Affari di cuore

Il racconto

Affari di cuore

Caffè due tarìIl caffè “Due tarí”, alle prime tornate di bel tempo, invadeva con i suoi tavolini di legno dipinto un angolo della piazzetta alle spalle degli antichi arsenali. Poco distante, oltre l’arco della marina, frusciava il mare. Due avventori, tra un sorso e l’altro di limonata, discutevano.

«Stammi a sentire: mandale una lettera!» stava dicendo Alfonso al suo amico Guglielmo.

«E che cosa le scrivo?» chiedeva smarrito quest’ultimo.

«Ma come, tu, un poeta, aggiunto di se­greteria al Comune, prossimo primo segretario, non riesci a mettere assieme una dichiarazione d’amore? E che diamine!».

Seguí una pausa alle rimostranze di Alfonso.

«E anche volendo seguire il tuo consiglio, come gliela faccio pervenire la lettera? E se finisse nelle mani di don Peppino? Pensa allo scandalo e alla reazione di quello smargiasso. Sarebbe capace di spararmi!».

Alfonso appariva seccato dalla mancanza di intraprendenza del suo amico. Reagí: «Allora vuol dire che non sai rischiare per amore, e che andrai avanti per mesi a forza di iniezioni ricostituenti e zabaioni!».

«Adesso ti ci metti pure tu a infierire… ma non vedi come sono ridotto?».

Alfonso osservò con attenzione il suo amico, poi scosse la testa. Guglielmo era in effetti il ritratto dello spasimante prossimo all’esaurimento. Ebbe un moto di compassione.

«La lettera – promise rabbonito – gliela faccio recapitare io da Assuntina, la domestica di casa Oderisio. È amica di mia zia. Tu pensa piuttosto a scriverla. Frasi dignitose, assennate. Non dimenticare che hai a che fare con Isabella Oderisio, una donna avvenente, colta, ricca…».

Quest’ultima parola, “ricca”, gelò il sangue di Guglielmo. Don Peppino Oderisio possedeva tutti gli agrumeti di Costa Palumbo, dal mare fino a quasi la cima della collina. Ecco, proprio l’ultimo podere gli mancava per completare la piramide, il meglio esposto e il piú fertile, quello di Solevierno. Il tassello che difettava al suo mosaico apparteneva alla famiglia dei baroni Manera il cui rampollo, il signorino Fefè, avrebbe ereditato la proprietà intera, essendo figlio unico. Per coronare il sogno di impadronirsi di tutta la collina, compreso Solevierno, don Peppino aveva progettato il matrimonio tra Isabella e il giovane barone.

«Tu capisci, Funzi’ – argomentava Guglielmo – è come se volessi dare l’assalto a una guarnigione con una fionda, o a un incrociatore con una jole a due remi. Che probabilità di riuscite mi si offrono, me lo dici?».

«E che importa se vinci o perdi! Nella peggiore delle ipotesi, ti sarai tolto il dubbio e la smania. Resta il fatto che non puoi continuare cosí. Meglio un colpo di pistola, una mazziata…».

Le due prospettive fecero trasalire l’innamorato apprensivo. Alfonso proseguí in tono esortativo: «Evvia, un poco di coraggio! Per una volta tanto nella tua vita. Almeno potrai finalmente appurare se la donna che ami in questa folle maniera ti ricambia!».

Eccome, se gli pareva, pensava tra sé Guglielmo. Da due mesi non viveva piú. Non riusciva a dormire che a spezzoni. Si era ridotto a nutrirsi di tuorli d’uova e di estratti epatici che gli iniettava la vecchia Immacolata. La povera donna, quando veniva a fargli la puntura, non sapeva ormai dove infilare l’ago.

«Gesú, don Guglie’, voi fate pena. E scordatevela!».

Processione AddolorataUna parola, scordarsela! Dopo la processione dell’Addolorata, il pomeriggio del Venerdí Santo, non poteva togliersi dalla mente l’immagine di lei, quel vi­so rapito in un languore estatico. Quella espressione severa e febbrile a un tempo, teneramente materna, la grazia altera che né l’a­spetto penitenziale degli incappucciati, né l’afrore dei ceri e dei turiboli, le preci ossessive delle beghine, potevano scalfire o turbare, ecco ciò che non riusciva a dimenticare Isabella, una regina nel corteo delle Ancelle di Maria.

