Universi perduti - Realtà conquistate

Considerazioni

Universi perduti - Realtà conquistate

Non appena un uomo di larghe vedute completò la frase: «Il mondo in cui viviamo è il migliore di tutti i mondi possibili», ce ne fu subito un secondo a replicare: «Se questo è il migliore dei mondi, figuriamoci gli altri!».

Pure gli uomini di scienza, cultori della precisione, non scherzano come discordanze; chi dice che la cosa piú incredibilmente bella dell’universo è la sua continua comprensibilità, e chi sostiene che piú la nostra conoscenza del cosmo progredisce, piú sfuma la possibilità di ricavare un senso globale e unitario del suo, e nostro, esistere.

Terra piattaForse è giunta l’ora di fare il punto della situazione. Tutto sta a vedere da dove vogliamo partire. Abbiamo avuto la concezione geocentrica, poi quella eliocentrica, e da lí siamo passati alla deriva delle galassie, alle onde gravitazionali e alla Terra piatta, che recupera il geocentrismo; è sicuramente un bel progresso, ma non abbiamo ancora capito bene se pensiamo in modo autonomo o se riflettiamo impulsi mentali extraterrestri, aggiustandoli poi alle nostre esigenze, con un certo estro interpretativo, che a volte stupisce per la disinvoltura applicativa.

Perché sarebbe giunta l’ora? Per il semplice fatto che continuando a pensare senza aver prima risolto l’annoso problema del­l’origine del pensare, c’è il rischio di dover scoprire un giorno che tutto il nostro costrutto di pensieri, indipendentemente dal campo o dal settore cui sono stati rivolti, e dalla magnificenza dei risultati ottenuti, è da buttare, e quel che resta, ammesso che ci sia il tempo d’accorgercene, rappresenta il fallimento della nostra conoscenza. E non solo di quella.

Cosí, sospinto piú dalla natura del ficcanaso che non da intenti accademici, mi son messo a rileggere i filosofi e le loro opere principali; l’ho fatto alla luce di quanto ho saputo rendere mio della Scienza dello Spirito, e devo dire che, attraverso letture spesso barbose e ingarbugliate, ho ricavato una valutazione complessiva abbastanza omogenea, la quale va di là da quanto i filosofi hanno fin qui affermato, e ha invece tenuto conto del perché ognuno di loro abbia voluto esprimersi in quel modo e con quelle determinate concezioni in relazione alla sua epoca e ai suoi contemporanei.

Parlo prevalentemente per i pensatori che vanno dall’Illuminismo ai giorni nostri, in quanto per i precedenti, in special modo per i Greci dell’età classica, il discorso sarebbe diverso.

Il pensiero moderno è caratterizzato in modo evidente dal turbamento, divenuto una vera e propria angoscia, di sentire il bisogno di definire in qualche modo l’Io.

Magritte «La decalcomania»

Magritte «La decalcomania»

Sinceramente, se si osserva con un certo distacco, l’idea di un filosofo che voglia sapere chi sia lui stesso mentre pensa, fa un po’ ridere; ma il tutto è stato posto sottotraccia dal titolone aulico della “soggettivizzazione individuale”, e da quel momento in poi la cosa, rivestitasi di ponderosa serietà, non ha divertito piú nessuno.

«Chi è il Soggetto dei miei pensieri?». La domanda è divenuta drammaticamente rilevante. Si noti che siamo oltre il dilemma pirandelliano del «Chi sono io?»  cosí ben stigmatizzato da Il Fu Mattia Pascal, Uno, Nessuno, Centomila, e dai Sei Personaggi in cerca d’Autore. Qui entriamo già nel mistero di «Chi è che pensa in me?», ovvero: «C’è qualcuno oltre quell’Io in cui fin qui riesco a riconoscermi?».

Il centro dell’uomo cerca una relazione, un rapporto, un legame solido con il centro dell’universo; sente di averne piú che mai bisogno, ma trova solo il vuoto, lo spazio, l’estensione infinita e incessante delle misure che sono costrette ad assumere nomi incredibili di unità astronomiche, come parsec, o anni-luce. Il risultato è che si sente piú solo di prima. Tra lui e il Tutto si stende l’oceano immenso dell’ontologia cosmologica a cui non si può rimediare se non dilatando ulteriormente il senso già incolmabile delle distanze.

