Meditazione buddhica, meditazione cristica

Sacralità

Meditazione buddhica, meditazione cristica

 

Meditazione buddhica

«Il Buddha Amitābha di là dai monti»
China su rotolo – XIII sec.
Buddha detto “della Luce Infinita”
in quanto emana raggi di luce dorata

Quando l’antico yoghin indiano sentiva riecheggiare in sé le parole aham asmi («Io Sono»), udiva in realtà la voce del “Signore”, del dio personale Iśvara che aleggiava disincarnato al di sopra della coscienza pensante. Cosí in Iśa Upaniṣad 16 (nella versione di Aurobindo) si legge: «Evolutore, unico Veggente, Reggitore, Illuminatore… Ciò che di te percepisco è la luce radiante, la tua forma piú benedetta. Io Sono questo Signore che è là e ovunque».

Per il meditante buddhista l’esperienza sarà diversa. Sorto nell’“epoca assiale” – ovvero nell’epoca di Michele precedente l’evento del Golgotha – il buddhismo educò l’uomo a dire: «La luce del pensare opera in me»: l’asceta buddhista era tale quando giungeva interiormente ad aver coscienza delle forze espresse da questa frase. La missione del Buddha, che si svolse storicamente nell’epoca dell’ani­ma razionale e affettiva (VIII a.C.-XIV secolo d.C.), fu spingere l’interiorità umana sul cammino verso l’Io immanente. Questo è il motivo per cui l’Illuminato negava la validità dell’antico Io trascendente additato dalla tradizione indiana, perché ciò che da lui veniva insegnato era un nuovo Io: una sorta di “Io penso” diverso sia dall’Io indiano che tendeva a cosmicizzarsi secondo la formula upaniṣadica “Tat tvam asi” (“Tu sei questo”) sia dall’“Io sono” proprio della tradizione cristiana. A tale condizione spirituale il monaco buddhista poteva pervenire attraverso la disciplina del­l’Ottuplice Sentiero, purificando la mente, ovvero l’attività astrale. Il Buddha diceva infatti ai discepoli: «Il mondo è condotto dal pensiero, è manovrato dal pensiero, tutto obbedisce a un solo dharma, il pensiero» (Sayutta Nikāya I, 39). Perciò insegnava: «Fatevi un corpo di pensiero (manomayakāya)». Come dire: portate a coscienza tutti i moti neurosensoriali, cosí trasformerete sensazioni, percezioni, passioni, in un corpo luminoso intessuto dalla consapevolezza del pensare. La strada era ardua e aspra, tanto che i primi buddhisti continuarono ad avere una percezione ancora trascendente dell’“Io penso”: gli antichi monaci Theravāda aspiravano infatti a un’esperienza mistica della liberazione nirvanica che li portasse a “troncare la catena delle rinascite”, quindi a rifiutare la sofferenza, la malattia, la morte.

Quando, però, intorno ai primi secoli dell’èra volgare, il Logos riecheggiò in Oriente e sorse l’al­tra e piú vasta branca del buddhismo, il Grande Veicolo (Mahāyāna), si ebbe una svolta; l’origina­ria tensione mistica verso il Nirvana cominciò a spegnersi, per cedere il passo a una nuova esperienza interiore: l’esperienza dell’Io, avvertito come forza del tutto immanente all’essere umano. Questa esperienza creò un profondo mutamento spirituale nel pensiero buddhista, che darà vita alle due vaste correnti filosofiche della via dei Bodhisattva: la scuola Mādhyamaka di Nāgārjuna (II secolo d.C.) e la scuola idealistica Yogācāra dei fratelli Asaṅga e Vasubandhu (IV-V secolo d.C.), la prima ispirata dal bodhisattva michaelita Mañjuśrī, mentre la seconda dal bodhisattva Maitreya.