La processione aveva sfilato transitando proprio dove Guglielmo e gli altri suoi amici ‘scapigliati’ e liberi pensatori stazionavano. La statua dell’Addolorata, nel suo manto scuro trapuntato di passamanerie argentate, caracollava sull’onda di una eccitata teatralità, tra la devozione sanguigna del popolo. E lui, l’intellettuale, cosí come gli altri della sua compagnia, aveva sorriso con sussiego e distacco emotivo. Finché quegli occhi non si erano spiccati dal corteo per catturare il suo sguardo e ipnotizzarlo. Il giovane poeta da quel contatto magnetico non si era piú ripreso.

«Dammi retta – insistette Alfonso – scrivi subito quella lettera e io ti garantisco che giungerà a destinazione entro stasera».

Quello stesso pomeriggio, Guglielmo, seguendo le esortazioni di Alfonso, scrisse nel suo stile fiorito un capolavoro di nobili parole, di profondi sentimenti, onesti quanto infervorati propositi e vigorose speranze, e lo affidò all’amico. Da questi, la missiva passò nelle mani di Assuntina e la fantesca…

«Un disastro, una rovina! E ora, come la mettiamo?» Guglielmo si torceva le mani mentre, seduto allo stesso tavolino, il giorno dopo, strapazzava Alfonso.

«Lo so, lo so, hai ragione – tentava di discolparsi il consigliere – ma non c’è motivo di farsi prendere dalla paura. Del resto, sono compromesso quanto te. Quella scema di Assuntina! Appena colta sul fatto ha rivelato tutto: complice e mandante. Ma…».

«Ma che cosa?» chiese affranto Guglielmo, che non riusciva ormai ad accordare alcun credito ad Alfonso.

«Che ore sono?» s’informò questi, di rimando.

Ecco, ci siamo, pensò l’innamorato, il suo amico la buttava sullo scherzo. «Non mi pare questo il metodo piú idoneo a risolvere il problema!» protestò risentito.

«Ma non capisci – spiegava Alfonso eccitato – tutta la mattinata è trascorsa, siamo al pomeriggio del giorno dopo, e don Peppino non ha fatto alcun passo. Non è venuto a cercarti, non ha chiesto chiarimenti o soddisfazioni. Zitto e mosca…».

«E questo che vuol dire?».

«Vuol dire che ha optato per una tattica diplomatica, per la piú assoluta indifferenza. Come dicono i francesi: “laisser faire, laisser passer”. Ti ignora. La faccenda non ha séguito».

«Significa che mi trovo al punto di prima, Isabella non conosce i miei sentimenti. Non risico, ma neppure rosico…».

Seguí un silenzio imbarazzato. Il cervello di Alfonso si arrovellava per trovare una via d’uscita alla penosa situazione nella quale aveva cacciato il suo piú caro amico.

«Ho trovato!» esclamò euforico ad un tratto.

«Spero che sia migliore della lettera!» commentò amaro Guglielmo.

«Non può fallire: devi farle una serenata!».

Nel salone di Matteo, il barbiere, si svolgevano varie attività, oltre alle operazioni relative alla rasatura e al taglio. Tra le piú eminenti c’era la funzione di accademia musicale. Vi si insegnavano gli strumenti a plettro, si concertavano cori e serenate.

La notizia del tentativo del giovane Guglielmo di scalare la torre della fortezza Oderisio per arrivare alla figlia di don Peppino, aveva fatto il giro del paese.

«Che venga pure – sembra che avesse minacciato il padre della ragazza – troverà una degna accoglienza!».

Nella barberia di Matteo si definiva intanto la strategia. Un esperto del ramo, don Ferrante Calori, si era offerto di fornire i suoi preziosi consigli.

«Vedete – istruiva il gentiluomo, tra una boccata e l’altra della sua Turmac aromata – don Peppino è messo alle strette. La serenata la deve sentire, e come! L’uso vuole che la famiglia alla quale è diretto l’omaggio possa comportarsi in soli tre modi: primo, dopo la profferta canora e strumentale, suonatori e committente vengono invitati a salire in casa per un caffè o per un rinfresco. Secondo, la serenata lascia freddi i destinatari e allora, dopo un formale grazie, le finestre si chiudono e la compagnia se ne va a letto con un nulla di fatto. Il senso è dilatorio, rimanda al futuro, a nuovi sviluppi della situazione. Non ci si vuole impegnare. Terzo, chiusura anticipata delle imposte con ostentata irritazione, niente saluti e convenevoli. Il significato inequivocabile è: non siete graditi, andatevene! La gente grossolana spesso va oltre queste regole, manifestando la propria contrarietà in maniera piú brutale. Ma non voglio credere che don Peppino arrivi a tanto. È comunque un uomo di mondo».