Il fatto sembra preoccupante in quanto sintomatico; anche perché l’arrivo dell’onda problematica sull’«Io-sono-chi?» e l’affannosa ricerca di soluzioni nelle iperboli spazio-temporali, hanno sommerso il XX secolo trascinandolo in due guerre micidiali i cui effetti devastanti non si sono mai sopiti del tutto.

Temo non sia irragionevole dire che i due fatti su descritti stiano tra loro in un rapporto di causa (smarrimento della propria centralità) ed effetto-catastrofe (le guerre mondiali).

Ci si chiede come possa essere accaduto; ma se andiamo con ordine e scendiamo nella suburra delle nostre anime, non solo tali fatti cominceranno a presentarsi come un possibile ragionevole ma assumeranno anche una veste fortemente logica. Logica secondo gravità tellurica, ovviamente. Per dirla in senso corrente, sarebbero “motivati”.

Dio Padre e le religioniNon si spiegherebbe altrimenti come fior fiore di pensatori siano caduti a livelli quasi avvilenti di pensiero e su fondamenta del tutto instabili abbiano poi eretto delle mostruosità mentali, tecnicamente precise nelle specifiche articolazioni, ma altrettanto sbilenche e pericolanti di fronte al giudizio del buon senso comune, con la pretesa, forse anche inconscia, di nascondere l’irrisolta identità dei costruttori.

Il pensare umano a grandi linee ha percorso due vie: nella prima un Dio, uno Spirito Creatore, un Essere Soprannaturale, o una Intelligenza Cosmica, ha creato tutto, gestisce tutto e risolve piú o meno ogni cosa, ove debitamente richiesto attraverso riti procedurali e ministeri specializzati. Tale via non solo è indimostrabile, ma a prescindere rifiuta il criterio della dimostrabilità, dando cosí ai suoi detrattori la fastidiosa sensazione di volerla snobbare. Non sarà cosí, ma cosí appare.

La seconda via invece è fatta di sola dimostrabilità: non c’è realtà che non corrisponda alla normativa di uno scientismo laico rigoroso e spietato, capace di mettere in crisi pure se stesso, ove scopra tra i suoi meccanismi dei punti deboli o consunti per automatismo usurario. Volutamente essa ignora tutte le fasi di sbocco e d’arrivo delle ipotesi e delle teorie avanzate che, inevitabilmente, spingono la ricerca nel metafisico. Imperterrita, essa continua ad aggrapparsi al fatto che uno piú uno deve fare due, fino a prova contraria.

Naturalmente con la prima si aspira al Paradiso, anche se preceduto da un Giudizio, personale prima e in ultimo Universale (qualcuno potrebbe anche chiedersi come mai siamo ancora qui a preoccuparci e arrabattarci con i problemi esistenziali se alla fine, in qualche modo, tutto si sistemerà dall’Alto); con la seconda, gli uomini che l’hanno voluta percorrere si stupiscono di non essere ancora riusciti a capire la struttura dell’universo, il mistero della vita e della morte, e altre tre o quattro cosette di tale calibro. Questo, mentre una grande parte dell’umanità, composta da una miscellanea non coesa di aderenti a entrambe le fazioni, scopre ogni giorno nuovi pretesti di dissidio, scova nemici occulti o palesi, da contrastare e combattere, e di conseguenza portar loro guerra per la cosiddetta fatidica sopravvivenza di sé.

In alternativa, mancando minacce esterne, vanno bene anche le rivolte intestine e fratricide.

Basta potersi picchiare l’un l’altro con motivazioni incentivate, certo extraconfessionali, sicuramente poco scientifiche, dovute al fatto che la nostra funzionalità pensante si è accresciuta al punto che i vari pensati, o prodotti del pensiero ordinario, si sono appesantiti a un inerte fardello esistenziale, mentre le nuove esigenze di conoscenza e di maturità non possono e non vogliono piú sopportare una simile zavorra.

Di questo, né fede, né scienza pare si siano accorte.

Sono giunto alla conclusione che ci sia stato, e ci sia tuttora, un equivoco di fondo, mai risolto, durato 26 secoli, e che soltanto una personalità come quella di Rudolf Steiner è stata in grado di chiarire definitivamente. Ma per nostra sfortuna, la concezione decisiva offertaci dall’Antroposofia non ha mai avuto il piacere di ricevere un riconoscimento ufficiale dal mondo dei dotti. Ciò per molte ragioni, riassumibili in una sola: a tal fine, servirebbe oggi avvalersi d’una qualità del grado conoscitivo, già presente all’umano, ma ancora a livello cosciente inesperita; al caso, recuperabile solo per virtú di singoli volonterosi che abbiano fatto proprie le debite premesse.

