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Anticamente alture e foreste erano i luoghi
deputati alla ritualità. Quando l’adunanza dei devoti era numerosa,
si eleggevano radure in mezzo a folti boschi, delimitate da piante di tasso
presso le popolazioni celtiche, e da cespugli di alloro e mirto presso
quelle mediterranee. Fungevano da altari tronchi e massi sapientemente
scolpiti.
Al di là di queste aree sacre, oltre
questi recinti inviolabili detti “nemeton”, premevano rigogliose e vaste
distese di alberi, alcuni ritenuti magici. Tra essi primeggiava la quercia.
Simbolo di forza sovrana, di lenta ma sicura crescita ed espansione, capace
di reggere ogni contrasto e avversità climatica, la quercia simboleggiava
l’eternità, l’immortalità. Il suo fusto dava rifugio a ninfe
e folletti e le sue radici si spingevano, secondo remote credenze, fino
ai regni inferi, mentre le sue chiome diramavano ampie e solide verso l’immensità
celeste. Pertanto essa s'imbeveva sia delle energie ctonie sia di quelle
solari. Si nutriva dell’acqua del sottosuolo come del fuoco siderale. Il
suo legno era impenetrabile ai fluidi corrosivi, resisteva alla decomposizione,
durava nei secoli. Per questo il fuoco dei santuari votivi, in Grecia come
a Roma presso le Vestali, fino all’estremo Nord presso le popolazioni celtiche
e germaniche, veniva alimentato con legno di quercia, ritenuto il piú
facile alla combustione, capace di rendere la fiamma piú pura in
quanto esso stesso permeato di un invisibile fuoco celeste unito alla inesauribile
essenza magmatica dei regni tellurici.
Proprio in virtú di questa sua natura
ignivora, essa attivava un particolare magnetismo che richiamava i fulmini.
Ecco perché veniva consacrata a Zeus, a Giove tonante, ad alcune
divinità celtiche e germaniche come Thor, dio del tuono e della
folgore, e a Perkunas, divinità slavo-finnica simile a Thor.
Quando un fulmine la colpiva, la quercia
si incendiava, formando il fuoco iniziale, originale, ritenuto sacro, e
dal quale il popolo alimentava i focolari comuni e quelli domestici. A
volte però la folgore raggiungeva i rami nodosi, possenti dell’albero,
ma non riusciva ad incendiarli. L’energia dirompente e arcana proveniente
dagli spazi cosmici dava allora origine, in base alla primitiva sapienza,
a un cespo di vischio, né pianta né arbusto, né infero
né celeste, sempre verde e mutevole alle cadenze stagionali.
Il vischio allignava anche su altri alberi,
ma quello che si innestava sul tronco della quercia si caricava di sostanze
miracolose. I Celti ritenevano che il siero delle sue bacche guarisse ogni
male. Dono celeste, quindi, cresciuto in seguito a un prodigio su un albero
sacro. Delle forze soprannaturali che lo avevano formato, il vischio conservava
perciò il potere taumaturgico.
Per impedire che la potenza magnetica di
cui il vischio era impregnato si perdesse, i sacerdoti druidi lo coglievano
dalla quercia recidendolo con un falcetto d’oro. E questo perché
un metallo vile, ferroso, una mano empia, ne avrebbero corrotto la purezza
rigenerante. Uguale rito ordinava ad Enea la Sibilla, per consentire all’eroe
troiano la discesa agli inferi attraverso il lago d’Averno. Nel libro VI
dell’Eneide, Virgilio cosí ne parla:
- “…e ne la selva opaca,
tra valli oscure e dense ombre riposto,
e nell’arbore stesso, un lento ramo
con foglie d’oro…
Entra nel bosco, e con le luci in alto
lo cerca, il truova, e di tua man lo sterpa…
- …né con ferro, né con altra
umana forza mai fia che si schianti…”
In realtà le doti curative del vischio,
che gli antichi sacerdoti e sciamani celtici attribuivano a eventi portentosi,
venivano per osmosi dalla particolare linfa che scorre negli alburni della
quercia e si deposita nella sua struttura lignea. Come ben osserva Wilhelm
Pelikan nei suoi studi botanici in proposito, l’albero attinge agli elementi
calcarei del terreno, imbeve di composti calcici le sue radici, il suo
tronco, le sue foglie, la corteccia. Una corteccia annosa può contenere
fino al 90% di ossido di calcio. Secondo Rudolf Steiner, il calcio svolge
una funzione molto importante nel processo di crescita vegetale. Esso attenua
le forze vitali, l’eterico, laddove questo tende a proliferare. Permette
alla vita di concentrarsi su se stessa, in un modo sano e regolare, senza
traumi, consentendo inoltre alla sfera astrale di accedere ai fenomeni
viventi. Per mezzo della sua forma di minerale, metallica, il calcio ha
dei legami molto forti con l’azoto, sostanza che incarna l’astralità,
l’anima. Avendo la proprietà di bruciare con l’azoto, un gas che
normalmente soffoca ogni combustione, il calcio ha il dono di attirare
le forze astrali, florali, come è testimoniato dallo sviluppo esuberante
della flora calcicola.