Grazie a queste due scuole, l’asceta buddhista mise particolarmente a fuoco la percezione della Coscienza pensante e la chiamò esperienza del Solo Pensiero (cittamātra). Nel corso di questa esperienza l’asceta buddhista scopriva che “il triplice mondo (sfera del desiderio, della forma e della non-forma) è solo pensiero”, nel senso che grazie a questa esperienza immaginativa il monaco buddhista trasfigurava la sfera del dolore, del karma, della malattia e della morte, e iniziava il cammino bodhisattvico, per dedicarsi alla salvezza degli esseri umani. Da un punto di vista pratico l’esperienza buddhista dell’“Io penso”, sia nella scuola Mādhyamaka sia nello Yogācāra, si realizzava attraverso la visualizzazione della Luce del pensare (prabhāsvaracitta). Ciò dimostra come l’asceta mahayanico cogliesse la presenza dell’Io esclusivamente nella purificazione dell’attività neurosensoriale, diversamente dall’uomo del nostro tempo che invece è chiamato a confrontarsi con la presenza dell’Io nel sangue, come espressione calorica dell’“Io sono”.

 

L’Io Sono come esperienza del Cristo-Fuoco

 

Con l’avvento del cristianesimo irrompe nella psicologia umana d’Occidente l’esperienza del calore connesso all’“Io Sono”. Grazie alla Pentecoste, infatti, il principio-Fuoco penetra in ogni uomo, diviene Io umano, anzi sangue, promessa di Resurrezione per ciascuno di noi. Questo è il segreto della Pentecoste. A ciò si riferisce Rudolf Steiner quando, in una conferenza dell’11 aprile 1909 (O.O. N° 109) dice che «il cristianesimo ha aggiunto agli antichi Misteri i Misteri del sangue, i Misteri del fuoco umano».

L’esperienza calorica dell’“Io Sono” compare per la prima volta nel libro La gerarchia celeste di Dionigi l’Areopagita, il capostipite del misticismo esoterico cristiano. Dionigi la descrive come l’esperienza del fuoco mistico. Che cosa si cela dietro la simbologia del fuoco, secondo l’autore? Nella dottrina dionisiana il fuoco non ha soltanto un valore catartico e illuminativo, ma possiede un vero e proprio valore iniziatico, sia perché – viene detto – questo elemento è ciò che in natura è piú simile al Divino sia perché esso è l’attributo specifico dei Serafini, la piú alta Gerarchia. Il fuoco («luminoso e occulto» si legge nella Gerarchia celeste) è il simbolo mistico sotto cui si cela l’Iniziazione, che sotto il segno del fuoco si era compiuta per i primi cristiani con l’evento della Pentecoste. Va infatti detto che nel linguaggio dionisiano mystikòs, al contrario dell’accezione moderna che vi vede soltanto qualcosa di attinente a un moto emozionale o a un rifiuto del mondo, conserva an­cora l’antico significato di “misterico, iniziatico”.

Serafino

Serafino dalle sei ali infuocate

Possiamo supporre che la contemplazione del Fuoco cristico, nella forma di contemplazione del Serafino dalle sei ali infuocate, descritto per la prima volta nel cap. 6 di Isaia, fosse la piú alta meditazione insegnata dalla scuola esoterica cristiana di Dionigi l’Areopagita. Il Fuoco è infatti per Dionigi l’elemento che meglio simboleggia il Logos: «…È invincibile, puro, inalterabile, teso in alto, libero da ogni basso cedimento, abbraccia senza essere afferrato. …Ben consci di ciò i conoscitori del Divino hanno rappresentato le entità celesti sotto la specie del fuoco, per dimostrare che la loro natura è fatta il piú possibile a somiglianza e a imitazione del Divino» (Gerarchia celeste, XII, 2). Questa particolare immagine simbolica del Serafino dalle sei ali infuocate, che possiamo chia­mare l’icona del Fuoco-Cristo, dovette essere per la prima scuola esoterica cristiana la meditazione fondamentale. Non a caso questa visione ritorna in un testo del ciclo del Graal. Nell’Estoire del Saint Graal, opera in lingua d’Oïl di un anonimo del XIII secolo (Genova 1981), si legge: «Iosefo [figlio di Giuseppe d’Arimatea] …vide all’interno dell’arca [che conteneva la Sacra Coppa] un uomo che indossava una veste piú rossa del fuoco vivo e i cui piedi, le cui mani e il cui viso erano del medesimo colore. Attorno a lui stavano cinque angeli, ognuno con sei ali, essi pure rossi come il fuoco [gli angeli recavano i simboli della Passione]».

