L'Archetipo Anno III n. 6, Aprile 1998

Il racconto

CAINO

Nella nostra scuola era venuto da poco un nuovo scolaro. Era figlio di una vedova benestante, si era trasferito nella nostra città e portava il lutto al braccio. Frequentava una classe superiore alla mia ed era di alcuni anni piú vecchio di me, ma come a tutti diede nell'occhio anche a me. Quello strano allievo sembrava molto piú vecchio di quanto non fosse e non aveva un'aria da ragazzo. Fra noi ragazzini si comportava da uomo fatto, quasi da adulto. Non era benvisto, non prendeva parte ai nostri giuochi e meno ancora alle lotte, e piaceva soltanto per il tono sicuro di sé e deciso verso gli insegnanti. Si chiamava Max Demian.
Un giorno, per non so quali ragioni, avvenne, come capitava alle volte, che nella nostra aula, del resto molto grande, fosse messa un'altra classe. Era quella di Demian. Noi piccoli avevamo l'ora di storia sacra, i grandi dovevano svolgere un compito in classe. Mentre il maestro ci ficcava in testa la storia di Caino e Abele, guardavo spesso Demian il cui volto aveva per me un fascino particolare, e vedevo quel viso, intelligente e insolitamente serio, chino sul lavoro attento. Non aveva l'aspetto dello scolaro che fa un compito, ma quello dello studioso che insegue i suoi problemi. Non posso dire che mi piacesse, al contrario avevo verso di lui una certa repulsione, lo sentivo troppo staccato e gelido, provocantemente troppo sicuro di sé e i suoi occhi avevano l'espressione degli adulti (cosa che ai piccoli non piace mai), un po' malinconica con lampi di ironia. Eppure, volente o nolente, mi sentivo costretto a guardarlo di continuo; ma appena lui guardava verso di me, ritraevo intimidito lo sguardo. Se oggi ripenso a com'era da scolaro a quel tempo, posso dire che era diverso da tutti gli altri sotto ogni aspetto, con una sua personalità particolare, e perciò dava nell'occhio. Nello stesso tempo faceva di tutto per evitare di dare nell'occhio, si comportava come un principe travestito che in mezzo a contadini si sforza in tutti i modi di sembrare uno di loro.
Ritornando dalla scuola camminava dietro di me. Quando gli altri si furono dispersi, mi raggiunse e mi salutò. Anche quel saluto, benché imitasse il tono di noi scolari, era troppo cortese e adulto.
«Vogliamo fare un pezzo di strada assieme?» domandò gentilmente.
Io ne fui lusingato ed accettai. Poi gli spiegai dove abitavo.
«Ah, laggiú? – fece sorridendo – Conosco quella casa. Sopra il vostro portone c'è una cosa strana che ha già attirato la mia attenzione».
Non capii subito a che cosa alludesse e rimasi meravigliato notando che pareva conoscere la nostra casa meglio di me. Si trattava della chiave di volta del portone, la quale rappresentava una specie di stemma, che con l'andar del tempo si era un po' levigato ed era stato piú volte ripassato col colore. Per quanto ne sapevo, non aveva niente a che vedere con la nostra famiglia.
«Non ne so nulla – dissi timidamente – è un uccello, o qualcosa di simile, e probabilmente è una cosa antica. Si dice che una volta la casa appartenesse a un convento». «Può darsi benissimo – approvò lui – guardalo bene, perché queste cose sono spesso molto interessanti. Secondo me deve essere uno sparviero.»Proseguimmo, mentre io mi sentivo molto imbarazzato, D'un tratto Demian si mise a ridere come a un'idea buffa che gli passasse per la mente.
«Già, ho seguito la vostra lezione – disse con vivacità – la storia di Caino che portava il marchio sulla fronte. Ti piace questa storia?»
Ecco, quanto a piacermi, raramente mi piaceva ciò che dovevamo imparare. Ma non osai dirlo perché mi pareva di parlare con un adulto. Risposi che la storia mi piaceva proprio.
Demian mi batté una spalla.
«Non occorre, mio caro, che tu me la dia da bere. Ma la storia è veramente curiosa. Molto piú curiosa, credo, di tante altre che si studiano a scuola.
È vero che il maestro non ha fatto molti commenti; ha detto le solite cose su Dio e sul peccato e cosí via. lo credo, però – s'interruppe, sorrise e mi chiese – ma ti interessa?»
«Certo, io credo – proseguí – che la storia di Caino si possa intendere anche diversamente. La maggior parte delle cose che ci insegnano sono vere e giuste, ma si possono guardare anche da un altro lato, diverso da quello dei maestri, e allora acquistano per lo piú un significato molto migliore. A proposito di Caino e del marchio sulla fronte, non si può rimanere soddisfatti della spiegazione che ci danno. Non ti pare? Che uno ammazzi il fratello in una lite può capitare certamente, ed è anche possibile che poi prenda paura e si dia per vinto.
Ma che per la sua vigliaccheria riceva un marchio che lo protegge e spaventa tutti gli altri, è proprio strano».
«Giusto – approvai con interesse. La faccenda incominciava a prendermi – ma quale altra spiegazione si può dare?»
Egli mi batté la spalla: «Semplice. Ciò di cui si trattava, l'elemento col quale la storia ebbe inizio, era il marchio. C'era un uomo che aveva in faccia qualche cosa che agli altri incuteva paura. Essi non osavano toccarlo, metteva soggezione, lui e i suoi figli. Forse, anzi di sicuro, non era un vero e proprio segno in fronte, come un timbro postale; è difficile che la vita operi in modo cosí rozzo. Doveva essere piuttosto qualche cosa di strano e appena percettibile, piú spirito e coraggio nello sguardo di quanto si è abituati a vedere. Costui aveva potere, di quest'uomo si aveva paura. Recava un "segno". Si poteva spiegarlo come si voleva. Ora, si vuole sempre ciò che è comodo e che ti dà ragione. La gente aveva paura dei figli di Caino che recavano il "segno". Cosí non si intendeva il segno per quello che era, per una distinzione, ma per il suo contrario. Si diceva che gli individui forniti di quel segno dovevano essere sospetti, e lo erano davvero. Le persone coraggiose e di carattere riescono sempre sospette agli altri. Non era comodo che esistesse una schiatta di gente coraggiosa e inquietante, e cosí si appiccicò a quella gente un soprannome e una favola per vendicarsi e trovare qualche compenso alla paura avuta. Mi segui?»
«Sí. Vorrebbe dire che Caino non era dunque malvagio. E tutta la storia della Bibbia non sarebbe affatto vera».
«Sí e no. Le storie antiche sono sempre vere, ma non sempre sono registrate e spiegate come sarebbe giusto. Credo insomma che Caino fosse un tipo in gamba, al quale si affibbiò questa storia solo perché si aveva paura di lui. La storia non era che una diceria, una chiacchiera della gente, ma era vera in quanto Caino e i suoi figli recavano realmente una specie di "marchio" ed erano diversi dalla maggior parte degli altri».
Rimasi molto stupefatto.
«E tu credi che non sia vera neanche l'uccisione?» domandai perplesso.
«Certo che è vera. Un forte aveva ammazzato un debole. Che fosse proprio suo fratello, si può dubitare. E conta poco, perché infatti tutti gli uomini sono fratelli. Dunque, un forte ha ucciso un debole. Può essere stato un atto eroico, ma forse anche no. Ad ogni modo gli altri deboli erano pieni di paura e si lagnavano, e quando si chiedeva loro: "Perché non ammazzate anche lui?" non rispondevano: "perché siamo vigliacchi", ma rispondevano: "Non è possibile. Ha un marchio. Dio lo ha segnato". Cosí all'incirca deve essere sorto questo imbroglio. Ma non voglio trattenerti. Addio».
E si allontanò lasciandomi solo e piú meravigliato che mai. Scomparso che fu, tutte le sue parole mi parvero incredibili. Come? Caino un uomo nobile, Abele un vigliacco! Il marchio di Caino una distinzione! Era assurdo, era un pensiero blasfemo e cattivo. E il buon Dio? Non aveva forse accettato il sacrificio di Abele? Non voleva bene ad Abele? Via, che sciocchezza! Pensai che Demian avesse voluto prendermi in giro e tirarmi su un terreno pericoloso. Certo era di un'intelligenza formidabile e sapeva discorrere, ma in questo caso, no, no.
Fatto sta che prima non avevo mai riflettuto tanto su un racconto biblico o su altre storie. A casa rilessi la storia della Bibbia, storia breve e chiara, e mi parve follia andar a cercare un'interpretazione particolare e segreta. Allora ogni assassino può dichiararsi beniamino di Dio! No, era pura follia. Bello era soltanto il modo in cui Demian sapeva dire queste cose, cosí chiare e facili come fossero ovvie, e poi con quei suoi occhi!
Certo, non tutto era in regola in me stesso, c'era anzi molto disordine. Ero vissuto in un mondo chiaro e pulito, ero stato a mia volta una specie di Abele e adesso mi trovavo immerso fino al collo in "quell'altro" mondo, caduto molto in basso, e non proprio per colpa mia. Cosa ne dovevo pensare?
A ripensarci, com'era strano ciò che Demian aveva detto degli impavidi e dei codardi! Come curiosa la sua interpretazione del marchio sulla fronte di Caino! E come aveva brillato il suo sguardo, il suo sguardo strano e adulto! E vagamente mi balenò un'idea: non era lui stesso, Demian, una specie di Caino? Perché lo difendeva se non si sentiva simile a lui? Perché tanta potenza nel suo sguardo? Perché quel tono ironico quando parlava "degli altri", dei timidi che poi sono i puri e i cari a Dio?
Non sapevo come porre fine ai miei pensieri. Un sasso era caduto nel pozzo e questo pozzo era il mio giovane cuore. E per molto molto tempo la faccenda di Caino, dell'assassinio e del marchio fu il punto donde prendevano le mosse tutti i miei dubbi e i miei tentativi di conoscenza e di critica.

