Nel mare senza sponde

Socialità

Nel mare senza sponde

Il grande attore Alec Guinness – che non amava far precedere il suo nome dal titolo di Sir, che pure gli spettava essendo stato nominato Lord e Pari del Regno dalla regina Elisabetta – veniva in visita a Roma due volte l’anno, in primavera e in autunno. Scendeva con sua moglie, una signora gentile e riservata, all’hotel d’Inghilterra, a via Bocca di Leone. L’albergo, ricavato dalle scuderie di Palazzo Torlonia, oltre l’omonima piazzetta con fontana, doveva il nome alla clientela britannica che vi soggiornava di preferenza lungo l’itinerario del Grand Tour romantico, di cui Roma costituiva la tappa senza dubbio piú rilevante. Anglocattolico, come tanti personaggi del mondo cultu­rale ed artistico inglese – T.S. Eliot, per citarne uno tra i piú illustri – Guinness godeva di un’indole, piú che fideista, sincretista.

Alec Guinness  in Lawrence d'Arabia

Alec Guinness in “Lawrence d’Arabia”

Alec Guiness in Passaggio in India

Alec Guiness in “Passaggio in India”

Aveva interpretato infatti re Feisal [video] in “Lawrence d’Arabia”, dove aveva ingaggiato una garbata sfida con Peter O’Toole citando versetti del Corano, e in un’altra celebre pellicola, “Passaggio in India”, aveva impersonato un guru indiano è, esperto dei Veda e delle Upanishad. Un’ani­ma aperta dunque a stabilire rapporti simbiotici con altre anime, fossero queste di persone in carne e ossa, o fossero di un’arcana città come Roma, fatta di pietre: quelle pietre imperiose del Colosseo e dei Fori, o quelle del Tempio del Sole Invitto, sepolte nello spazio tra Piazza San Silvestro e Via Condotti, e il cui altare sacrificale si trovava proprio sotto la portineria dell’hotel.

L’anima che le aveva plasmate non era morta, la ricordavano i colori degli affreschi della Casa di Livia, della Domus Aurea, i marmi policromi delle Terme di Caracalla. Era un’anima che il tempo non aveva consumato, e quella egli amava. E non era solo la Roma irrigidita nell’inerzia delle rovine, seppure nobili, era anche la città superba e possente del cristianesimo in cattedra e in trono, che oltre i richiami veterotestamentari si esprimeva nel “Giudizio” della Sistina e comprimeva le eresie sotto il peso reale e virtuale della immensa cupola di San Pietro. Era la Roma barocca, quella che testimoniava l’estro del cattolicesimo romano con i suoi ori e i suoi stucchi, con la sua scenografica resa ludica dalle liturgie e dai paramenti. Una religione disinibita e carnale, celebrante i suoi rituali con i cori angelici dei pueri cantores, con gli angeli flessuosi e ammiccanti, con la “Teresa in Estasi “del Bernini e i divini capricci del Borromini, che voleva mettere ali ai marmi, flettendoli, ondulandoli, per farne, al termine dell’opera scultorea, bastimenti per trasvoli iperurani. Tutto ciò appagava il senso estetico del grande attore, che coglieva nel cattolicesimo trionfante sulla Riforma la piena realizzazione del cristianesimo esplicante il mandato benedettino “ora et labora”, con l’aggiunta alle opere d’arte di quelle umanitarie e sociali, per espletare il mandato finale del vero cristiano con “ora, convive et labora”.