 

Gentile da Fabriano - Stigmate di San Francesco

Gentile da Fabriano «San Francesco riceve le sacre Stimmate»

Una visione analoga a quella di Isaia ebbe San Francesco d’Assisi sulla Verna, al momento di ricevere le stimmate. Nel caso di Francesco d’Assisi, l’im­magine del fuoco suggella il momento piú alto e pentecostale della Sequela Christi sperimentata dal santo italiano: «Santo Francesco …comincia a contemplare divotissimamente la passione di Cristo e la sua infinita carità. E crescea tanto il fervore in lui della divozione, che tutto si trasformava in Gesú, e per amore e per compassione. E istando cosí infiammandosi in questa contemplazione, in quella medesima mattina e’ vide venire dal cielo uno Serafino con sei ali risplendenti e affocate; il quale Serafino con veloce volare appressandosi a santo Francesco, sí ch’egli il potea discernere, e’ conobbe chiaramente che avea in sé l’im­magine d’uomo crocifisso, e le sue alie erano cosí disposte, che due alie si distendeano sopra il capo, due se ne distendeano a volare e l’altre due si copríano tutto il corpo. Veggendo questo, santo Francesco fu fortemente spaventato e insieme fu pieno d’allegrez­za e di dolore con ammirazione. Avea grandissima allegrezza del grazioso aspetto di Cristo, il quale gli apparía cosí dimesticamente e guatavalo cosí graziosamente: ma d’altra parte veggendolo crocifisso in croce, aveva smisurato dolore di compassione. Appresso si maravigliava molto di cosí istupenda e disusata visione, sapendo bene che la infermità della passione non si confà colla immortalità dello ispirito serafico. E istando in questa ammirazione, gli fu rivelato da colui che gli apparía, che per divina provvidenza quella visione gli era mostrata in cotale forma, acciò ch’egli intendesse che, non per martirio corporale, ma per incendio mentale egli doveva essere tutto trasformato in nella espressa similitudine di Cristo crocifisso. …E nella detta apparizione serafica Cristo, il quale apparía, si parlò a santo Francesco certe cose secrete ed alte, le quali santo Francesco in vita sua non volle rivelare a persona, ma dopo la sua vita il rivelò …e le parole furono queste: “Sai tu, disse Cristo, quello ch’io t’ho fatto? Io t’ho donato le Stimate che sono i segnali della mia passione, acciò che tu sia il mio gonfaloniere”. …Disparendo dunque questa visione mirabile, dopo grande spazio e segreto parlare, lasciò nel cuore di santo Francesco uno ardore eccessivo e fiamma d’amore divino, e nella sua carne lasciò una meravigliosa immagine ed orma delle passioni di Cristo. …Gesú Cristo crocifisso …gli era apparito in ispezie di Serafino» (Fonti Francescane 1919 ss., Terza Considerazione delle sante Istimate).

Il dono del Cristo-Fuoco fatto a Francesco d’Assisi era la mèta ideale ricercata dalla scuola dionisiana dei primi secoli del cristianesimo, oltre che un motivo artistico assai presente nel­l’iconografia medievale e nell’angelologia cristiana. Questa nozione spirituale risuonerà fino alla soglia dell’epoca dell’anima cosciente presso un autore che si pone sulla stessa linea della teologia apofatica di Dionigi l’Areopagita, il cardinale tedesco Nicolò Cusano (1401-1464), che scriverà nella Dotta ignoranza: «Cristo è come fuoco purissimo, inseparabile dalla luce e sussistente non in sé ma nella luce; è quel fuoco spirituale della vita e dell’intelletto che, consumando tutte le cose e tutte accogliendole in sé, tutte le sottopone a prova e a giudizio, come fosse il giudizio del fuoco materiale che tutto sottomette ad esame» (III, 233).

