Poesia

I tre re Magi vanno in fila indiana
incolonnati sul termosifone:
un africano, un arabo, un caldeo.
A ruota segue un docile cammello,
portando masserizie e vettovaglie,
all’occorrenza serve da trasporto
dovesse uno dei tre venire meno,
provato dalla lunga camminata,
reggendo in mano i segni dell’ossequio:
l’incenso, l’oro e il balsamo di mirra.
In alto fa da guida la cometa
lucente nei suoi guizzi di stagnola
e avviva a tratti la scenografia
di cartapesta che non varia mai,
da secoli la stessa, ripetuta
nei soliti cliché codificati:
pastori, pecorelle, cherubini,
il ponticello a gobba di somaro,
un lago col mulino, una massaia
rubizza in viso, il cèrcine sul capo
sormontato da un cesto d’uova fresche.
E poi cafoni sparsi coi regali:
caciotte, serti d’aglio e di castagne,
mappate di leccornie e le fascine
adatte per diffondere calore
nella capanna dove il Redentore,
allo scoccare della mezzanotte,
verrà a giacere nella mangiatoia
atteso da Giuseppe e da Maria.
Conosciamo la storia e i figuranti,
il canovaccio, le battute e i tempi,
gli effetti delle luci e la regia.
Ma quello che piú incanta dell’insieme
è l’espressione d’estasi beata
che trasfigura tutti i personaggi,
rendendoli paciosi e soddisfatti,
fiduciosi dell’oggi e del domani,
sicuri che gli eventi prenderanno
la piega giusta, che realizzeranno
i sogni di ciascuno, le speranze.

    Cosa distingue la cosmogonia
    felice del presepe dalla nostra
    di cittadini oppressi, martoriati
    dalle nevrosi d’ogni tipo e grado?
    Innanzitutto non ci son bandiere
    che impongano la fede nazionale,
    mancano i passaporti e le frontiere,
    una è la lingua, uno l’ideale.
    Nessuno grida “A morte!” oppure “Abbasso!”,
    sono aboliti pulpiti e tribune,
    blasoni, stemmi, le camicie brune
    o rosse o bianche, a strisce o ricamate.
    Ognuno veste come l’estro vuole,
    usando stoffa semplice e colori
    dettati solo dalla fantasia.
    Non ci sono filosofi e maestri,
    parlamentari, fiscalisti ed altri
    impegnati a dividersi la torta
    delle risorse pubbliche e private.
    Inoltre le signore del presepe
    indossano vestiti castigati,
    sottane lunghe, zinaloni e cioce,
    non fanno le civette coi signori,
    e questi son garbati, gente a modo,
    come conviene a chi sta percorrendo
    la strada che conduce alla dimora
    dove la Verità viene alla luce.
    Questo è il presepe casalingo, un eden
    montato tra il buffet e la libreria,
    popolato da uomini di gesso
    piú veri dei modelli in carne e ossa.
    E noi che li mettiamo tutti gli anni,
    ficcati nella sabbia e segatura,
    in fondo ne invidiamo la ventura
    di credere nell’astro che dal cielo
    rischiara il buio per i loro passi,
    e il mondo inerte libera dal gelo.

    Fulvio Di Lieto

F. Di Lieto, Spazi di fuga, Ed. Il Ventilabro, Roma 1994
– Immagine tratta da Il presepe Napoletano, Ed. Guida, Napoli 1991

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