Ecco quindi che il vischio, operando un proficuo
scambio con l’albero ospite, elabora quelle sostanze capaci di bloccare
le crescite abnormi, di riequilibrare i processi degenerativi, avendo concentrato
nei suoi rami, ma soprattutto nelle bacche e nelle foglie le possenti energie
naturali e cosmiche assorbite e veicolate dalla quercia. Alieno allo stesso
albero che lo ospita, il cespuglio di vischio attiva un suo precipuo processo
vitale.
Di questa singolare autonomia vegetativa
del vischio ci parla Otto Wolff in un suo studio riportato dalla pubblicazione
semestrale Weleda del dicembre 1992: «Del tutto caratteristico è
il seguente comportamento: ogni pianta superiore orienta la sua radice
verso il centro della terra e la gemma verso il sole. Nel caso del vischio
il tronco e le foglie non mostrano una precisa direzione di crescita verso
il sole. Essi formano un cespuglio tondo che si allarga senza tener conto
dei rapporti con terra e sole. Le foglie del vischio hanno la pagina superiore
uguale a quella inferiore, cosa che in genere non si presenta nelle piante
superiori. Notoriamente il cespuglio di vischio è sempre verde;
in altre parole non perde le sue foglie d’inverno, ovverosia non segue
il normale ritmo dell’anno. Da questi fenomeni, insieme a molti altri,
si può ricavare il fatto che il vischio non ha una relazione specifica
con lo spazio e il tempo e neppure con la terra stessa. Esso mostra invece
una specifica relazione con la luce. La gran parte delle piante germina
soltanto nell’oscurità; alcune piante possono germinare nonostante
la presenza della luce, il vischio ha necessità di luce per germinare.
Mentre in genere le foglie ingialliscono in assenza di luce, questo non
avviene nel caso del vischio. Anzi il pigmento verde che si forma soltanto
con la luce, si trova nel vischio fino nella protuberanza che immette nell’ospite
(la si indica in genere come “radice” del vischio). Questa protuberanza
si trova nel legno dell’albero ospite, dove c’è oscurità.
Chiaramente qui il pigmento verde non può accogliere la luce, svolgere
cioè il suo compito. Si può vedere da questi fatti che il
vischio è intimamente compenetrato di luce».
Pianta solstiziale inversa, il vischio germoglia
a giugno inoltrato, quando cioè la maggior parte delle piante si
trova al culmine del processo di maturazione, e matura quando le altre
forme vegetali dormono. La sua natura umbratile stempera i bagliori solari
accecanti, e quella solare illumina il tenebrore dei giorni invernali.
Questa doppia valenza è allegoricamente rappresentata nella mitologia
germanica. Il dio delle Tenebre Hödhr, cieco, uccide suo fratello
Baldr, dio solare, luminoso, e lo fa con un ramo di vischio, unica pianta
capace di vincerne l’invulnerabilità. Ma Baldr risorgerà
piú splendente e vittorioso al termine del Ragnarök, e il ciclo
della vita riprenderà senza dolore né morte in una dimensione
di pura luce.
Allo stesso modo, il vischio sacro, simbolo
della luce vittoriosa sulle tenebre, è stato assimilato al Cristo.
La tradizione pagana si traspone in quella cristiana, entrambe nutrite
dalle medesime radici misteriche. Fino ad alcuni anni fa, in molte chiese
britanniche e irlandesi alla vigilia di Natale un cespo di vischio veniva
posto sull’altare maggiore e benedetto solennemente. Rimaneva esposto per
tutto il periodo natalizio, fino all’Epifania quando, diviso in rametti,
era distribuito ai fedeli come viatico protettivo per l’anno appena iniziato.
Anche noi, uomini moderni e razionali, attendiamo
l’ultima sera dell’anno per ritrovare l’incantesimo del vischio. Sotto
i suoi rami tempestati di bacche opalescenti, che riverberano a tratti
un oro vivo, ci scambiamo effusioni d’affetto, facciamo promesse eterne,
confidiamo in sicure realizzazioni, ci auguriamo duraturo benessere. Un
retaggio formale di remote verità esoteriche, che sopravvivono nella
nostra interiorità e ripullulano se evocate, vivificandoci oltre
la vuota consuetudine. Cosí, anche nella notte che chiude il secolo
e il millennio, nel momento in cui mistero e realtà si fondono,
poniamoci sotto l’aura del vischio scambiandoci i doni dell’amore nutrito
di spiritualità: quello che ricongiunge la terra al cielo.
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