La Riforma, con i suoi rigori e le sue austerità, in particolare nei paesi dove il credo di Calvino si era maggiormente imposto, aveva mortificato anche le arti figurative, letterarie ed espressive. Aveva inoltre provocato nel cattolicesimo, già avviato a un’evoluzione in chiave umanistica grazie al Rinascimento, che era nato e si era svolto per lo piú nell’ambito cattolico italiano, la reazione integralistica della Controriforma. Ne erano derivate quelle forme di contrapposizione dogmatiche e culturali estreme, per cui il cattolicesimo si agguerriva rinunciando al dettato evangelico del porgi l’altra guancia, e il protestantesimo, specie nei paesi mitteleuropei, faceva del rigetto dei princípi trascendenti cristici la filigrana delle proprie enunciazioni. Tale procedimento involutivo, soprattutto in filosofia, era stato puntualmente indicato da Rudolf Steiner in una conferenza tenuta a Stoccarda, nel 1921 (O.O. N° 338) contenuta nel libro Come si opera per la Tripartizione dell’organismo sociale – Corso per oratori: «Un certo processo di liberalizzazione della vita spirituale in Europa venne ostacolato dalla fondazione del protestantesimo; esso non operò in senso liberatorio, ma si ebbe un regresso. In un certo senso il protestantesimo fu in un primo tempo popolare, ed esercitò una forma di pressione sull’educazione, obbligata a tener conto di continuo della religione protestante, in apparenza piú progredita; già al sorgere del protestantesimo si era tanto avanti rispetto al cattolicesimo, da provare il sentimento di doverne venir fuori. Se il protestantesimo non fosse sorto, si sarebbe superato già da lungo tempo il principio cattolico. Si sa inoltre che il protestantesimo contribuí al consolidamento del cattolicesimo, per esempio a seguito della Controriforma. Il gesuitismo venne creato come reazione, come istituzione avversa al protestantesimo. Cosí il protestantesimo penetrò in alto grado nella vita erudita del mondo. Si prendano solo coloro che operarono in Austria come filosofi: in loro non si nota alcuna influenza del dogma cattolico. D’altra parte si può realmente dimostrare con serie argomentazioni come il kantismo non sia altro che un protestantesimo mutato in filosofia. Si può senz’altro affermare che la singolare posizione di Kant in merito a fede e sapere non è che il principio protestantico tradotto in filosofia. Ciò mostra che il cattolicesimo si trovava già sulla via della dissoluzione, e che fu consolidato con il contributo del protestantesimo».

Le tempeste dogmatiche e speculative avvengono però nello strato superficiale della storia umana. In profondità, sono gli archetipi della vita cosmica a fornire gli ancoraggi eterni che fissano le regole essenziali, operanti immutate dal primo attimo della creazione. Ciò vale per le grandi opere dell’uomo al servizio del suo Genio immortale, e piú ancora vale per le civiltà che molti uomini al servizio dell’anima collettiva promuovono nel tempo. Tolti gli orpelli della superbia e della crudeltà, del potere effimero che dà la spada opposta al lituo, l’anima di Roma rifulge del Genio misterico cui la votarono i suoi fondatori, i suoi sacerdoti, le Vergini vestali, i suoi Iniziati, compagine eletta, per un occulto disegno, a farsi portatrice del Verbo. Ogni pietra delle sue rovine ne pulsa, sublimata. Che bei tempi, quando Roma attirava le anime forestiere per ricaricarle di smarrimenti ed estasi, e gratificava gli stessi suoi abitanti di sublimi portenti, e non li costringeva a disertarla per gli storni – di uccelli e di fondi – e per mille altre ragioni. Una ciurma di poca fede ha depredato il suo reliquiario.

Ecco allora che partire diventa un’opzione apotropaica, nel senso che distaccarsi da note angosce serve ad esorcizzarne la portata. Si parte, sperando di trovare nel bric-à-brac di un bazar, tra tante cianfrusaglie piú o meno eccentriche, piú o meno eseguite ad arte, la rara formula dell’immortalità. Che è poi il viaggio di Sinbad, o quello di Gilgamesh: una caccia senza tregua né riposo dell’eterno. Ci muove l’urgenza di fare, di vedere, di sperimentare, prima che una tangente d’ombra, proiettandosi sul quadrante inesorabile del tempo, segni la nostra ora.

«Prima che io diventi concime per i ceci, voglio fare una crociera ai tropici in inverno», questo messaggio ci è pervenuto, poco prima di Natale, da un amico in procinto di partire con sua moglie in aereo per Miami. Qui una nave tipo Love Boat, della omonima serie Tv anni Ottanta, li avrebbe scarrozzati, tagliando l’Equatore – un must delle crociere di fine anno – lungo una rotta che prevedeva scali nelle piú rinomate isole caraibiche, fino giú allo Yucatan dei Maya, e infine, dopo il Messico degli Atzechi, ritorno a Miami, e da qui il volo di rientro in Italia. Tre settimane abbondanti, una vera scorpacciata di sole, rovine, amenità paesaggistiche e folcloriche. E mare, tanto mare da far sviluppare la sindrome detta di Magellano, quell’invincibile dondolío bilicante delle gambe, causato dal troppo camminare su e giú per la nave, assecondandone il rullio e il beccheggio, nonostante gli stabilizzatori che si millantava potessero reggere moti ondosi forza sette. Crociera tutto sommato di durata breve e per acque relativamente battute e sicure, come l’Atlantico e i Caraibi, percorse da imbarcazioni di ogni genere e taglia, dai grandi container commerciali ai megayacht da diporto, fino ai pedalò, ai gommoni e ai piccoli motoscafi dalla forma di vasche da bagno.

