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Da giorni ormai la grande armata greco-macedone
avanzava nel deserto pietroso. Durante le ore diurne il vento, che rovinasse
giú secco e pungente dal Paropàmiso, dai monti prossimi d’Aracosia,
o che soffiasse umido e greve da Oriente coi monsoni autunnali, suscitava
furiosi turbini di polvere che soffocavano il respiro, annebbiavano la
vista, frustavano obliqui i garretti dei cavalli. Gli animali reagivano
cimando, scartando improvvisi, impennandosi, nitrendo impauriti. Quando
finalmente il vento cadeva, rispuntavano infidi e letali i serpenti, gli
scorpioni, piú crudeli i rovi graffiavano intralciando l’andatura
di uomini e cavalcature. Dal suolo rovente sassi acuminati e taglienti
come lame incrinavano gli zoccoli dei cavalli, spezzavano le fasce dei
calzari. E la calma del vento portava con sé una calura asfissiante,
il bollore della terra argillosa e calcinata, l’arsura inestinguibile.
Quanto rimpiangeva il suo nero e impavido Bucefalo, Alessandro! Contrariamente
al suo perduto cavallo, l’elegante destriero regalatogli dal re Poro mal
sopportava i tormenti del clima e del terreno, allevato com’era nella pace
erbosa degli altipiani del Kandahar. Dei tanti amici perduti in quella
spedizione, Bucefalo era stato l’ultimo a lasciarlo. Dopo la battaglia
dell’Idaspe, coperto di ferite, si era abbandonato alla sua fine. Era morto
da vero soldato, senza un nitrito, senza un fremito. Solo un intenso, prolungato
sospiro. Alessandro aveva tentato di cogliere in quell’attimo estremo un
segno di commiato. Ma le pupille dell’animale si erano velate di una luce
opaca, tenue, per ghiacciarsi infine nella fissità della morte.
Ne erano passati di anni da Cheronea, quando
uomo e cavallo, in un sol corpo, caricando a precipizio dalla collina,
trascinandosi dietro i cavalieri dell’àgema reale, avevano sfondato
il quadrato del Sacro Battaglione tebano! Lontana quell’epoca ormai, remota
la patria e la gioventú splendente e ardimentosa. Ora il deserto
immergeva lui e la sua armata dolente in una dimensione senza riferimenti
certi di spazio e di tempo. Un vuoto, uno smarrimento totale dell’anima.
Da quando l’esercito era entrato nel bollente crogiolo delle piane desertiche,
alla memoria degli eroi omerici conquistatori di Troia si era sostituita
quella dell’armata di Senofonte, e al posto dell’Iliade nella sua tenda,
la sera, scorreva il resoconto drammatico dell’Anabasi, dei diecimila mercenari
greci impegnati ad attraversare il deserto iranico per raggiungere il Ponto
Eusino.
Pelasti, arcieri e militi della falange penavano,
maledicevano, morivano, abbandonando nella sabbia rovente le lunghe sarisse
acuminate, i labari e i trofei, il bottino piú prezioso accumulato
in tanti saccheggi. Una nemesi implacabile sembrava voler togliere loro
tutto ciò per cui avevano combattuto e sofferto, gli oggetti piú
cari, la stessa vita. Agiva spietato e inarrestabile un contrappasso. Quegli
uomini, in una notte orrenda, al grido aspro e lascivo di Taide, l’ètera
ateniese aggregata allo stato maggiore ellenico, che li incitava al massacro
e alla distruzione, avevano raso al suolo Persepoli, trucidandone tutti
gli abitanti. Ora, le Piane di Gedrosia riprendevano quanto essi avevano
depredato.
Col grido feroce di Taide risuonavano nella
mente di Alessandro i nomi degli amici perduti: Clito, Filote, Parmenione,
Callistene, Menandro. Non erano stati uccisi dalle daghe persiane, battriane
o fenicie, né dalle ruote falcate dei carri di guerra di re Dario.
Li aveva eliminati la loro incapacità a comprendere e condividere
fino all’estremo il grande sogno ideale del re condottiero. Uno dopo l’altro
si erano staccati da Alessandro, resi ostili da cupidigia, ambizione e
vanità.


Soltanto uno rimaneva a spartire quell’ideale
immenso e incompreso: Efestione, l’amico di infanzia, l’inseparabile. Emergeva
biondo, leonino e irruente, dai mulinelli di polvere. Spronando il suo
cavallo rinverdiva le gesta di Cheronea e di innumerevoli battaglie. Percorreva
le colonne che avanzavano sul terreno accidentato, dava ordini ai cavalieri
per serrare le file. Soprattutto lanciava occhiate furtive e cariche d’ansia
al suo re e compagno. Cercava di indovinarne i pensieri, i futuri propositi.