Che la nostra realtà ‒ universo, mondo, vita ‒ risulti conoscibile può dipendere da molte cose; ma una in particolare pare evidente: o c’è in ciascuno di noi una ben precisa disponibilità all’atto, e all’azione conoscitiva, oppure non se ne fa niente.

Questa disponibilità innegabilmente esiste, altrimenti saremmo ancora all’età della pietra. Ma altrettanto innegabilmente dobbiamo ammettere che sta a noi tirarla fuori e cominciare ad applicarla osservando e studiando i risultati.

Nel bambino la volontà di crescita è evidente: per i piccoli, lo sforzo fisico e mentale impegnato a crescere, a diventare “grandi” e a fare quello che vedono fare gli altri, diventa un obiettivo primario che sottende ogni loro gesto.

Quando il mio nipotino Riccardino, giunto al 10° mese di vita, riuscí a portarsi in posizione eretta sulle gambette ancora poco muscolate, sfidando la legge di gravità, per l’istante – quel determinato istante – il suo volto s’illuminò di un’esultanza cosí intensa che difficilmente si sarebbe potuta vedere anche in un conquistatore del K2.

Siamo nati per capire, per agire e per cogliere tutto ciò in cui siamo immersi, perché è il nostro regno e non potrebbe essere diversamente. Questa è la via della libertà e della felicità. Saranno necessari tempi e spazi, ma di certo non sono questi a mancare.

A mancare possiamo essere solo noi, rinunciando a guardare volutamente in giro, rinunciando a scrutare con franchezza in noi stessi, rinunciando a vivere il miracolo della vita, pur di poter esistere pigramente, stancamente, lamentosamente, sprofondati nei nostri piccolissimi interessi che non interessano nessuno, forse in fondo neppure noi.

Tutto questo perché non abbiamo ancora saputo dare una direzione unitaria alla nostra interiorità; una direzione che leghi in un coerente rapporto la coscienza pensante e la spinta al conoscere. Nell’antico mondo mediterraneo si sapeva cosa fosse l’Eros Conoscitivo; se oggi questo Eros è diventato una rivista per soli uomini, allora dobbiamo ammettere che abbiamo percorso fin qui una strada iniqua, faticosa, accidentata e tutta a ritroso.

La Scienza dello Spirito offre la possibilità del riparo, ossia del recupero di quanto resta di noi dopo millenni di errori, sviste ed equivoci, occorsi per l’unico motivo di non aver saputo porsi alla guida della propria anima usando il nerbo del pensare.

Non solo non sappiamo cosa esso sia, ma addirittura siamo capaci di usare clemenza e indulgenza verso noi stessi, anche dopo aver constatato la nostra cattiveria, le male intenzioni, la meschinità spicciola dei pensieri quotidiani, al punto che persino il potere legislativo dispone leggi in tal senso e le nostre regole di condotta sociale vanno a farsi benedire.

L’inghippo ebbe inizio un bel giorno del VI sec. a.C., in quel d’Elea (oggi Ascea), nella Magna Grecia. Parmenide definí l’Essere, e questo fu l’atto fondativo di un viaggio mentale che dette filo da torcere a molti pensatori: «L’Essere è». Piú semplice di cosí! L’Essere non può altro che essere, se non lo fosse non sarebbe l’Essere, e pertanto non varrebbe la pena di parlarne.

Ma noi, che siamo uomini particolarmente astuti, sappiamo che c’è anche il Non-Essere. E allora? Parmenide, che forse non era astuto ma di sicuro era saggio, ci dice che è del tutto inutile e assurdo parlare di quel che non è. Però egli non conosceva il potere dell’astrazione, ovvero la mente dell’uomo, cosí sottile e ambigua che prova piacere a ricamare astrusità su astrusità; è diventata un’arte, come quella dei tessitori di tappeti che un tempo facevano a gara per creare i ghirigori piú fantasiosi per abbellire i loro arazzi.