Ma già quando la crociera dell’amico volgeva al termine, da Savona partiva quella annuale che fa il giro del mondo. Cinquemila anime, tra membri dell’equipaggio e passeggeri, che dalla veranda di un hotel pluristellato, frigo bar e idromassaggio in camera, vedranno sfilare davanti ai loro occhi terre e isole che hanno alimentato i sogni letterari di Drake, Melville e Stevenson, e quelli, poi diventati gli incubi, degli ammutinati del Bounty. Quattro mesi per i Sette Mari, senza squali e pirati. Perché questa dromomania, ossia la voglia di viaggiare portata al patologico, che spinge a cercare vie di fuga non soltanto battendo gli oceani ma anche i deserti, le calotte polari, le foreste, inerpicandosi sui vertiginosi picchi himalayani e andini, calandosi in voragini, esplorando cavità sottomarine e grotte preistoriche, correndo rischi di gran lunga superiori al diletto che tali imprese procurano a chi le compie.

Paul Newman e Burl Ives nel film "La gatta sul tetto che scotta"

Paul Newman e Burl Ives nel film “La gatta sul tetto che scotta”

La molla che scatta nel viaggiatore accanito, e lo costringe ad affrontare esperienze a volte spiacevoli quando non sconvolgenti, in ogni caso dispendiose, è di ordine metafisico: è quella che fa usare al Leopardi certe immagini, come: «E mi sovvien l’eterno…» o: «Cosí, tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare». Il mare sconfinato, privo di attracchi e di terraferma, i cui antipodi non si definiscono, l’oceano dell’eternità, senza riviere che lo contengano. L’anima umana ne è sedotta e catturata. E durante i peripli e le periegesi che il suo possessore intraprende, potrebbe accadere ciò che il grande Burl Ives, che interpreta il padre, dice al figlio (Paul Newman), nel film “La gatta sul tetto che scotta”, tratto dalla commedia di Tennessee Williams. La scena si svolge nella cantina della grande casa patriarcale, circondata dalle immense piantagioni di cotone che hanno fatto la fortuna e ma anche la dannazione del vecchio. Nello scantinato, lui e la moglie hanno stipato centinaia di oggetti acquistati nei loro viaggi, soprattutto in Europa, e specialmente in Italia, a Roma in particolare. Sperando — ironizza il vecchio — che tra tutte quelle costosissime cianfrusaglie gli capitasse «di mettere le mani sul segreto dell’immortalità».

L’immortalità non è però in ciò che la casualità fortunosa può darci, ma è nella traccia che il nostro Io lascia lungo il cammino della propria autorealizzazione, servendosi dell’anima che opera, crea, immagina, inventa, utilizzando la materia bruta e informe e dandole essenza e identità. In che modo e per quali canali ispirativi si nutrivano le anime dei creativi italiani che tanto seducevano i frequentatori del “Camino” che dalle brume del Nord Europa sciamavano verso l’Italia, soprattutto verso Roma?

