Velocità

Il racconto

velocità

LAI Roma-USA-ArgentinaIl cartellone appariva di colpo, oltrepassata la curva di Miramare. In quel punto, i tourniquet della rotabile si distendevano in un lungo rettilineo, considerata la tortuo­sità generale del tracciato co­stiero, prima di avvitarsi in una ennesima serie di ghirigori affannosi.

L’ubicazione prescelta produceva un richiamo ottico no­tevole sugli occupanti dei vei­coli provenienti dalle opposte direzioni di marcia. Era infatti impossibile non lasciar­si catturare dalla scena, illustrata con toni vivaci dal tabellone fissato alla macera di un podere a monte della strada. Si vedevano i due continenti, l’Europa sul lato destro e l’America su quello sinistro della vignetta, fronteggiarsi separati da una vasta fascia blu chiaro: l’Oceano Atlantico. Un tondo rosso localizzava Roma, ben rilevata sullo stivale, e due tondi dello stesso colore marcavano sulle sponde dirimpetto New York e piú sotto Buenos Aires. I punti circolari erano collegati da segmenti marroni a forma di freccia, aventi come punta le sagome scure di aeroplani. In alto, al centro di quella sorta di ex-voto propagandistico, si produceva in un sorriso ammiccante, trentadue-denti-trentadue, un’avvenente ragazza in uniforme. La sua mano dal candore diafano si protendeva a evidenziare la scritta che campeggiava in lettere cubitali: “LAI – Linee Aeree Italiane” e poco piú in basso: “Roma-New York in 16 ore” e “Roma-Buenos Aires in 22 ore”.

strada e carrettoGirò non aspettava neppure lo strattone di redini del suo padrone Menico. Subito dopo aver svoltato l’ansa della Torre Miramare si fermava. Il carretto dondolava, rullava un attimo cigolando, infine si bloccava, e lo sbuffo del cavallo che immediatamente seguiva sembrava sottolineare la riluttante accondiscendenza di Girò alla contemplazione che Menico dedicava ogni giorno a quella incredibile visione.

«Un poco di pazienza, Girò – diceva il carrettiere al cavallo – e poi ce ne andiamo a casa!».

Mancava ancora un breve tratto di strada per arrivare al paese, e l’animale presagiva il conforto della stalla e del suo fieno. Quel giorno, tra l’altro, la povera bestia aveva di che sentirsi prostrata e nervosa. Nella salita di Furnillo una corriera di linea aveva superato il carretto. Non contento del fracasso prodotto dal motore, il conducente aveva azionato la tromba con perfida scelta di tempo proprio all’altezza della testa di Girò. Per sottrarsi al rombo assordante e allo strepito del clacson, il cavallo aveva scartato contro il parapetto, impennandosi e nitrendo di paura. Inutili gli strilli e le minacce di Menico all’indirizzo del vandalo. Motorette e camion facevano lo stesso: si divertivano a tormentare i pochi trasporti a trazione animale che ancora resistevano sulle strade della costa. La velocità e il rumore s’imponevano su tutto e tutti con tracotante invadenza. Quel tabellone fantasmagorico ne era la prova.

«Ci pensi, Girò – osservava Menico in un assorto monologare, silenziosa controparte il cavallo che a testa bassa tra le stanghe pareva assentire gravemente – appena ventidue ore e arrivi a Buonosaires… Te lo vedi tu mio cognato Aniello che ritorna dopo quarant’anni dall’Argentina sopra uno di quegli sciaraballi, o mio fratello Vincenzo, in sedici ore da Broccolino… piú o meno quanto ci mettiamo noi a consegnare una partila di limoni a Salerno e a tornare».

Girò scuoteva la cavezza: un filo di schiuma biancastra gli colava da un angolo della bocca irsuta di peli.

«Sei stanco, vero? Og­gi ti è andata male, amico mio. Adesso ripartia­mo… su bello!».

Erano due vecchi, lui e il cavallo. Stentavano a tenere il passo con i tempi che incalzavano. Velocità, fretta: guai a restare indietro, guai a perdere colpi.

Girò si avvicinava ai vent’anni, un’eternità per un cavallo. Vissuti come, poi! Cinque anni di corse ad Agnano, quindici dopo alla stanga, e negli anni di guerra su e giú per le colline a portare legna, carbone, persino un pezzo di artiglieria, una volta che l’esercito lo aveva requisito. Pioggia, sole, vento, salite, discese, cadute, polmoniti e dissenterie. Tutte le aveva provate, Girò. Chissà quanti dolori non confessati, tenuti chiusi in quel corpo paziente, rotto alla fatica e alle costrizioni.