Anni or sono, partecipai a un convegno sul Vangelo di Giovanni; alla primissima lettura ‒ “Nel Principio era il Verbo…” ‒ un uditore alzò la mano e chiese: «E al di fuori di questo principio, cosa c’era?». Tanto per dirne una sull’impossibilità di frenare almeno per un momento la foga astrattiva della nostra organizzazione psicofisica.

Certo, la domanda è meno barbina di quel che sembra; grosso modo, corrisponde a quella che si pongono gli astrofisici quando constatano che l’universo sta espandendosi; sta espandendosi? Ma “dove”?

Gli antichi costruivano quindi i loro ragionamenti fondati su pensiero e su percezioni; i moderni riescono a farlo lavorando col pensiero astratto sulle rappresentazioni; i risultati sono sicuramente meno precisi e incentrati, ma, bisogna ammetterlo, quantitativamente piú vasti e di lunga gittata.

Per cui, tornando all’ontologia, alla scienza dell’essere si è affiancata nel tempo quella del non-essere, la quale è molto piú diffusa di quanto non sembri. Prendo spunto dalle ultime scoperte della scienza per far capire come proprio là dove ci si aspetta la maggiore esattezza, si spalancano le finestre sul dubbio metafisico.

Bosone di Higgs; grande scoperta, bella conquista. Cos’è? Non si sa. Sappiamo soltanto che abbiamo riprodotto in laboratorio le conseguenze di una causa, ignorando cosa sia, origine, natura, derivazione ecc. È un campo elettromagnetico in cui alcuni tipi di particelle acquisiscono “massa”; l’abbiamo chiamato col nome di Bosone. Ma è un nome, come Pippo o Adalgisa, niente di piú.

Materia ed energia oscure: che meraviglia! Ci dicono che lo spazio non è mai assolutamente vuoto, c’è energia da per tutto. Ma questa energia, che in ogni suo impiego subisce dispersione e trasmutazione, avrebbe dovuto nel tempo assottigliarsi, diventare sempre meno quantità; capisco che nulla si crea e nulla si distrugge, ma questo è verissimo solo in un universo statico, immobile. Là dove c’è continuo dinamismo, scontro, collisione, inglobamento e concentrazione, le perdite energetiche sarebbero enormi se non vi fosse un continuo ricambio. Risultato: si pensa che “debbano” esistere un’energia e una materia oscure, invisibili e impercettibili a qualunque strumentazione, che sopperiscono a tutte le incessanti “perdite” delle loro consorelle in “chiaro”, ossia energia e materia palesi e controllabili.

Big Bang: stupendo! È la nascita dell’universo, il momento in cui il cosmo comincia a esistere. Peccato che non sappiamo ancora che cosa sia stato a scoppiare e il motivo per cui l’abbia fatto. Per qualche misteriosa ragione un Tutt’Uno titanico iperdimensionato è entrato in squilibrio con se stesso al punto di deflagrare. Un errore di manovra o una decisione calcolata? Errore di chi? Decisione di chi?

Il miracolo della muccaQualcuno adesso mi dica se il Bosone di Higgs, o la Materia e l’Energia Oscure, oppure lo stesso Big Bang, assieme a tante altre novità tratte dall’esperienza scrupolosamente approfondita delle scienze esatte, non siano un vero e proprio atto di fede, per nulla diverso da quello con il quale il contadino egizio “sapeva” che il dio Amon Ra avrebbe cresciuto il seme di papiro appena piantato sulle sponde del Nilo, o da quello custodito in segreto nel cuore di Ulisse sul fatto che Atena gli aveva garantito il rientro a Itaca; o da quello supplicato alla divina Provvidenza dalla povera contadina bergamasca, cui stava morendo l’unica mucca rimasta a sostegno di tutta la famiglia, immortalata da Ermanno Olmi nel film “L’Albero degli Zoccoli” (video).

Amici, conoscenti, gente di fede e di scienza mi hanno assicurato, per vie diverse ma concomitanti, che l’Infinito come l’Eterno e l’Onnipotente, non può possedere altro che l’infinità, l’eternità e l’onnipotenza che gli sono proprie; questo sarà magari vero per un pensare che non s’arrischi a compiere il suo lavoro. Proviamo a chiederci quanti sono i numeri? Infiniti? Bene. Quanti sono i pari? Quanti i dispari? Quanti tra essi finiscono col 6? Quanti contengono il numero 1? Quanti sono divisibili per 427? Pure questi sono infiniti. Dovrebbero trovar posto nell’Infinito che abbiamo considerato per primo.