Steiner ci indica la precipua qualità dell’anima latina, massime italiana e spagnola, che è quella di attingere alla natura senziente di cui questi due popoli in particolare sono fruitori. Nella conferenza del 18 ottobre 1914 (O.O. N° 287) disse: «I popoli che danno il tono alla quinta epoca di civiltà postatlantica rappresentano, negli impulsi della loro civiltà, le diverse componenti animiche dell’uomo; ad esempio i popoli che abitano la penisola italiana e spagnola (come popoli, non come individui, come ho detto ripetutamente) accolgono nella loro civiltà tutto ciò che è connesso con l’anima senziente. Il carattere dell’anima senziente vive soprattutto nei popoli che abitano la penisola italiana e spagnola. Questi popoli presentano in certo qual modo una speciale prosecuzione di questo processo del capo. Essi mostrano, configurandolo in un modo piú concreto e piú delineato, ciò che vive negli impulsi del sangue e del nervo, del corpo eterico e del corpo astrale, nel senso che ho indicato. Si potrebbe dire che quanto proviene dai tempi piú antichi trova la sua espressione in questi popoli e nei loro impulsi fondamentali, in modo che le forze che agiscono dal basso verso l’alto acquistano una figura piú chiara. Volendo considerare la specificità dei popoli della penisola italiana e spagnola dobbiamo avere chiaro che essi perfezionano gli impulsi del sangue, dei nervi, di ciò che vive nel corpo eterico e nel corpo astrale, in un modo piú specifico e concreto per accogliere coscientemente i tempi nuovi: però lo fanno utilizzando le forze del passato. …Questi popoli accolgono …pienamente tutto ciò che l’anima senziente può trarre dai tempi antichi. Accolgono tutti i misteri delle forme antiche, cioè i misteri delle antiche scritture artistiche. Dovremmo ritrovare nella civiltà esteriore di questi popoli le caratteristiche di ciò che vive precipuamente nell’anima senziente, cioè una specie di resurrezione di quanto era stato presente nel passato e che essi coltivano in sé».

E in Conoscenza vivente della natura, un ciclo di conferenze tenute a Dornach nel 19 gennaio 1923 (O.O. N° 220) ribadisce il concetto del rapporto dell’uomo con le forze eteriche: «Un Greco che entrava nel tempio e vedeva la statua del dio, si diceva con tutto il cuore: mai sento la forma, la struttura di un mio dito tanto chiara fino all’estrema periferia come quando ho davanti a me la statua del dio; mai sento come la mia fronte si incurvi al di sopra del naso, mai la sento nella mia interiorità, se non quando entro nel tempio e ho davanti a me la statua del dio. Di fronte alla bellezza il Greco si sentiva interiormente compenetrato, riscaldato, illuminato, vorrei dire toccato dagli dèi. E altro non era se non il sentire nel corpo eterico. …I1 reale sentire il corpo eterico esisteva ancora davvero molto forte in tempi piú antichi. Nel corso dell’evoluzione abbiamo perduto una parte della nostra umanità».

Ma se l’uomo della strada, il cosiddetto “mangiatore di pane”, nel volgere dei secoli aveva perduto una parte o tutta l’umanità di cui le conoscenze esoteriche e misteriche lo avevano gratificato, l’artista non aveva deposto le armi della penetrazione nel mondo degli archetipi, nella sfera delle forze eteriche su cui tutto ciò che è creato si regge, le misure dell’ordine cosmico, delle arcane rispondenze e simmetrie, che gli antichi avevano trasfuso, spesso senza averne consapevolezza, per dote animica appunto, nelle opere d’arte e d’ingegno con cui sublimavano la spuria materialità di cui disponevano. Ma spesso, come nel caso di artisti avvertiti di quali forze fossero in gioco, l’opera di tutela delle valenze eteriche di oggetti e manufatti era vigile e sentita, e nulla veniva lasciato all’evento fortuito.

Borromini Interno San Giovanni in Laterano

Borromini – Interno di San Giovanni in Laterano

Nel 1646 papa Innocenzo X affidò al Borromini l’incarico di rinnovare l’inter­no della basilica di ç San Giovanni in Laterano. Non volendo eliminare le antiche strutture murarie del venerabile monumento, operazione che avrebbe cancellato, come era avvenuto a San Pietro, le testimonianze dell’èra costantiniana, Borromini decise di rispettare integralmente le antiche strutture. Vennero quindi ingabbiate le preesistenti colonne all’interno di possenti pilastri. Le vecchie pareti vennero inglobate in muri spessi, forati da finestre ovali. Nella navata centrale ricavò nicchie arcuate verso l’esterno e le inserí tra i pilastri, mentre le navate laterali vennero ricoperte con diversi tipi di volte a botte e ridotte con minicupole. Per preservare le lapidi e gli epitaffi medievali e rinascimentali, mise in atto un efficace procedimento di smontaggio degli antichi reperti, contornandoli di cornici di sua creazione, ma che riproducevano ornati e fregi tipici dell’epoca in cui le epigrafi e le lastre marmoree erano state realizzate.