«Il carro di fuoco di Elia»

Il carro di fuoco di Elia

L’esperienza biblica del Divino – dal Roveto ardente al Carro di fuoco che rapí il profeta Elia – fu in fondo una grandissima esperienza dello Spirito sotto le sembianze del Fuoco; ma il popolo ebraico la visse come Fuoco trascendente, immagine ignea e abbagliante del Trono di Dio (Merkavà), maestoso, incommensurabilmente lontano dall’uomo. A esso si possono riferire le parole di Dt 4,24: «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore». In questa fase della civiltà il sentimento religioso che si è giovato dell’espe­rienza spirituale del Fuoco, l’ha elaborata dalla volontà, dalle forze del volere.

Pentecoste

Pentecoste

 

Quando quel principio-Fuoco contemplato da Mosè nel Roveto ardente sul monte Sinai si fa uomo, allora l’esperienza del Divino come Fuoco si trasfigura nella percezione delle “lin­gue di fuoco” della Pentecoste: il nuovo uomo, rinato grazie al Cristo, sente di essere fecondato dall’Amore onnioperante, dall’Amore cosmico: «Gli Apostoli apparvero alla gente come trasformati, come uomini che avessero acquisito un nuovo atteggiamento, una nuova disposizione d’animo, come uomini che avessero perduto nella vita ogni ristrettezza d’animo e ogni egoismo» (R. Steiner, Il quinto Vangelo, conferenza del 2 ottobre 1913).

Successivamente, da Dionigi fino a Nicolò Cusano, l’e­sperienza del Cristo-Fuoco vissuta dai mistici si presenta sotto forma di immagine del Serafino dalle sei ali infuocate, e in Francesco – per la tipica via del sentire francescana – sotto forma di Serafino crocifisso. Nei secoli seguenti alla Controriforma, la mistica cattolica europea avrebbe invece ridotto l’esperienza interiore del Cristo-Fuoco a struggente venerazione del Cuore sanguinante e infiammato di Gesú, sempre piú visto come “uomo del dolore”. L’antica espe­rienza trasfigurante del Fuoco ormai si smarriva nell’estremo soggettivismo dei sentimenti. Eppure qualche traccia dell’originaria esperienza del Cristo-Fuoco si conservò nell’Europa del ’500 grazie al cristianesimo esoterico e giovannita caro agli alchimisti.

Lettera sul Fuoco FilosoficoLo attesta la Lettera sul Fuoco filosofico, attribuita all’umanista italiano Giovanni Pontano (1426-1503). Gli alchimisti distinguevano perlopiú tre tipi di fuoco, come dire tre gradi di calore dell’Io: un fuoco naturale, diremmo saturnio, che nell’essere umano è espresso dagli istinti, quindi dal volere (anima senziente); un fuoco “antinaturale”, detto anche “Vulcano lunatico” (si veda Fulcanelli, Les Demeures philosophales, Parigi 1965), identificabile con l’incostante fiamma del sentire (anima razionale-affettiva); e un Fuoco “soprannaturale” o filosofico (anima cosciente), identificabile con la pienezza dell’Io.

Gregorio il Sinaita

Gregorio il Sinaita

Nel tardo Medioevo, sul versante ortodosso del cristianesimo dilagò nell’àmbito del sentire la “preghiera del cuore”. Descrivendo questa pratica nella Filocalia il monaco athonita Gregorio il Sinaita (1255-1346) faceva una differenza fra «l’ardore del peccato che riscalda l’anima con la voluttà» e «la potenza infuocata dello Spirito santo che si muove con gioia e letizia del cuore, che rafforza e riscalda e l’anima e la purifica». A suo modo Gregorio il Sinaita conferma anche la tripartizione del calore dell’Io: «Il calore dell’operazione che si accende negli uomini è triplice: dalla grazia, dall’inganno, cioè dal peccato, e dal­l’abbondanza di sangue».