«Farebbe comodo anche a te un bel motore adesso, eh?» lo canzonò bonariamente Menico in una salita ripida prima dell’abitato. L’animale aveva ingagliardito la falcata e sollevava la testa nella brezza che gli portava alle nari rosacee gli odori familiari che significavano riposo e crusca.

«Corri anche tu, eh? Anche tu hai fretta, vecchia carcassa!».

Pure, nella speditezza dell’andatura di Girò, Menico non avvertiva quella scompostezza che notava invece nella frenesia di movimento e di gesti che presentavano le persone nella vita di tutti i giorni. Come se fossero le cose a governare l’uomo, e non viceversa.

Girò gli appariva dignitoso e anche solenne in quella ritrovata energia, in quel voler accelerare il ritmo del suo trotto. Gli uomini in groppa alle motorette, alla guida dei torpedoni chiassosi e puzzolenti, chiusi nelle macchine volanti, gli sembravano invece schiavi dei meccanismi che credevano di padroneggiare, soggetti all’artificio dei congegni. Il cavallo amministrava il suo passo, anche la stanchezza in qualche modo gli apparteneva, lo premiava. Stava forse in quella sottile differenza, essere cioè succubi o padroni delle cose, il possedere o meno una dignità.

«Sei arrivato, Girò. Adesso puoi riposare!» disse Menico aprendo la porta della stalla.

Liberato dei finimenti, l’animale affondò la testa nel sacco della crusca, dopo aver emesso un lungo, profondo sospiro. Menico lo strigliò, sistemò la lettiera, e dopo aver sospeso al gancio della trave sopra la mangiatoia il secchio con l’acqua, uscí.

Come ogni pomeriggio, Rafiluccio veniva a casa dei nonni per fare i compiti di scuola. Il carrettiere passò una mano ruvida sulla testa reclina del piccolo a mo’ di saluto.

«’O guaglione non riesce a fare i problemi», si affrettò ad aggiornarlo Teresa, sua moglie.

«Vediamo un po’» disse Menico inforcando le lenti.

Il bambino lesse la prima traccia: «In uno stadio, sei atleti stanno disputando una gara di corsa sulla distanza di ottocento metri. Tenuto conto che la velocità di uno degli atleti è di…» la voce querula del nipotino continuava, ma la mente di Menico si era già smarrita nel groviglio dei numeri, delle minuzie aritmetiche. Il suo cervello vacillava… Perché correvano quegli uomini? Dove realmente volevano arrivare?

Il problema«Secondo te, che vuol dire “stanno disputando”?» indagò Teresa rivolta al marito, circospetta, nel dubbio di trovarsi davanti a un tentativo di volgarità, o peggio di impudicizia. Il suo scarno vocabolario faceva balenare, nelle semplici volute del suo apparato cerebrale, im­magini di atleti che ignobilmente si sprezzavano l’un l’altro mentre correvano. Rafiluccio notò lo smarrimento dei nonni e si fermò.

«Non ce n’è uno piú semplice?» domandò Menico.

Anche il secondo rebus matematico non si presentava meno irto di ostacoli. Parlava di due treni che, partendo da stazioni opposte e viaggiando ciascuno a una data velocità, ad un punto della linea ferroviaria si dovevano incontrare. La traccia menzionava impietosamente termini astrusi, secondi, decimi di secondi, e di nuovo la corsa, la velocità, il turbine delle vettrici che divoravano i chilometri, insaziabili, senza concedere soste per poter rivolgere un’occhiata al mondo che scorreva ai lati del percorso.

«Lèggine un altro» esortò Menico.

«È l’ultimo, questo» avvertí disperato Rafiluccio, già presentendo la conclusione negativa di quel consulto didattico. Il terzo problema in effetti non trattava di velocità, ma il contenuto era quanto mai alieno dalla pratica esistenziale di Menico e della sua famiglia. Poneva il quesito di due rubinetti che erogavano ciascuno un getto d’acqua di tot litri al minuto in una vasca da bagno di una certa capienza, e anche lí, pur mancando la velocità, le cifre abbondavano, i numeri ballavano come mosche petulanti e tormentose. E poi, una vasca da bagno… e chi l’aveva mai vista? Si supponeva che qualcuna delle famiglie ricche della zona ne possedesse una, ma valla a misurare…

«Credo che anche oggi – concluse disarmato nonno Menico – dovrai farti aiutare da padre Matteo».