Come mai tanto fervore per preservare cimeli e opere del remoto passato? È nota la dedizione quasi maniacale del Borromini per trovare soluzioni inedite alle sue opere. O forse la sua era, piú verosimilmente, una tenace, insonne ricerca di quelle misure che gli antichi in generale, e gli Egizi e i Greci in grado maggiore, possedevano grazie a conoscenze ereditate da civiltà sparite. Le stesse misure che i Cavalieri Templari avevano cercato nelle rovine del Tempio di Salomone, e forse trovate, come ci fa capire Lex Bos, nel suo I Cavalieri TemplariLa continuazione del loro compito nell’epoca attuale. Di tali compiti e del loro fine in seno alla società umana futura, Bos ci parla, riportando quanto Steiner dice in proposito, riferendosi alla Tripartizione dello Stato Sociale: «La conoscenza occulta, la stessa idea che è alla base sia della forma umana sia della costruzione del Tempio di re Salomone, era anche all’origine della costruzione delle cattedrali. Ma in piú i Cavalieri sapevano che questa idea avrebbe dovuto costituire l’ispirazione per un rinnovamento sociale. Sapevano che questi segreti avrebbero fornito la chiave per la costruzione di un Tempio per l’Umanità, la chiave per la creazione di una nuova realtà sociale». Rinnovamento che ebbe nell’uso e nella circolazione del denaro i due punti di eccellenza. Lo Spirito si calava nella materia e la piegava alla realizzazione di opere che sublimassero gli uomini per riportarli alla sua legge universale. Dal denaro di donazione a quello di acquisto, per finire con il denaro di prestito, grazie al quale il credito acquisisce «il potere misterioso di colmare la distanza fra gli sviluppi spirituali-culturali e la loro realizzazione materiale nella vita economica».

Non tutti però, come il nostro amico crocierista, possono permettersi viaggi esotici nel tepore quattrostagioni del tropico cercando assaggi di immortalità. Chi non può, si arrangia con evasioni fai-da-te, a corto raggio, utilizzando mezzi di trasporto inquinanti, guidati da un’entità invisibile ma non di specie divina o angelica. È piuttosto un’invisibile deità totalizzante, che si esprime in tono autoritario, senza avere il carisma dell’onniscienza, per cui i suoi dettami risultano, non di rado, fuorvianti. Comunque si va, senza tener conto delle previsioni meteo, giunte ormai all’empirismo sciamanico a causa del comportamento schizoide del Niño o delle furie isteriche dei tornado. Aerea guida, il cloud. Dopo mesi di siccità, che hanno reso i1 2015 uno degli anni piú asciutti di sempre, ecco presentarsi il nuovo anno 2016 che sembra voler recuperare alla svelta e in abbondanza di precipitazioni le carenze idriche del suo predecessore. È sabato, il secondo giorno di gennaio, con brume nordiche, nevischio a turbine, i media parlano di neve a bassa quota sulle Alpi e di possibili spruzzate anche al Centronord a quote piú alte, ma non troppo. Ce ne sarà, annunciano, per tutti. Si raccomanda prudenza e catene a bordo. In una giornata simile, cosa spinge un gruppetto familiare, tre adulti, di cui due stagionati, una madre e i suoi due ragazzi in età puberale, ad affrontare un viaggio in macchina verso la Tuscia viterbese? Cosa pulsa nei plessi animici e cerebrali di cinque viaggiatori per motivare un tale azzardo? La ragione di tanto ardire è altrettanto inesplicabile quanto l’oggetto del loro cercare. Infatti, i cinque hanno appreso da fonti certe e documentate, che in un antico borgo dei Cimini è possibile visitare una fabbrica di immortalità, o piú precisamente una macchina in marmo travertino e pietre di arenaria, grazie alla quale è possibile sperimentare, con rituali appropriati, un assaggio di eternità.

Il navigatore con la sua voce metallica, avvisa che la destinazione è raggiunta. Un fantoma cibernetico parla dal vacuum spaziale, il vuoto cosmico che fa da preludio all’eternità. Soffia un vento gelido e il borgo, chiuso nella cinta delle antiche mura, arroccato sull’acroterio che digrada in strapiombi dirupati, somiglia a una nave protesa sulla pianura. Viterbo è un’isola miraggio, che si delinea e scompare a tratti, per subitanee accensioni di una luce equorea che piove da squarci di nembi. La buriana è fuori, tormenta cespi di oleandro, staffila gli ulivi, sgomenta le violette pansé tratte fuori dalle serre e lasciate allo sbaraglio in aiuole sul sagrato.