Forse allora esistono piú infiniti? Uno principale e gli altri secondari? Se cosí fosse, i minori cesserebbero d’essere infiniti venendo meno la distinzione indispensabile della posizione preminente.

Ecco dunque una riflessione ponderativa su cui si farebbe bene a soffermarci: non si può giocare dialetticamente con l’Assoluto, ora concedendogli il primato, ora togliendoglielo, come ci siamo abituati a fare con partiti, governi, leggi e referendum. L’Assoluto è una cosa seria, richiede un pensare serio che, realizzato, va a coincidere con quello.

Dopo queste riflessioni che ramificano in varie le direzioni, è necessario convergere sul tema d’avvio che continua ad affacciarsi da dietro le problematiche connesse e da esso stesso innescate:

  • I pensieri che penso sono veramente miei?
  • La realtà, ovvero il mondo e la vita cui posso riferirmi, sono veramente a mia misura?

Da cosa nasce cosa, e dal tipo di esperienza che io sarò in grado di elaborare lavorando alla seconda domanda, probabilmente potrò trovare le chiavi che mi permetteranno di aprire lo scrigno della prima.

La Filosofia della LibertàQuesto è, né piú né meno, il senso ultimo della Filosofia della Libertà che Rudolf Steiner scris­se nel 1894; opera potente di risveglio conoscitivo, unica nel suo genere, totalmente abbando­nata e dimenticata non solo dai filosofi e pensatori dell’epoca, ma misteriosamente mal capita e mal digerita anche da coloro che attualmente si professano suoi discepoli.

Negli esempi di “vedute” sul­la realtà del mondo, dell’uomo e dell’universo, riportati in apertura dello scritto, si coglie nel primo l’esclamazione gioiosa di chi si è innamorato di quanto lo circonda; ci fa capire la posizione interiore conquistata; egli avrà un rapporto con la vita sicuramente ottimale e proficuo sotto ogni punto di vista, indipendentemente dagli accadimenti.

Dal secondo è altrettanto facile ricavare invece la delusione, la rabbia e il senso di frustrazione di chi non vuole piegarsi ad alcun tipo d’accontentamento; anzi, costui misura quel che possiede con quel che le brame gli suggeriscono di poter ulteriormente avere; e si costruisce da sé il peso di una infelicità esistenziale di cui tuttavia non vuole riconoscersi autore.

La gradevole sorpresa di uno scienziato di fronte alla continua comprensibilità dell’universo, ci fa partecipare, nel terzo caso, al lieto, potente fascino che muove questo riconoscimento, il quale è, prima di tutto, riconoscenza, nel senso vero e proprio di gratitudine, per ogni cosa creata.

In ultimo, il suo contraltare: l’uomo di scienza caduto e smarritosi nel labirinto del sapere cerebrale, da non tirarsene piú fuori; l’elemento dell’amore conoscitivo (eros) è stato qui ridotto a stanca routine; smarrita la poesia dell’infinito, spentasi la capacità di afferrare il sublime che traspare dalla natura e palpita nell’umano, resta solo l’afflizione, la macerazione dell’ego; il sapore della vita diventa amaro e l’anima reclina nella tristezza di un tramonto annunciato.

Abbiamo accennato all’Assoluto; è un tema importante che merita una riflessione a parte. Quanti leggono ancora gli scritti di Massimo Scaligero e si soffermano sui suoi pensieri, sanno che l’Assoluto, l’Essen­ziale, o l’Antecedente Senza Antecedenti, sono concetti che si rivolgono a un’unica verità.

Ma sono ben diversi da quanto prima è stato detto circa l’Infinito, l’Eterno, l’Onnipotente: sono diversi perché Scaligero ce li indica dopo averci fatto fare un excursus molto particolare: passare dal pensiero pensante capace di astrazione, al pensiero pensante «capace di costruire mediante il potere di astrazione».

La differenza sembra minuscola; invece è macroscopica. O la nostra coscienza riesce a cogliere l’im­portanza della propria funzione nell’atto conoscitivo, che comunque si dà, oppure quell’atto resta attaccato al sapere senza far parte del conoscere. Il confronto è quello di un organismo vivente con uno morto.