Hermann Hesse

(Hermann Hesse, Demian in Romanzi e Racconti, Newton Compton, Roma 1992)

Grande letteratura il Demian di Hesse, che però tratta le implicazioni di uno dei piú complessi archetipi umani – quello di Caino e Abele – secondo schemi psicanalitici. Il libro fu scritto infatti mentre l'autore era in analisi presso J.B. Lang, allievo di Jung. Ma l'opera risente anche dell'assidua frequentazione di Hesse della grande tradizione induista, buddista e taoista. Denota inoltre in maniera evidente l'influenza che sull'autore di Siddharta ebbe la filosofia di Nietzsche, laddove essa formula la teoria dell'autoaffermazione del superuomo. Nell'episodio di Demian la morale esposta è che il forte predomina sul debole, senza riconoscere nel gioco dei rispettivi destini la funzione di molteplicità dei ruoli, in virtú della quale ogni individuo partecipa al grande disegno del divenire cosmico di cui il Cristo si fa mediatore tra l'uomo e la divinità. La limitazione di prospettive ideali e morali, sia della tradizione orientale sia della teoria fisolosofica occidentale della volontà di potenza, viene risolta da Steiner in chiave cristica, cosí come risulta dalle conferenze sulla leggenda del tempio da lui tenute a Berlino nel 1905.


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