La notte dormiva nella tenda accanto a quella di Alessandro, ne ascoltava
i soliloqui, i deliri nel sonno agitato. L’invincibile contava i suoi trofei,
enumerava le conquiste, nominava le molte città edificate. L’ultima,
Bucefala, dedicata al cavallo che aveva domato appena dodicenne.
Giungevano al re notizie di defezioni, tradimenti
e rivolte dai presídi e fortilizi edificati nel corso della lunga
campagna. Non ancora ultimato, il regno di molte genti si sfaldava, tornando
polvere nella polvere. E da Atene pervenivano messaggi non certo migliori.
Sfruttando le artate calunnie contro il re, propagate da generali e militari
ellenici posti in second’ordine rispetto ai Persiani, il partito di Demostene
riprendeva quota e credito presso gli Ateniesi. A farne le spese era Aristotele,
l’antico maestro, e il suo Liceo Perípato, con la ormai celebre
biblioteca, che perdevano sempre piú prestigio. Il filosofo legato
alla causa macedone rischiava, a quanto riferivano i dispacci dalla Grecia,
l’accusa di empietà, come era accaduto per Socrate. Della sorte
toccata ad Aristotele maggiormente si addolorava il sovrano. Tra tutti,
il suo maestro pagava il prezzo piú alto, per aver fornito le basi
ideali del progetto federativo universale. Ora, declinando la stella macedone,
tramontava anche quella del filosofo.
Strano e ingiusto destino, quello di un uomo
illuminato e saggio come Aristotele. Essere accusato di empietà,
lui che parlava di scienza perché l’uomo indagasse i segreti della
natura e del cosmo e ne conquistasse le chiavi, e che descriveva la divinità
quale puro atto e pura forma, perché attraverso la conoscenza l’uomo
ne cogliesse l’essenza in ogni creatura vivente, in ogni elemento e fenomeno.
Ma gli uomini avevano adoperato la sua filosofia per giustificare stragi
e conquiste, spoliazioni e distruzioni. Avevano usato la scienza per costruire
baliste, catapulte, carri da battaglia, archi, spade, torri d’assalto,
arieti di sfondamento, rostri per le navi. E quanto alla divinità,
ne avevano portato in basso, al loro stesso livello istintivo e materialistico,
la sostanza perfetta ed armoniosa, l’ineffabile forma, l’altisonante nome.
Si facevano scudo della divinità per nascondere le proprie ambizioni,
omologare il potere e sancire il carisma dei loro governi verso il popolo
e la storia. Come i suoi compatrioti greci, che nel santuario di Delfi
accumulavano ricchezze inerti nei Tesori delle varie città, e i
sacerdoti di Apollo obbligavano la Pizia a vaticinare ad uso dei potenti
di turno venuti a consultare l’oracolo. Cosí la Pitonessa aveva
fatto con lui: lo aveva dichiarato invincibile, invulnerabile, come il
suo idolo: Achille.
Allo stesso modo, a Siua, nell’oasi dove
il dio Ammone aveva il suo tempio, i sacerdoti egizi avevano sancito la
discendenza di Alessandro da Zeus-Ammone, in ossequio alla leggenda che
circolava in Macedonia sul giovane re, avallata dai prodigi che si erano
verificati sin dalla sua nascita.
Altrove gli uomini, incapaci di tenere alti
gli ideali e la fede, imprigionavano l’essenza della divinità nel
groviglio di un nodo, come a Gordo. Oppure si affidavano ai teoremi di
astrologi e maghi Caldei, i quali vedevano nei movimenti degli astri una
sorta di meccanismo cosmico, che stabiliva ineluttabilmente il destino
degli uomini, determinando la loro vita e il corso degli eventi. E spesso
la ricerca del divino si riduceva a una sfida, come quando costruivano
torri altissime per conquistare il Cielo. A Babilonia gli avevano indicato
i resti della famosa Torre: un riquadro anonimo di pietre corrose invaso
dall’erba e dagli sterpi. Dov’era il Dio formulato da Aristotele? Il soffio
universale di cui ogni atomo viveva, anima segreta delle creature e degli
elementi? Gli uomini finivano sempre col tradire l’anelito alla divinità,
giungendo a travisarne i Misteri in corrotti rituali, come accadeva nel
culto di Dioniso in cui la divina energia cosmica, lo spirito del dio solare,
venivano degradati nelle furie orgiastiche, nei cruenti sacrifici di animali.
Inutilmente la regina Olimpiade, madre di Alessandro, grande sacerdotessa
del culto, si era prodigata per frenare gli eccessi di mènadi e
baccanti, e riportare i riti del Dioniso celeste alla loro purezza originale,
mirante a produrre negli adepti l’estasi dell’unione mistica col dio.
