Beato si'

Socialità

Beato si'

Presepe con MagiDa Natale all’Epifania celebriamo un evento irripetibile e portentoso nella storia dell’uomo. E lo facciamo materializzando in figurazioni scenografiche uno dei piú grandi misteri che quel­l’evento descrive: la metamorfosi del­l’uomo naturale in essere spirituale, attraverso la sua divinizzazione, raggiunta lungo gradienti karmici che, in un iter temporale di millenni, hanno reso degna la creatura umana, caduca e fallibile, di accogliere in un involucro di carne e sangue l’essenza di un Elohim solare: il Cristo. Il finale traguardo dell’immorta­lità umana è nel corpicino di un neonato, variamente modellato in creta o legno, di vario colore, a seconda dell’etnia di chi lo modella.

Il Presepe ha, sotto la figurazione semplice, spesso rudimentale e abbozzata, la potenza di un evento cosmico, trascendente l’abilità e le intenzioni stesse di chi lo imbastisce. Per questo può sconvolgere, e allora, senza alcuna razionale o pratica motivazione, lo si condanna all’ostracismo, lo si vieta. La scusa patente è che si tratti di un simbolo religioso, il che lo renderebbe catalogabile e identificabile. Il vero motivo di tanta avversione è che in poche figurine di coccio, o di qualunque altro materiale usato, si assimilano tutte le millenarie istanze umane di farsi angelo, di acquisire il corpo di luce. Il che vuol dire affacciarsi oltre il ciglio della rassicurante materialità e sfidare la vertigine dell’eternità. Sensazione accettabile e praticabile da parte di chi crede ma oltremodo spiazzante per chi ritiene che, spente le fantasmagoriche luci di un’esistenza edonistica, chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato. Il che non è e non potrebbe essere, e ciò spariglia i riti e le godurie degli adepti del carpe diem.

A Natale promuoviamo la bontà, augurandoci un Buon Natale. All’anno che inizia, auguriamo di essere un felice Anno Nuovo. Chi non ha augurato la felicità a sé e agli altri, durante i giorni che hanno preceduto il Natale, e l’augura ora in quelli a cavallo del Nuovo Anno? Piú o meno tutti, grandi e piccini, atei e credenti, catastrofisti e garantisti. Insieme, ovviamente, alla pace, al benessere e al­l’amore, anche se queste tre ultime istanze, all’esame dei fatti e misfatti che connotano la nostra civiltà tecnoplutocratica, si fanno sempre piú difficili da realizzare, essendo legate a fattori di ordine pratico e ben determinato, mentre la felicità attiene alla categoria delle nobili astrazioni, e delle agrodolci quanto divaganti speculazioni sul tema. Come l’aforisma attribuito al comico Jerry Lewis: «Visto che la felicità non esiste, cerchiamo di essere felici senza». O quello che lega la felicità alla casualità esistenziale, senza un definito progetto: «Da oggi, mi propongo di essere ragionevolmente felice», questo dice l’attore Hugh Grant, protagonista del film Notting Hill, dopo la rottura della sua fortunosa quanto patetica relazione con Julia Roberts, celebrata diva in temporaneo transfer dagli USA a un set britannico.

Il filosofo Seneca nel suo De vita beata, un vero e proprio trattato sulla felicità, affermava che: «Il saggio vive lieto del presente e senza pensiero del futuro», ossia “vivi l’oggi” e ancora “protinus vive, cioè “vivi adesso”, cioè il faustiano «fermati attimo, sei bello!» di Goethe. Ma Seneca mette in guardia il saggio dal credere che possa essere felice appagando liberamente e senza misura il piacere dei sensi. Al contrario saranno la virtú e la ragione a suggerirgli in tutto e per tutto come deve regolare la sua vita.

Goethe pone a modello della vita felice la semplice e austera esistenza di Filomene e Bauci, cui Faust anelerebbe dopo aver sperimentato tutti i piaceri fino alla dissipazione e finanche al delitto. La libertà senza virtú morale, fuori dell’ordine naturale, in spregio della misura e dell’armonia delle cose create, ordisce il piú grande inganno per la felicità. Insieme al primigenio peccato, piú che d’orgoglio di una disarmante ingenuità, che ci costò l’Eden.