Possiamo volere oltre la nostra volontà? Sentire oltre il solito sentire? A volte diciamo di farlo, ma è una dichiarazione genericamente fatta per beneficio altrui. In realtà solo il pensare sa oltrepassarsi continuativamente; tutto sta a vedere se la coscienza umana che ne è permeata, riesce a seguirlo senza scomporsi, senza uscire dalla propria centralità.

Un pensare che superi se stesso risalendo dai livelli del normale impiego, in ogni suo grado si muove verso l’Assoluto, l’Essenziale o il Puro Antecedente; non gli serve saperlo; questo spetta al pensatore- sperimentatore.

In direzione di tale Assolutezza, Essenzialità, Antecedenza, egli non solo incontra e riconosce l’energia primigenia da cui scaturí l’universo (cosa questa che forse potrebbe venir capita comunque anche misconoscendo la vera natura del pensiero) ma potrà cogliere l’identità di essa con se stesso, come uomo alfine rivelatosi auto-conoscente. E quest’ultima parte non ammette in sé l’empietà di alcun agnosticismo, né l’illusione di mistici elitarismi, qualunque sia il formato con il quale si presentino.

Una spiegazione puramente aporetica, in definitiva non spiega nulla; quella fondata sugli slanci del cuore finisce troppo spesso per risultare inaffidabile; se la verità vuole rivelarsi, essa si presenterà contemporaneamente su tutti i piani del fisico, del metafisico ed anche su altri ancora mai conosciuti.

Ma fino a quel momento noi possiamo solo interpretare le sue manifestazioni. Aveva capito bene, Protagora: è inutile, diceva, voler parlare della verità: quand’anche essa si presentasse qui ora, noi, non avendo mezzi per coglierla, non la comprenderemmo, né sapremmo trovare le parole per descriverla o riferirla.

Molte cose tuttavia, da Protagora in poi, sono cambiate; nel tempo che ci vede affannosi protagonisti impegnati come non mai a rimuovere, se non demolire, gli antichi baluardi spirituali, in nome di un rinnovo dal quale l’uomo si è tagliato fuori senza essersene accorto, affinché questo processo di reintegrazione divenga possibile, è necessario che egli recuperi lo spirituale che c’è in lui e lo indirizzi a un processo di disintossicazione dai veleni dell’ego che, allo stadio attuale, lo stanno letteralmente disintegrando.

La via è il pensiero: ove in lui sia rimasta ancora la traccia di un pensare autonomo e indipendente dagli incantesimi attraverso i quali egli si è sin qui rappresentato una realtà del tutto soggettiva, scambiandola per oggettiva, questa traccia deve venir coltivata e potenziata mediante un convincimento di base che è pura e semplice determinazione: ricongiungere la spiritualità che urge nell’anima umana alla spiritualità dell’universo che l’attende da sempre.

Ripeto: la via non può essere altro che quella del pensiero che a un certo punto decide di volerla percorrere.

Naturalmente sono necessarie alcune premesse:

1.  ammettere che in ogni essere umano vi è una spiritualità; se per un motivo qualunque (ce ne sono infiniti) questo non si dà, è meglio dedicarsi ad altro;

2. Intuire, o almeno supporre, che alla nostra spiritualità di uomini corrisponda una spiritualità cosmica con la quale entrare in un rapporto non esclusivamente scientifico, ma coinvolgente l’intero apparato psico-corporeo;

3. comprendere che tale rapporto o accesso deve per forza di cose avvenire tramite il pensiero; non certo quello che tutti conosciamo, ma con l’essenza del pensiero, che bisognerà quindi prima incontrare e cominciare a gestire secondo i canoni forniti da Rudolf Steiner, e millimetricamente precisati in seguito da Massimo Scaligero;

4. avere in sé la netta sensazione che soltanto dedicandosi a un’azione di tale portata, la vita, l’esistere, il destino dell’uomo e l’immensità dell’universo convergeranno in una visione contemplativa, armonicamente uniti da un rinnovato senso del tutto, stavolta totalmente fondato sulla centralità dell’uomo.

Effettivamente incontrare il baricentro del vivente nello sviluppo della facoltà pensante, volitivamente e amorevolmente santificata, è incontrare la sua centralità sul piano del microcosmo, e congiungerla a livello macrocosmico con quella in cui s’innesta il fondamento del Creato.