Ritornando al Pontano, su questo Fuoco puramente immateriale del­l’Io egli scrive: «Questo Fuoco filosofico è segreto, non brucia la materia, niente separa dalla materia, né divide le parti pure dalle impure, come dicono tutti i filosofi, ma converte in purità tutto il soggetto. …Non proviene dalla materia …non s’infiamma, non si consuma. …È insieme un fuoco naturale, antinaturale e soprannaturale… soltanto per mezzo di una profonda riflessione si riesce a trovare quel fuoco. … Se tu indagherai bene e profondamente le cose sante, conoscerai la proprietà del fuoco. … Il fuoco non si trasmuta insieme alla materia, perché non è materia».

Alla fine della Lettera, Giovanni Pontano suggerisce una meditazione alchemica: «Prima fatti padrone assoluto delle tue passioni, dei tuoi vizi, delle tue virtú; devi essere il dominatore del tuo corpo e dei tuoi pensieri, poi [ci vogliono anni] accendi o sveglia, per meglio dire, nel tuo cuore, per immaginazione, il centro del Fuoco; cerca di sentire dapprima una specie di caloricità lieve, poi piú forte. Fissa tale sensazione nel tuo cuore. Dapprima ti parrà difficile; la sensazione ti sfuggirà; ma cerca di mantenerla nel cuore; rievocala, ingrandiscila, diminuiscila a piacere; sottomettila al tuo potere; fissala e rievocala a volontà. Prova e riprova. Impadronisciti di questa forza e conoscerai il Fuoco sacro o filosofico».

La Rosacroce

La Rosacroce

Ciò che per il cristianesimo mistico dei primi secoli fu la contemplazione del Cristo-Fuoco, ciò che per Dionigi l’Areopagita e san Francesco fu l’esperienza del Serafino dalle sei ali infocate, ciò che nel cristianesimo ortodosso è stata l’esperienza calorica della “preghiera del cuore”, per il cristianesimo michaelita del futuro sarà sempre piú la meditazione sulla Rosacroce: «Ci si rappresenti una croce nera. Questa dev’essere il simbolo per i distrutti elementi inferiori di istinti e passioni, mentre là dove le braccia della croce si incrociano, bisogna raffigurarsi sette rose raggianti, ordinate in circolo. Queste rose saranno il simbolo del sangue che esprime le passioni e gli istinti purificati» (R. Steiner Scienza occulta).

Sappiamo bene che il motivo del Sangue redentore del Cristo ha animato la vasta letteratura graalica, dal Giuseppe d’Arimatea di Robert de Boron al Parzival di Von Eschenbach. Da ciò intuiamo perché Steiner dichiarò che «il cristianesimo ha aggiunto agli antichi Misteri i Misteri del sangue, i Misteri del fuoco umano». Come si realizza la meditazione della Rosacroce? Attraverso l’attivazione dei centri eterici, di cui ora descriveremo i primi due.

1. Centro eterico del cuore. Esso si avvale dell’attività della ghiandola tiroidea da un lato e del pancreas dall’altro. La loro collaborazione avvia lo sviluppo spirituale della zona mediana. La tiroide è la piú voluminosa delle ghiandole endocrine: gli ormoni tiroidei stimolano la produzione di calore, la crescita del sistema nervoso e delle ossa, lo sviluppo dell’apparato genitale, inoltre accelerano la degradazione degli zuccheri. Lo iodio, di cui la tiroide è ricca, ha particolare affinità con la luce (ne sono ricchi i raggi UVA). La ghiandola tiroidea agisce molto anche sugli uccelli, tanto che deriva dall’attività tiroidea l’agitazione premigratoria.