Scrive Dante: «Libertà va cercando, che è sí cara, come sa chi per lei vita rifiuta». Ma della libertà non bisogna abusare, come ha purtroppo fatto la nostra civiltà, al punto che ha ridotto la Terra, la Grande Madre, a una pattumiera, esalante miasmi di ogni genere, ribollente di acque intossicate da residui chimici, soffocata da un’atmosfera impregnata di eteri e polveri asfissianti cui uomini, animali e piante fanno da filtri, compromettendo le stesse strutture genetiche degli esseri viventi.

«Usque tandem?» chiederebbe Cicerone redivivo, rivolgendosi alle Sette Sorelle che gestiscono le fonti energetiche derivanti dal petrolio. Cosa potrebbero rispondere quelle avide sfruttatrici, messe alle strette? Forse come rispose il re di Francia Luigi XV alla sua favorita, la Pompadour, che lo spingeva a interessarsi degli affari di Stato: «Dopo di noi, il diluvio!». Che, da come si sono messe le cose, non sarà certo il Grande Diluvio riequilibratore della Genesi, ma un Diluvio di Stelle, come profetato dalla Monaca di Dresda: una pioggia di corpi celesti che monderebbero il pianeta dalle lordure umane, strinandolo col fuoco.

A loro parziale discolpa, le Sette Sorelle potrebbero obiettare che, a tutto il Sessantotto, nessun decalogo religioso, nessun codice etico filosofico, nessuna costituzione di qualsivoglia paese aveva mai fissato regole, imposto obblighi e oneri a soggetti pubblici o privati per la tutela del patrimonio naturale, ai tre livelli canonici di aria, suolo e sottosuolo. La Madre Terra era una specie di res nullius di cui tutti potevano fare l’uso e l’abuso che volevano, senza doverne rendere conto ad alcuna autorità, a meno che un certo utilizzo del territorio e delle risorse non ledesse gli interessi di chi su quel dato territorio e sulle risorse che esso offriva basava il proprio potere.

Con la pseudorivoluzione sessantottina, che faceva di ogni autorità un fascio da bruciare sul rogo, i padronati industriali e finanziari, tra cui i vari cartelli energetici e imprenditoriali, subirono gli attacchi delle miriadi di comitati di salute planetaria che usavano la nuova arma ecologica per demonizzare e mettere alla gogna gli untori che appestavano l’aria, l’acqua e il terreno. Bersagli piú gettonati, a ragione, i petrolieri e gli strumenti da loro usati per diffondere il morbo: le automobili. Riviste specializzate, esperti tossicologi, agit prop della politica, conduttori di dibattiti ecologici alla Tv, iniziarono a denunciare i veleni propagati dai mezzi di trasporto pubblici e privati. Si parlava con disinvolta apprensione di toluene, tallio, zolfo, nitrati e di altri minimi e massimi veleni che gli eteri del petrolio scaricano nell’aria delle grandi città avvelenandone gli abitanti fino alle piú intime cellule del sangue.

Una sana folliaA piazza Barberini a Roma, per un certo periodo, un uomo vestito da giullare rivolgeva gesti di minaccia e anatemi alle auto. Non era pazzo. Chi parlava con lui, nelle pause che si concedeva al bar, all’an­golo con Via Veneto, scopriva un uomo di cultura che s’improvvisava pagliaccio per allertare sui rischi alla salute che l’incontrollata proliferazione delle auto comportava, rischi che lui elencava con meticolosa e documentata precisione. Diceva la verità, ma nessuno, in ossequio all’antica massima: «A chi dice la verità regala un cavallo, ne avrà bisogno per fuggire», gli regalò un cavallo. Per cui, il povero giullare gesticolante venne fagocitato dal drago dalle Sette Teste, parente stretto del Cane a Sei Zampe, i nuovi mostri di questa civiltà ad alta combustione di idrocarburi. Scomparve dalla scena, anche perché, nel frattempo, insieme ai veleni del petrolio, cominciarono a circolare quelli ancora piú subdoli della corruzione, e tutti, esperti e non, dal grande sapiente all’uomo della strada, stornarono gli strali delle denunce dal minerale al vegetale, e reo di tutti i mali fu il tabacco. Oggi, sui pacchetti di sigari e sigarette appaiono ammonimenti sugli effetti letali del fumo, mentre nulla di simile viene messo in atto per le pompe di benzina, le petroliere giganti, gli snodati che veicolano i derivati del petrolio fino a raggiungere i borghi piú isolati, le isole piú appartate. Nessuno parla piú dei veleni che i motori ad alta compressione spargono nell’aria, che alveoli polmonari e cellule ematiche assimilano. E quando ne parlano, vengono manomessi i dati delle emissioni, per cui il potente Suv inquina meno di un’utilitaria.