Il pensiero, se lo si comincia a osservare secondo il canone dell’Antroposofia di Rudolf Steiner, ci offre continuamente le prove della sua capacità. Quante volte è accaduto a ciascuno di noi, di avvertire in un proprio ragionamento qualcosa di insolito, al momento quasi inspiegabile, e di soffermarci cosí, un po’ perplessi e un po’ preoccupati, su quest’ultimo pensiero, confrontandolo con quel che avevamo pensato prima.

Di recente ho avuto modo di parlare con una giovane coppia cui è nato un bel bimbetto, vispo e simpatico. Giunti al punto di un certo discorso, hanno affermato di non voler dare il Battesimo al bambino perché questo contrasterebbe il senso del loro moderno laicismo; il fatto verrà lasciato al bimbo quando, una volta adulto, deciderà nella sua libertà, se accedere o meno al sacramento.

Imporglielo prima – sostengono convintamente – sarebbe un’offesa contro la sua autonomia individuale, di cui forse un giorno potrebbero venir colpevolizzati; giusto quindi astenersi.

In un altro contesto, la medesima coppia mi ha confidato di voler accuratamente evitare la diffusione generica e incontrollata di foto e immagini del piccolo, perché “il mondo ha dei risvolti cattivi”; non vorrebbero agevolare l’eventualità che le immagini vengano male adoperate da un “non-si-sa-chi”, la cui esistenza, tuttavia, non è affatto fantasiosa.

Sono rimasto a lungo in silenzio (non con loro, ma con me stesso) in quanto percepivo nei due temi un qualche cosa che richiedeva tutta l’attenzione possibile, una specie di campanello d’allarme, il cui suono era sí lontano, ma non per questo trascurabile.

Detto con sincerità, dalla prima posizione vedevo trasparire un senso di sicurezza opaco e prevaricante, tutt’altro che libero; nella seconda, percepivo l’angoscia di una fobia inconfessata e squilibrante.

Poi un giorno, mentre rimestavo queste riflessioni, mi apparve in modo inequivocabile che le due cose stavano fra loro in un rapporto equazionale. La mancanza di spiritualità che ispirava la prima, assumeva un aspetto del tutto diverso e si trasferiva di peso nella seconda; ma al pensiero che voglia davvero pensare, tale camuffamento non sfugge; si rivela per quel che di fatto è.

Ora non desidero proseguire su questo esempio, in quanto non l’ho proposto per ricamarci sopra svolazzi moralistici che sarebbero tanto inopportuni quanto sterili. Nella vita ciascuno faccia le sue scelte e se ne assuma la responsabilità. Quello che mi premeva era evidenziare come un pensiero, lavorato e protratto nel tempo, possa, da solo, avvalendosi della sua forza intrinseca, suggerire al ricercatore degli sbocchi-sintesi, precisi e rivelatori, che prima non comparivano da nessuna parte.

Posso anche fornire un altro esempio, magari migliore del precedente, che, per essere autobiografico, potrebbe sempre peccare d’imparzialità. Illustri scienziati, tanto per citarne alcuni famosi, Maxwell, Bohr e lo stesso Einstein, scoprendo determinate leggi, giunsero a formularle in modo sintetico, fissandole in equazioni matematiche; equazioni che ancora oggi vengono studiate da tutti coloro che si occupano di fisica teorica.

Ebbene, stando alle confessioni dei padri di quelle formule (recuperabili per lo piú da interviste, lettere, appunti personali e ricerche di archivio) emerge chiaro e tondo che gran parte della portata delle loro celebri equazioni venne dai medesimi riconosciuta solo dopo la codifica enunciativa; a volte anche molto tempo dopo.

Dopo averle intuite, elaborate e scritte, ed evidentemente riflettendoci sopra con sempre miglior intensità, quelle formule rivelarono ad essi degli aspetti estremamente importanti, che al momento dello scoccar dell’idea erano completamente sfuggiti.

Cosa significa tutto questo, se non che il nostro pensiero viene da molto lontano e quel che di esso noi crediamo di afferrare e possedere, è soltanto l’infelicissima presunzione che, inavveduta, sta alla base del nostro sgretolamento? Giorno dopo giorno essa prepara un destino cui noi, se davvero aprissimo per un istante gli occhi, ci ribelleremmo con tutte le nostre forze.

Disgraziatamente, se tali forze continueranno a non essere quelle originarie portate dal pensare, finiranno per accrescere l’opera impercepita dei Nemici dell’umanità.

 

Angelo Lombroni