Proprio seguendo un preciso desiderio di
sua madre, Alessandro aveva ricercato nella regione di Dir, tra il Paropàmiso
e il Gandhara, il favoloso monte Nisa, dove alcuni mitografi ellenici collocavano
la dimora di Dioniso fanciullo, allevato dalle ninfe Iadi. Dopo ore di
viaggio in territorio impervio, avevano trovato il luogo. Qui nulla ricordava
il fasto colorito dei grandi santuari indiani. Il tempio si limitava a
un semplice altarino di pietra, sormontato da un baldacchino di legno dipinto.
Sotto la minuscola cupola, l’effigie di un
dio dalla pelle blu mimava passi da danza suonando un flauto di canna.
Chi lo accudiva, piú che di uno jerofante aveva l’aspetto di un
eremita.
Lo trovarono che dava da mangiare a una coppia
di cerbiatti per nulla intimoriti dalla presenza dei visitatori. Una strana
pace regnava tutt’intorno. Era nei grandi alberi svettanti, nelle rocce
argentee, scorreva frusciando con le chiare acque di un ruscelletto poco
distante dal simulacro del dio agreste.
«Cosa cerchi, straniero?» aveva
chiesto con mitezza l’eremita, accennando un tranquillo sorriso.
«Cerco la dimora di un dio» aveva
risposto il re.
«Un cosí lungo cammino per cercare
in questa solitudine qualcosa che già porti con te…»
«E dove mai?».
Alessandro era rimasto interdetto. Il sant’uomo
gli si era avvicinato e gli aveva poggiato la scarna mano sul petto, in
corrispondenza del cuore.
«Dio è qui, straniero. Qui risuona
con ogni battito del cuore umano la Sua voce. Se riesci a udirla, possederai
la vera conoscenza».
Dunque, Dio era nel cuore degli uomini, di
tutti gli uomini. E parlava. Bastava ascoltarne la voce. Quella voce echeggiava
quindi anche nel petto degli uomini che ora, persi nelle pietraie infuocate,
si trascinavano disperati. Uomini che avevano ucciso e distrutto. Era dunque
lí che occorreva penetrare, lavorare e purificare: rendere gli uomini
tabernacoli degni del divino. Quella era la nuova opera da realizzare:
conquistare l’essere brutale alla suprema armonia.
Dal deserto rovente emerse il nuovo progetto
di Alessandro: a Babilonia, eletta capitale dell’immenso Impero, avrebbe
riunito saggi, filosofi, uomini di scienza, maestri nelle arti e nelle
dottrine – Aristotele con gli altri – chiamandoli da ogni regione della
terra. Poiché il soffio di Dio era ovunque e parlava a tutti con
univoca risonanza, occorreva unire gli uomini in una possente impresa di
conquista interiore, invece che di territori. Solo in quel modo il regno
acquisito sarebbe stato destinato a durare. Alessandro vide allora il deserto
consumare il suo mito di potenza materiale e accendere un fuoco di purificazione.
Le Piane di Gedrosia forgiavano in un crogiolo di luce catartica l’inedito
disegno: risvegliare nell’uomo la sua latente divinità. Ma già
tramava contro questo sogno la mano della congiura. Mentre Alessandro e
la sua armata percorrevano il sofferto cammino del ritorno, dalla natía
Macedonia partiva Iolla, uno dei congiurati. Recava con sé il potente
veleno che avrebbe spento la fiamma di quel nuovo e piú grande sogno.
La mano assassina raggiunse il re condottiero a Babilonia. Era il mese
di giugno dell’anno 323 a.C.
Inseguendo l’incauto sogno del dominio materiale
del mondo e la pretesa di instaurarvi una civiltà edonistica, anche
l’uomo tecnologico-scientifico, economico-pragmatico, razional-positivista
è simbolicamente giunto alle Piane di Gedrosia, creando intorno
a sé il deserto: rarefazione e ostilità dei rapporti umani,
degrado ambientale e morale, disarmonia e discordanza con le forze naturali
che egli ha assoggettato e sfruttato a scopi puramente strumentali e utilitaristici.
Avendo guastato la sua relazione simbiotica con quel mondo che intendeva
soggiogare, l’uomo non sa piú come uscire dalla pania delle innumerevoli
inadempienze di cui si è reso responsabile. Al punto in cui si trova,
se vorrà salvarsi sarà costretto a sbarazzarsi dei trofei
conquistati, degli effimeri orpelli materiali e culturali di cui si è
caricato. Nella pressante ricerca di inedite soluzioni, di nuovi progetti,
trova sollievo in rimedi che spesso si rivelano piú dannosi dei
mali che intendono guarire. Come in ultimo era giunto a comprendere Alessandro,
il territorio da conquistare non è esteriore ma nel cuore dell’uomo,
e l’arma da utilizzare non è la spada ma il pensiero vivificato
dallo Spirito.
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