L’Archetipo Anno IV n. 4, Febbraio 1999

 

Ci sono opere che appartengono a un periodo storico ben definito, altre che rispecchiano istanze e tradizioni proprie di un popolo o di un’etnia, altre ancora che vivono nell’ambito di particolari confessioni religiose e da quello non esulano. Soltanto rare testimonianze artistiche, nelle varie espressioni, si rivolgono alla vicenda umana svincolata dalla cornice temporale e spaziale, per divenire messaggi diretti agli uomini di tutte le nazioni e di tutti i credi, a qualunque epoca storica essi appartengano. Sono le opere universali, le didattiche globali, come la Divina Commedia e il teatro di Shakespeare, alle quali gli uomini in ogni periodo e per ogni esigenza possono attingere per ritrovarvi tutte o in parte le proprie inadeguatezze, le problematiche, le contingenze e per ricavarne speranze, certezze e illuminazioni.
Alcune di queste opere hanno accompagnato per gran parte della loro esistenza i sommi artisti che le hanno create, quasi un lavoro quotidiano in divenire, una metamorfosi operativa continua. Cosí è stato per la Gioconda di Leonardo o il Faust di Goethe, lavori intorno ai quali si è impegnato diuturnamente l’estro dell’autore, quasi che il variare dell’umore, l’accrescersi delle esperienze, la macerazione del dolore, formassero dei tasselli che in qualche modo, giorno dopo giorno, completassero il capolavoro. Opere che solo la morte fisica poteva concludere, in quanto materia vitale inscindibile dall’artista.
A quest’ultimo ordine di realizzazioni artistiche appartiene Il crepuscolo degli Dei – la Götterdämmerung – che conclude L’anello del Nibelungo, meglio conosciuto come la Tetralogia wagneriana. Richard Wagner ne iniziò la stesura nel 1847, articolandola in un ciclo comprendente quattro opere: L’oro del Reno, La Walkiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli Dei, che terminò nel 1876. Quell’anno, con la rappresentazione integrale della Tetralogia, Wagner inaugurò a Bayreuth il suo teatro alla presenza dell’imperatore Guglielmo I e di Luigi II di Baviera.
Al di là delle innovazioni squisitamente tecniche che tutta l’opera wagneriana intende perseguire, ai fini della realizzazione di un progetto drammatico totale, Il crepuscolo degli Dei in particolare cela fortissime implicazioni misteriche ed esoteriche, liquidate dai detrattori di Wagner – che furono e rimangono inspiegabilmente e ingiustificatamente molti – quali simboli e segnali di un pessimismo cosmico riguardante il destino ultimo dell’umanità e dei suoi aneliti verso la trascendenza, bruciati sulla pira funebre con Sigfrido e Brunilde e nell’incendio rovinoso del Walhalla.
Ma uno spirito grandioso e geniale come Wagner non poteva chiudere la sua opera e la sua esistenza con un messaggio di ecatombe ineludibile per i destini dell’uomo. Ecco quindi che l’opera va intesa non in senso di catastrofe bensí di liturgia catartica. Il rogo del Walhalla brucia l’Olimpo del paganesimo nordico, dei miti cupi e sanguinari dei Vichinghi, fuga le nebbie delle saghe boreali e glaciali, instaurando l’era solare. Pertanto, dalle ceneri degli eroi legati ai riti e ai simboli di magia, sortilegio e maleficio sorge Parsifal, l’eroe purificato, senza macchia e senza paura, il cercatore del Graal, esempio dell’uomo che procede alla propria realizzazione nella luce salvifica del Cristo. Il Parsifal viene iniziato da Wagner alla fine del 1876 in Germania, proseguito in Italia, ad Amalfi e Palermo, e terminato a Venezia un mese prima della sua morte, avvenuta il 13 febbraio 1883 nel Palazzo Vendramin Calergi.
Anche Goethe, circa un secolo prima, aveva portato il suo Faust in Italia, per liberarlo dalle incrostazioni gotiche e bagnarlo nelle acque di una classicità segnata dall’impronta cristica. Ne aveva riportato un poema trasformato, in cui un essere inappagato quale è Faust, votato alla dannazione secondo gli schemi della tradizione nordica medievale e del poema seicentesco di Marlowe, giunge alla redenzione. A supporto di questa tesi vale ricordare la scena del miracolo di Pasqua, inesistente nella prima stesura dell’opera: in essa il suono delle campane, unito ai cori angelici diffusi nell’aria primaverile e alla grande luce che piove dall’alto, richiama il protagonista, già pronto a porre fine ai suoi giorni, al recupero della volontà di salvezza.
Ecco allora che Il crepuscolo, comunemente inteso quale “morte degli Dei”, va invece considerato come preludio necessario all’instaurazione di un nuovo rapporto tra l’uomo e la divinità: nell’incendio finale che consuma l’universo di Wotan e Odino periscono le forme, le figurazioni e i nomi con i quali fino ad allora gli uomini avevano richiamato il divino alla loro realtà. Periscono i simulacri degli Dei, ma resta la loro essenza immortale, perché l’uomo la evochi e la faccia propria. Rimane il loro spirito immanente nelle cose. Per affermarlo e rimandarlo ai posteri sotto forma di epilogo testamentario, Wagner compose il Parsifal, vero coronamento mistico e sublime di tutta la Tetralogia e specchio fedele di un’esistenza, la sua, votata alla ricerca del sacro, del bello e del vero, attraverso la sintesi di tutti i valori che la natura e l’uomo sono in grado di esprimere.

Ovidio Tufelli

Illustrazione: «Parsifal nella foresta», scenografia per il Parsifal di R. Wagner conservata presso il Richard Wagner Museum di Bayreuth

  Il trasfigurativo di Sagramora

 

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