Non si tratta di smentire categoricamente quei pessimisti che ritengono fallita la missione umana prima ancora che l’uomo abbia esaurito tutte le chance che la Forza Pensante dell’uni­verso, di cui è formato il suo Spirito, gli ha concesso. È piuttosto una questione di logica, forse astratta ma sempre logica.

Il rapporto meccanico di causa-effetto domina l’inerte, il fatto e rifinito. Se non domina l’uomo, questo sta a significare che l’uomo non è affatto inerte, disanimato e perduto sul piano evolutivo: sperduto forse, perduto no. È diverso.

La torta di mele del nonnoNelle azioni umane, ci dice la Filosofia della Libertà di Rudolf Steiner, la rappresentazione del fine precede sempre la percezione del medesimo. Un nonno che cuoce una torta di mele, sapendo che quel piccolo ghiottone del suo nipotino ne sarà felice, deve prima “immaginarsi” la gioia del piccolo, farsene una rappresentazione, scaldarsi l’anima con essa, e trasformando il calore in volontà, andare a comperare le mele e gli ingredienti indispensabili al dolce. Solo dopo potrà guadagnarsi la percezione del quadretto.

In tutti gli altri casi la percezione, ai fini di una retta conoscenza, deve venire prima della rappresentazione; ma è proprio questo che crea la differenza tra il subire un’azione dall’esterno e compiere liberamente un’azione decisa nell’interiorità.

Non c’è uomo che sia perdibile, non c’è umanità che sia disfacibile, non c’è mondo che sia incoltivabile. Perdibili, disfacibili e incoltivabili siamo invece noi quando alimentiamo e diamo credito alle rappresentazioni indotte nell’anima da sottili spirali di fumo venefico, dalle straripanze di un sentire diseducato, fittiziamente ammiccante, e da impulsi corporei che solo a fatica qualcuno definisce bisogni istintuali irrinunciabili.

Abbiamo voluto, o concesso, che le rappresentazioni valessero piú delle percezioni là dove non è giusto che valgano, mentre per contro non abbiamo permesso che valessero ove era necessaria la loro validità; che il soggettivismo anarcoide incidesse piú della certezza oggettiva, la cui ombra è ormai confinata alle disquisizioni dei talk show, e semmai un’oggettività saltasse fuori di tanto in tanto, magari a condimento di qualche dato statistico, la si può sempre rintuzzare sostenendo che le cifre della statistica sono carte da gioco nelle mani d’un prestigiatore: vedi solo quelle che lui ti vuol far vedere.

Abbiamo voluto anche stabilire la reversibilità tra cause ed effetti; è stata una conquista sociale come le ferie e la tredicesima, ma non abbiamo neppure per un istante pensato a chi possano servire ferie e tredicesime nel caso che non ci fosse piú né lavoro né denaro circolante. Una alleanza di opportunità fra vignaioli ed osti non migliora di per sé la qualità del vino.

Quel pensatore spiritualista che Massimo Scaligero ebbe piú volte a definire come il Maestro dei Nuovi Tempi, e che al secolo risponde con il nome di Rudolf Steiner, è stato l’unico a collegare la via della libertà individuale al principio di causa-effetto, o di percezione-rappresentazione, avvertendo il discepolo lettore che o ti dai da fare per chiarirti qui, immediatamente, la doverosa distinzione essenziale, oppure sarai costretto a proseguire su una strada, chiamiamola cosí, di pseudoconoscenza, incontrando solo vicoli ciechi, false scorciatoie e apparenti traguardi.

Nell’essere umano una causa non produce un effetto; la percezione non genererà mai una rappresentazione; una modalità dell’esistere non creerà mai un pensiero; possono solo preparare il “terreno” a che lo Spirito vi impianti un suo arto e ne crei una fioritura di conseguenze.

Sarebbe follia pensare che la materia generi pensiero, dal momento che verremmo a contraddire un autentico principio del nostro Spirito, che ha voluto scendere sulla terra, mettersi la targa, il codice fiscale e il biglietto da visita del nostro personaggio, proprio per far incontrare le due indispensabili componenti della fattualità contingente: i dati concreti della ipotesi e quelli intuitivi della tesi.