Interno cattedrale di San Martino al Cimino

Interno della cattedrale di San Martino al Cimino

La casa di Dio è lí, alta, slanciata, vertiginosa nelle sue volte ed arcate, nei costoloni che innervano la sua architettura, imitante l’anatomia umana. È, informano le notizie storiche, l’ultimo esempio di cattedrale cistercense in Italia e in Europa, che è come dire nel mondo intero, lasciata all’interno nella sua integrità e austera semplicità. Anche qui ha lavorato Borromini, intorno all’anno 1646, su commessa di Innocenzo X Pamphili e di Olimpia Maidalchini, che chiesero al Maestro, Cavaliere di Cristo, di preservare le strutture esterne delle origini entro supporti marmorei barocchi, cosí come aveva fatto a San Giovanni in Laterano.

Facciata della cattedrale di San Martino al Cimino

Facciata della cattedrale di San Martino al Cimino

L’architetto che voleva trasformare la pietra in moto ondoso, in oceano senza rive, in ali spiegate, eseguí i due campanili, con gli orologi che originariamente, sul­l’esempio di quelli di Sant’Agnese in Agone, a Piazza Navona a Roma, segnavano uno l’ora italiana e l’altro l’ora ultramontana, ossia centroeuropea. Lei, Olimpia, Principessa di San Martino, come dice la lapide posta sulla sua tomba, dorme il sonno dell’immortalità, simboleggiata da due teschi in marmo policromo, con folte capigliature, irridenti. Questa donna, la Papessa, diede vita a una comunità rurale autosufficiente, tolse dalla strada le donne perdute e diede loro una dignità e una sicurezza. Venne accusata di molte colpe, la maggiore delle quali era di voler fare di Roma una città fastosa ma ordinata, accogliente e moderna, una città regale, con la tiara di Pietro e nel nome di Cristo. In grande quello che era già San Martino. Le si rimproverava di prestare soldi, ma uno dei punti chiave della riforma finanziaria promossa dai Templari era proprio il denaro di prestito, volàno di ogni estro creativo. «Il denaro di prestito, il credito, ha invece il potere misterioso di colmare la distanza fra gli sviluppi spirituali-culturali e la loro realizzazione materiale nella vita economica» dice ancora Lex Bos.

Il ritorno per la costa tirrenica è sotto un tiepido sole che illumina distese argentate di uliveti. Sacri a Minerva, difendono la vita dalla guerra e dalla sofferenza, dalla miseria e dalla fame. I Greci, posti di fronte a una scelta, preferirono come dono della Dea l’albero dell’ulivo al cavallo. La superstrada Orte-Viterbo-Civitavecchia a un certo punto si interrompe. Blocchi di cemento di traverso sulla carreggiata. Il mare balugina dalla costa lontana pochi chilometri. Antichi e nuovi rancori spargono veleni. La politica non è per ben governare ma per impedire all’avversario di farlo. È un gioco al massacro. Il Paese muore e l’Estraneo gongola. E i nostri allori sfioriscono.

I Templari vissero il loro impulso spirituale con la cristianizzazione della vita economica. Non po­tevano, dice Lex Bos, «andare oltre quello che era possibile nel dodicesimo e tradicesimo secolo, ossia limitarsi alla realizzazione delle fondamenta di questa nuova società, di questo nuovo Tempio del­l’Umanità». Dopo il loro sterminio, concluso con la condanna al rogo nel 1314 del Gran Maestro Jacques de Molay, l’Ordine venne ricostituito a Sagres in Portogallo, con il nome di Ordine di Cristo. Lo sosteneva e animava il re Enrico il Navigatore, che promosse i primi viaggi di esplorazione verso l’Oriente, alla scoperta di nuove terre e popoli diversi, tra cui il mitico regno del Prete Gianni.

Per realizzare il Tempio dell’Umanità, c’era chi costruiva vascelli, chi innalzava cattedrali, chi scolpiva la pietra, chi illustrava pensieri e moti del cuore in immagini, chi tentava di riprodurre la Voce di Dio. Tutti, allora come oggi, in ogni tempo e luogo, navigatori nel gran mare senza sponde dell’eternità.

 

Ovidio Tufelli