Il pancreas è adiacente all’aorta e agisce notevolmente sul sangue, in quanto attraverso l’insu­lina abbassa il tasso di zucchero (quindi la glicemia), mentre l’adrenalina dei surreni lo eleva; inoltre blocca la trasformazione del glicogeno in glucosio e regola il metabolismo dei lipidi e dei protidi.

Quando attraverso la pratica meditativa si ridesta la corrente eterica della tiroide, da essa si dipartono le forze eteriche che salgono al capo e poi passano lungo le mani, formando attorno al corpo eterico un “tessuto” di correnti, che percepiscono tutto ciò che affluisce dall’ambiente circostante. Si scopre che anche l’azione piú insignificante, come un gesto della mano, ha la sua funzione nell’economia dell’universo: ogni pur piccola azione viene compiuta con consapevolezza.

Attraverso il risveglio del centro eterico del cuore l’uomo comprende l’importanza dell’amore per la libertà interiore, il desiderio del superamento di sé, della propria natura personale. Questo è il momento in cui il cercatore dello Spirito acquisisce il dono della “parola interiore”: le cose e i fenomeni gli rivelano la loro vera natura spirituale; il meditante afferra in modo vivo gli insegnamenti dei grandi Maestri dell’umanità. Questo centro eterico apre la porta alla connessione con i Maestri spirituali della Rosacroce. Nel cap. XXI delle Tecniche della concentrazione interiore Scaligero riassume che in seguito al risveglio dei chakra astrali, con l’adunarsi delle forze eteriche nel centro del cuore, si verifica il processo di eterizzazione del sangue, il quale comporta una parziale redenzione della Materia. Parte del sangue è trasmutato in luce e acquisisce la capacità di veicolare l’Io Superiore. Grazie all’eterizzazione del sangue la Vita della Luce ascende dal centro eterico del cuore al centro eterico della testa.

2. Centro eterico della testa. Come scrive Rudolf Steiner nella Fisiologia occulta, tale centro eterico è localizzabile tra l’epifisi e l’ipofisi. Queste ghiandole rappresentano nel cervello due polarità: l’introversione e l’estroversione, nel senso che l’epifisi raccoglie la quintessenza di ciò che affluisce attraverso l’attività neuro-sensoriale, quindi le percezioni del mondo esterno, mentre l’ipofisi sorveglia la funzionalità degli organi interni. Questo duplice ruolo è confermato dal fatto che in natura queste due ghiandole hanno una funzione antagonista: l’epifisi, che sintetizza la serotonina (un’ammina che ha potere stimolante), ritarda e inibisce lo sviluppo sessuale nei primi anni, mentre l’ipofisi stimola la funzione delle altre ghiandole e agisce sulla crescita. Per Massimo Scaligero tali ghiandole sono portatrici di due correnti eteriche: l’epifisi porta la corrente mentale-egoica, mentre l’ipofisi la corrente cardiaco-cosmica (Tecniche della concentrazione interiore). Da questa polarità deriva la stessa diversificazione del cervello umano in due emisferi cerebrali, ove il destro è deputato ai processi creativi, fantastici, tipicamente femminili, mentre il sinistro presiede ai processi analitici, pratici, tipicamente maschili. 

La corretta e costante pratica della meditazione armonizza queste due correnti favorendo la formazione del “pensiero libero dai sensi”.

Dal punto di vista della ricerca esoterica si sbagliava dunque Cartesio (1596-1650), lo scienziato e matematico francese considerato il fondatore della filosofia moderna. Infatti Cartesio, che peraltro rifiutava la tripartizione dell’anima in intellettiva, sensitiva e volitiva, sosteneva che l’epifisi, o conarion, «è la sede principale dell’anima, il luogo dove si svolgono tutti i nostri pensieri. …Non trovo alcuna parte in tutto il cervello, eccettuata questa sola, che non sia doppia. …Solo a questa ghiandola può essere unita l’anima, perché essa è la sola, in tutta la testa, che non sia doppia» (E. Garin, Vita e opere di Cartesio).

 

Gabriele Burrini