A parte l’attendibilità che possono avere i dati ufficiali, la condizione ambientale della Terra è seria. Talmente lo è che a interessarsi della questione ecologica planetaria è stato ultimamente il pontefice. Papa Francesco, tenendosi allineato con le Laudi del Serafico, ha emesso un’enciclica dal titolo eloquente: Laudato si’ , dove il si’  è da intendersi come forma apostrofata dell’imperativo del verbo essere. Sii tu, Padre, lodato per le cose belle e buone che hai dispensato a piene mani nella dimensione creativa, e di cui gli umani hanno fatto strame con le guerre distruttive, con lo sfruttamento rapace del corredo minerale, vegetale e animale, piegando la Natura, madre feconda e generosa, al proprio tornaconto. L’enciclica viene intesa come un disegno globale della Chiesa per tutelare quanto resta della ‘casa comune’ e, se possibile, dai resti della predazione imbastire un progetto di rinascita e recupero dei valori sui quali si è investito negli anni recenti per effettuare una transizione, la meno traumatica possibile, da una civiltà semipatriarcale a una piú adeguata ai tempi ipertecnologici.

Tempi che stiamo già vivendo e che si prospettano in rapida crescita, gestibile con sempre maggiore difficoltà, se le multiformi anime in gioco si rivelano per isole disperse nella corrente. Ma lodare il Creatore per la smisurata bontà di aver creato un apparato cosmico di perfetta armonia è come voler trasferire sulla divinità, con un maldestro passaggio di ruolo, il compito di restaurarlo. Come dire: «Tu lo hai sí mirabilmente costruito, tocca a te riportarlo alla primigenia compiutezza». E torniamo in tal modo al rapporto veterotestamentario tra l’uomo e la divinità: il Padre onnipotente che, impietosito dalla inadeguatezza del figlio, dalla sua sbadataggine, riaggiusta il giocattolo che gli aveva regalato.

Quante mai volte ciò è avvenuto nella tormentata storia dell’umanità rompitutto. Migliaia di volte. Adesso però è tempo di passare dal Vecchio testamento al Vangelo, dal decalogo del Padre severo ma provvidente al Figlio. Questi ha avvertito l’uomo della dura seppure esaltante investitura di un essere destinato non a vivere da bruto ma a servire virtú e conoscenza, nella piena consapevolezza della propria natura divina. Premio ultimo di tale percorso, le Beatitudini, il nuovo decalogo trasmesso all’uomo nel Discorso della Montagna. Non un dono gratuito, però, non un’elargizione senza contropartita. L’uomo deve conquistare i doni promessi dal Cristo con fatica, facendosi piccolo se vuole essere grande, povero se vuole la ricchezza, umile e servizievole se aspira al governo del mondo e dei suoi fratelli umani, l’ultimo degli ultimi se vuole ascendere alla Gerarchia celeste che gli compete per disegno universale.

Immaginiamo il luogo e il tempo in cui le Beatitudini vennero pronunciate, riascoltiamole nella Voce dolce e possente che spirava dal Logos:

Beati i poveri di Spirito, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati gli afflitti, perché saranno consolati.

Beati i miti, perché erediteranno la terra.

Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.

Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.

Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.

Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.

Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

Il passo è riportato dal Vangelo di Matteo (Mt 5,3-12). Matteo era un esattore delle tasse per conto dei Romani, un cosiddetto pubblicano al servizio degli occupanti. Quanto di piú odioso per il popolo ebraico. Ma Gesú lo chiama e Matteo lascia il suo banchetto di esattore e lo segue, tra lo stupore, e anche l’apprensione, del fedelissimo Pietro, uno dei primi ad aver creduto nello strano predicatore di Nazareth, un luogo da cui, secondo l’opinione dell’epoca, nulla di buono sarebbe potuto venire. Ma ogni apostolo rappresentava un carattere animico umano, e Matteo era il denaro che si piegava alla Parola, la materia allo Spirito. Se mai un simbolo può venire ricavato dalla vicenda evangelica, l’episodio della chiamata di Matteo è quello che meglio e piú compiutamente si attaglia a questa nostra epoca, in cui il denaro predomina e fissa le regole materiali e soprattutto morali della società umana, che si dibatte, con sempre maggiore angoscia, in una condizione sperequativa globale.

La cattiva o maldestra utilizzazione della ricchezza comune è all’origine dei tanti mali, dalle migrazioni alle guerre, per citare le piú pressanti, che affliggono in misura che appare irreversibile l’umanità da quando una Rivoluzione pose la Ragione al posto della divinità. Un nodo che la scienza umana, viziata da quel ripudio, tenta vanamente di sciogliere, cercando formule e soluzioni risolutive nello scibile di cui dispone. Inutile ricerca in un oceano di vuote nozioni. Poiché tutto è stato detto e scritto nel segno della Ragione, ma poco o nulla è stato dettato dal cuore. Per verificare questa affermazione, basta scorrere i titoli presenti in una qualunque pur modesta libreria di famiglia. Tutto o quasi è stato trattato, dalla Sintesi degli opposti di Fichte, all’Arte di piegare i tovaglioli, dalle Ordalie dei Celti, ai Costumi sessuali dei Nennets della Manciuria. Libri da cui si potrebbero ricavare vademecum per ogni tipo di congiuntura sociale, ogni procedimento tecnico e indirizzo culturale.

L’uomo ha pensato proprio a tutto, ma il suo pensiero si avvitava sull’effimero, annotava l’esteriorità dei fenomeni, si accaniva sul loro involucro materico ma non ne scandagliava le recondite cause karmiche, il seme occulto del loro derivare dal bisbiglio dell’Ostacolatore. Abbiamo un sapere tecnologico che per far decollare un aereo brucia tanto petrolio quanto basterebbe a riscaldare e illuminare una cittadina di qualche migliaio di abitanti. Senza contare che i gas di combustione di un jumbo irrorano l’amosfera per miglia e corrodono, occludono, permeano cellule e alveoli, privandoli della capacità di filtrare, smaltire, metabolizzare. Come diceva Maitre Philippe, la scienza umana a un certo punto della sua storia si è trovata a un bivio. Avrebbe dovuto imboccare la via dello Spirito, una strada in salita. Ha scelto quella piú facile, in discesa, la piú comoda, e nell’immediato anche piú gratificante, e soprattutto, assai piú redditizia. Alla luce di questi fatti, che ci inducono a trovare sterile ogni tentativo di porre rimedio allo stato di negatività che imperversa nel mondo, dovremmo rassegnarci e lasciare che le cose vadano avanti per azione della massa critica, per inerzia. Alla prova dei fatti, però, l’uomo si comporta come le tartarughe di Bikini. Contaminate dalle esplosioni nucleari USA che rendevano infeconde le loro covate, hanno continuato a deporre le loro uova nella sabbia degli atolli atomizzati. Uova che non si schiudevano per espellere un nuovo nato ma riproponevano una sterilità ormai acquisita alla sfera genetica. Uguali gli esseri umani: sanno che la denuncia, il portare a conoscenza del mondo una stortura, non serve a correggerla e tanto meno a impedire che si ripeta. Pure, andiamo avanti stigmatizzando, denunciando il male. Dobbiamo farlo, fidando che prima o poi quanto promesso dal Cristo si avvererà, e noi, certi di aver onorato la sua consegna, potremo esclamare a gran voce: «Beato si’!».

Leonida I. Elliot