«Non ci voglio andare – protestò il bambino, anche se già rassegnato – quello mi dà i pizzicotti sul braccio!».

Poiché nessuna reazione di clemenza seguí agli strepiti, Rafiluccio prese libro e quaderno e si avviò, vittima sacrificale, su per le scale che portavano a casa del prevosto, suo abituale mentore nei momenti di emergenza. E quello era appunto uno di quei momenti.

Il camion s’inerpicava lungo i tornanti della strada per Agerola. Al cambio delle marce il motore rombava, le ruote stridevano e lo chassis veniva scosso da vibrazioni. Al posto di guida sedeva Alfredo, di qualche anno piú giovane di Menico. Ex carrettiere, si era poi convertito alla trazione meccanica appena terminata la guerra, acquistando e riadattando un veicolo militare.

«Proprio non ti capisco – stava dicendo a Menico seduto accanto a lui – potevi vendere il cavallo per la macellazione. Qualcosa ti avrebbero pur dato, no? Con il ricavato e una differenza, un camion usato lo troveresti. Strda per AgerolaTi assicuro che è tutta un’altra cosa: tira di piú, non si azzoppa e porta dieci volte il carico di un carretto. E tu invece, lo metti a pensione, il tuo ronzino! A raccontarlo non ci si crederebbe!».

Menico ascoltava in silenzio le argomentazioni in qualche modo assennate del suo collega, ma non riusciva in cuor suo a condividerle. Gettava un’occhia­ta di tanto in tanto a Girò che, all’interno del cassone di carico, legato alle sponde con funi e bande imbottite, stava facendo il suo ultimo viaggio, questa volta da signore.

«Guardatelo – ironizzava sarcastico Alfredo, assestando manate sul volante e scuotendo la testa a rinforzo – sembra un santo in processione!».

«Lascialo stare – reagí Menico – non gli resta molto tempo da vivere: forse un anno, dei mesi. Che se li goda in pace. Ha lavorato tutta la vita!».

«E noi, allora?» replicò Alfredo in tono risentito.

«Per noi è diverso – spiegò Menico di rimando – noi possiamo scegliere se correre o andare piano, se faticare o riposarci. E quando qualcosa ci va storto protestiamo, ci sfoghiamo con qualcuno…».

«Sarà come tu dici – insistette l’altro poco convinto – ma addirittura pagargli il soggiorno in collina!».

Affidarono Girò alle cure di Raffaele, un mezzadro cugino di Teresa, la moglie di Menico. L’uomo possedeva un vasto podere e si era offerto di tenere il cavallo.

«Trattalo bene – gli raccomandò Menico – ti pagherò le spese».

Il contadino esaminò da esperto l’animale, che intanto stava ispezionando col muso un cespo di finocchiella sul cavezzale dell’orto. «Qui di foraggio non ne manca… non credo che ti costerà molto».

Sulla via del ritorno, Alfredo riprese a ciarlare: «E adesso che farai? Perché non segui i miei consigli e prendi un bel furgone? Per la patente ti aiuto io!».

«No, la mia corsa è finita – rispose asciutto Menico. – Vado a riposo anch’io».

«Continuo a non capirti – ribadí l’altro stupito e irritato – proprio non riesco a leggere in quella tua testa cocciuta».

Menico rimaneva muto. Fece scorrere degli attimi di pausa, tanto per far sbollire la foga dell’altro. Poi riprese: «Questi sono tempi di aeroplani, treni, gente che non cammina, corre: America, Argentina, e mentre corrono disputano, e se non corrono o volano riempiono d’acqua la vasca da bagno… Che vuoi, Alfredo mio, non sono tempi adatti alla mia andatura, non posso farci nulla!».

L’autista, interdetto a quell’uscita per lui incomprensibile, osservava preoccupato l’amico che sproloquiava. Ma forse Menico era soltanto stanco, vecchio, e il mondo correva troppo velocemente per lui, come per il cavallo Girò. Era tempo e destino che si facessero da parte.

Diede piú gas al motore. Gli ingranaggi, sollecitati, risposero con un lungo, possente ruggito.

 

Fulvio Di Lieto