Si stabilí il repertorio e la strumentazione.

«Vorrei suggerirvi di escludere tassativamente gli strumenti di matrice popolare – aggiunse don Ferrante – mi riferisco alle serretelle, ai putipú, a mummare e langelle. Solo chitarre e mandolini, e soprattutto che la voce sia bella, chiara e appassionata!».

«Disponiamo del meglio – assicurò Matteo – la voce del “Rosso” copre tutta la gamma di toni, dal baritono al tenore di grazia; quanto poi al repertorio, spaziamo dal lirico al folkloristico».

Le scelte finali privilegiarono alcuni motivi classici, tra cui “Tu sei come una nuvola” e la famosa “Deh, lasciati cullare”, per finire con la “Serenata” di Tosti, tradizionale pezzo di chiusura. Venne sacrificata la romanza “Nella notte senza pace” di Chopin perché, sempre secondo il parere indiscutibile di don Ferrante, il tema disponeva alla tristezza, e data la particolare congiuntura, non era prudente indirizzare la serata verso quello stato d’animo.

Dopo lunga insistenza, Matteo ottenne da don Ferrante il placet per una mummera ad anse stremate, il cui soffio discreto, sapientemente trattato da Cenzino, l’esperto dei fiati, servisse da contrappunto e da metronomo per dare il tempo e il ritmo ai suonatori.

Era una di quelle sere di maggio in cui la natura assopita sprigiona dal suo corpo abbandonato tutto il miele delle nuove fioriture, e la luna alta nel cielo color zaffiro mostra in rilievo i tratti di Marcoffio atteggiati a un riso fanciullesco.

Serenata«Voi tenetevi leggermente scostato dal concertino – suggerí Matteo a Guglielmo – devono potervi scorgere dalla casa della ragazza».

Il giovane indossava un completo nocciola chiaro suggerito, come il resto della sapiente scenografia, da don Ferrante. Illuminato dai raggi della luna piena, formava un bersaglio impossibile da mancare.

«Fatti coraggio – mormorò Alfonso, che faceva da compare – il grande momento è arrivato!».

Ma l’incoraggiamento dell’amico ormai non occorreva piú. Alle prime note, il cuore di Guglielmo prese il volo. E quando dal balcone di casa Oderisio una voce femminile, ferma ma cortese, domandò: «A chi va l’omaggio della serenata?» l’innamorato rispose con un tono altrettanto deciso e galante: «A donna Isabella Oderisio, da parte di Guglielmo De Biase!».

Poi vennero musica e canto a operare il sortilegio nella notte stellata, una magia che strega gli uomini dalle origini del mondo.

E anche dopo che l’ultima nota e l’ultimo vocalizzo si furono spenti, rimasero gli echi nell’aria tersa, densa di profumi. Piovvero sugli interpreti applausi e complimenti dalle finestre, dagli attici, dalle logge gremite. La voce femminile dal balcone ringraziò a nome della famiglia, aggiungendo che ‘il pensiero’ era stato gradito.

«Puoi sperare…» disse Alfonso mentre il concertino si scioglieva, e i suonatori e il cantante, dopo essersi accomiatati, si disperdevano nei vicoli intorno, commentando con parole entusiastiche il successo della loro prestazione.

«Don Peppino non si è affacciato» osservò Guglielmo, deluso.

«Le donne di casa c’erano tutte, però – obiettò allusivo l’amico – e quando ‘a femmina vo’ fila’…» gli occhi di Alfonso brillavano di malizia nel chiarore lunare.

Guglielmo non rispose, perché non ascoltava piú l’amico, con la sua voce rassicurante. Assorto, felice, ne captava un’altra proveniente dal suo cuore, l’unico esperto da consultare in situazioni del genere. Da quella fonte d’informazione senza inganno stava ricevendo la conferma che Isabella lo amava. Passò un braccio sulle spalle di Alfonso, lo scrollò, risero assieme come bambini.

Comunque fossero andate le cose nel futuro, con o senza l’approvazione di don Peppino, l’amore, quell’amore, nessuno poteva rubarglielo. E gli avrebbe fornito materia d’ispirazione poetica per mesi, per anni. Forse, per tutta la vita.

 

Fulvio Di Lieto