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era una volta, non
so piú in quale terra, una coppia di poverelli. Ed erano, questi
due poverelli, cosí miseri, che non possedevano nulla, ma proprio
nulla di nulla. Non avevano pane da mettere nella madia, né madia
da mettervi pane. Non avevano casa per mettervi una madia, né campo
per fabbricarvi una casa.
Se avessero posseduto
un campo, anche grande quanto un fazzoletto, avrebbero potuto guadagnare
tanto da fabbricarvi la casa. Se avessero avuto casa, avrebbero potuto
mettervi la madia. E se avessero avuto la madia, è certo che in
un modo o in un altro, in un angolo o in una fenditura, avrebbero potuto
trovare un pezzo di pane o almeno una briciola.
Ma, non avendo né
campo, né casa, né madia, né pane, erano in verità
assai tapini.
Ma non tanto del
pane lamentavano la mancanza, quanto della casa. Del pane ne avevano abbastanza
per elemosina; e qualche volta avevano anche un po’ di companàtico.
Ma i poveretti avrebbero preferito di rimanere sempre a digiuno, e possedere
una casa dove accendere qualche ramo secco e ragionar placidamente dinanzi
alla brace. Quel che v’ha di meglio al mondo, in verità, a preferenza
anche del mangiare, è posseder quattro mura per ricoverarsi. Senza
le sue quattro mura, l’uomo è come una bestia errante.
E i due poverelli
si sentivano piú miseri che mai, in una sera triste della vigilia
di Natale; triste soltanto per loro, poiché tutti gli altri in quella
sera hanno il fuoco nel camino e le scarpe quasi affondate nella cenere.
Come si lamentavano
e tremavano, sulla via maestra, nella notte buia, s’imbatterono in un gatto
che faceva un miagolío roco e dolce. Era, in verità, un gatto
misero assai, misero quanto loro, poiché non aveva che la pelle
su le ossa e pochissimi peli su la pelle. S’egli avesse avuto molti peli
sulla sua pelle, certo la pelle sarebbe stata in condizioni migliori. Se
la sua pelle fosse stata in condizioni migliori, certo non avrebbe aderito
cosí strettamente alle ossa. E s’egli non avesse avuto la pelle
aderente alle ossa, certo sarebbe stato forte abbastanza per pigliar topi
e per non rimaner cosí magro.
Ma, non avendo peli,
ed avendo invece la pelle sulle ossa, egli era in verità un gatto
assai meschinello.
I poverelli son
buoni e s’aiutano fra loro. I due nostri dunque raccolsero il gatto, e
neppure pensarono a mangiarselo; ché anzi gli diedero un po’ di
lardo che avevano avuto per elemosina.
Il gatto, com’ebbe
mangiato, si mise a camminare dinanzi a loro e li condusse a una vecchia
capanna abbandonata. C’eran là due sgabelli e un focolare, che un
raggio di luna illuminò un istante, e poi sparve.
Ed anche il gatto
sparve col raggio di luna, cosicché i due poverelli si trovaron
seduti nelle tenebre, innanzi al nero focolare che l’assenza del fuoco
rendeva ancor piú nero.
«Ah! – dissero
– se avessimo appena un tizzone! Fa tanto freddo! E sarebbe tanto dolce
scaldarsi un poco e raccontare favole!»
Ma, ohimè!
non c’era fuoco nel focolare, perché essi erano miseri; in verità,
miseri assai.
D’un tratto due
carboni si accesero in fondo al camino: due bei carboni gialli come l’oro.
E il vecchio si
fregò le mani in segno di gioia, dicendo alla sua donna:
«Senti che
buon caldo?»
«Sento, sento!»
rispose la vecchia.
E distese le palme
aperte innanzi al fuoco.
“Soffiaci sopra
– ella soggiunse. – La brace farà la fiamma”.
“No – disse l’uomo
– si consumerebbe troppo presto”.
E si misero a ragionare
del tempo passato, senza tristezza, perché si sentivan tutti ringagliarditi
dalla vista dei due tizzoni accesi.
I poverelli si contentan
di poco e son piú felici. I nostri due si rallegrarono,
fin nell’intimo cuore, del bel dono di Gesú bambino, e resero fervide
grazie al bambino Gesú.
Tutta la notte continuarono
a favoleggiare scaldandosi, sicuri ormai d’esser protetti dal bambino Gesú,
poiché i due carboni brillavano sempre come due monete nuove, e
non si consumavano mai.
E quando venne l’alba,
i due poverelli, che avevano avuto caldo ed agio tutta la notte, videro
in fondo al camino il povero gatto che li guardava coi suoi grandi occhi
d’oro.
Ed essi non ad altro
fuoco s’erano scaldati, che al bagliore di quegli occhi.
Gabriele D’Annunzio
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