Filosofia

Ai moderni studiosi di esoterismo potrebbe sembrare anacronistico scrivere e meditare sull’attualità spirituale del fondatore del neoplatonismo; tale opinione si rivela però infondata qualora si immerga la propria anima nei contenuti di pensiero espressi nelle Enneadi.
Il filosofo di Licopoli appartiene indubbiamente ad una rarissima genía di filosofi, la cui ricerca speculativa sfocia rapidamente in una magia diretta dell’Io, in una rigorosa ascesi noetica mediante la quale il pensatore si fa testimone e attivo osservatore di un universo archetipale essenziato di Potenze lievi, scevre del necessitante pondo materiale.
Leggendo la Vita di Plotino di Porfirio si ha la chiara immagine di un asceta che concepiva il suo insegnamento come un metodo atto a condurre i discepoli al risveglio degli organi normalmente assopiti nella vita di veglia e al totale azzeramento di quella limitata personalità psico-somatica propria ad ogni uomo incarnato.
«Quando parlava, l’intelligenza si vedeva brillare sul suo viso e illuminarlo della sua luce. (…) Plotino era dunque assistito da uno di quei dèmoni che sono piú vicini agli Dei, ed a lui si rivolgeva continuamente il suo occhio divino. (…) Amelio era amante dei sacrifici e non tralasciava alcuna cerimonia della luna nuova e nessuna festa; un giorno volle condurre con sé Plotino, ma questi gli disse: “Devono essi venire a me, non io a loro”. Che cosa intendesse dire pronunciando queste parole cosí fiere, noi non potemmo comprenderlo e neppure osammo interrogarlo».
Proprio in punto di morte, lasciò ai discepoli piú fedeli la grandiosa esortazione: «Cercate di far risalire il divino che è in voi al divino che è nell’universo».
Come già accennato, la visione filosofica plotiniana non è opera di un pensiero soggettivamente concepito, epperò astrattamente scisso dalla sorgente originaria dell’essere, ma, viceversa, è gemmazione di un pensare divenuto – in seguito a strenuo, perseverante esercizio mistico-meditativo – immateriale organo di percezione di una realtà impercepibile all’egoico sentire dell’uomo psichico, inevitabilmente incatenato in un abbagliante legame mayico.
Tale è la lucida, oggettiva esperienza della dimensione occulta della realtà, nella quale posto centrale occupa la trasumanazione del soggetto meditante, che si realizza volitivamente quale uomo intelligibile (l’Adam-Quadmon dei Kabbalisti) incarnante, nella nuda immanenza, quel nucleo celeste dal quale si era scisso una volta incarnatosi.
«Se dunque lassú ci sono questi corpi, l’Anima li sente e li percepisce; e c’è l’Uomo intelligibile, e c’è l’Anima capace di percepire; e perciò l’uomo inferiore, che è una sua immagine, possiede in immagine le forme; e l’Uomo che è nell’Intelligenza contiene in sé il secondo uomo che è prima di tutti gli uomini»1.
Tale uomo intelligibile è chiaramente l’essenza adamantina dell’anima, l’Io-Logos, Principio celeste e immortale che si inserisce nell’attimo della vera Conoscenza, nell’identità tra l’Io e l’Universo, che corrisponde all’estinzione delle inferiori brame soggettive e allo svuotamento virile delle informi velleità psichiche (afele panta). Una simile operazione conoscitiva è in realtà un processo di semplificazione animica – àplosi2– attiva contemplazione noetica in cui viene trascesa e superata la distinzione soggetto-oggetto del processo della contemplazione.
«Il veggente era una cosa sola con l’oggetto visto (unito dunque, non visto) (…) l’essere che contemplava era egli stesso l’Uno; non vi era in lui nessuna differenza con se stesso né secondo altri punti di vista: nessuna emozione; nella sua ascensione non vi era né collera né desiderio; non ragione, né lo stesso pensiero in lui; e, bisogna dirlo, egli stesso non è piú (…) è entrato silenziosamente nella solitudine e in uno stato che non conosce turbamento, e non si allontana piú dall’essere dell’Uno, né piú si aggira intorno a se stesso, essendo ormai assolutamente fermo, identico alla stessa immobilità»3.
Ove si scorgesse in questa esperienza meditativa anche un semplice residuo di esoterismo medianico, o anche una mistica dominata da caotici stati animici, si rischierebbe di tradire il carattere delle stesse: ciò che colpisce profondamente nell’ascetico stile plotiniano è proprio la linea radicalmente antidogmatica, che ha il suo culmine nell’hènosis, o nell’unione dell’Io individuale con il Logos eterno, l’Uno.
L’hènosis, l’ascesa dell’anima nel cosmo dell’Uno primordiale, essendo assolutamente fondata su tecniche di liberazione della forza-pensiero, si può anche considerare – come saggiamente intuito da Beierwaltes4, uno tra i massimi studiosi di neoplatonismo – un tentativo di “pensare l’Uno”.
Pensare l’Uno poiché gli esercizi di purificazione animica e le pratiche di realizzazione volitiva dell’Uno in noi – il vero Essere (aletès ousìa)– hanno, nel pensiero cosciente, il soggetto e l’oggetto del moto di risveglio sovrarazionale dell’Io.

Alexander

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1 Enn. VI 76
2 Enn. VI 9 11
3 Enn. VI 9 11
4 Beierwaltes, Plotino (Intr. G. Reale) p. 15

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