Sarà poi compito della coscienza pensante produrre la sintesi tre le due. Sintesi che una volta riconosciuta e ufficializzata potrà sembrare una normalissima discendenza tra quel-che-vien-prima e quel-che-vien-dopo. Ma in nessun caso è ammissibile che una conduca pedissequamente all’altra, a meno che non si tratti del mondo inanimato: tuttavia pure qui ci troveremo a dover constatare che l’azione di una causa viene chiamata effetto solo grazie ad una coscienza d’uomo presente ed osservante, e sempre che il fenomeno venga condotto nei limiti spazio-temporali imposti ex natura.

Già nel vuoto detto “assoluto”, o nelle astrazioni della temporalità, i fenomeni osservati in condizioni normali si riproducono in tutt’altro modo. Per cui non esiste alcun “assoluto” da assolutizzare, né di vuoto, né di tempo. Esiste invece una coscienza che pensando si nutre di conoscenza, e questa sí che è tutta da nutrire, tutta da riempire. Una volta che lo fosse, non occorrerà nemmeno presentarla come conoscenza assoluta, in quanto non ce ne saranno altre da porre a confronto.

Lo Spirito umano fa vivere l’uomo per un certo periodo fisicamente, per altri periodi in modo solo sovrasensibile, ma in tutti i casi rispettando l’immortalità dell’anima, e, quel che piú conta, dei contenuti di esperienza conoscitiva raggiunti attraverso l’avvicendamento di ripetute esistenze terrene.

Per cui se vogliamo parlare di Spirito applicato in maniera corretta, possiamo precisare che la missione dell’uomo sulla terra potrebbe fallire ove lo Spirito umano non raggiungesse il Suo traguardo preciso, quello di riunirsi un giorno allo Spirito Divino, o Universale, da cui è proceduto.

Dire questo è però dire che una parte del Tutto non potrà mai rientrare nel Tutto, e sarà condannata a estinguersi come entità separata, mettendo cosí in crisi quel Tutto da cui nacque e che senza di essa non sarà mai piú il Tutto. Ce ne saranno come minimo due.

Filosoficamente, il ragionamento non sta in piedi, e non solo per cavillosità retorica. Non sta in piedi per il semplice fatto che una falsa rappresentazione di quel che siamo non può portare altro che ad una mistificazione di quel che ci aspettiamo di diventare.

Parlare di “missione uomo”, parlare di “traguardo” significa aver già messo in tasca un progettino, tra l’altro un po’ ambizioso, sul cui mastro tenere i conti delle belle speranze e delle pie illusioni. Solo che cosí facendo non si va lontano, e quel che si profila come finale è del tutto diverso dal rappresentare se stessi compienti quel che in verità non si sta compiendo affatto.

Abbiamo tutti sotto gli occhi le vicende poco edificanti di un governo, democratico per definizione, che ha liberamente concordato con i Paesi membri della UE una serie d riforme tali da procurare un enorme risultato risanatorio, o risarcitorio, in pochi anni; peccato che manchi ancora l’unanimità popolare. Perché se si fanno i conti si deve farli fino in fondo, e soprattutto conoscere di che pasta siamo fatti, di quali forze disponiamo, quali saranno quelle che cercheranno di ostacolare il programma di salute pubblica nonché i modi con i quali si tenterà di sabotarlo.

L’uomo è sí uno Spirito, ma ‒ per ora ‒ lo è solo potenzialmente. Attuarsi in tale senso è il compito che lo aspetta; e lo può iniziare solo formulando e sostenendo pensieri che “vedano”, “sentano” e “vogliano” questa attuazione; tutti gli altri devono passare in seconda linea rispetto a questi.

L’attuarsi dello Spirito dell’uomo sulla terra non è un effetto di un processo storico, e neppure la rappresentazione immaginata di una glorificazione che può incutere paura a noi, oggi, quanto e piú atterrí un tempo Simone Pietro e gli altri apostoli.

Ma vivere una vita con questa paura addosso, quasi sempre coperta da un esibizionismo di forza spicciola e di edonismo autoreferenziale, pur comprensibilissima sul piano dell’anima aggiogata al carro del suo destino, è forse l’unica rappresentazione priva di percezione, o l’unico effetto privo di causa, che potevamo risparmiarci.

A una platea di supplici coralmente espostisi con la domanda «Ma allora, noi ci salveremo o no?» un uomo, la cui presenza mi ha felicemente sorpreso, replicò cosí: «Se tutto va bene, sí!».

 

Angelo Lombroni