Miti e riti

La festa dei colori

Nulla è piú ingannevole di un paesaggio invernale, specialmente alle latitudini dove l’inverno ha tutte le manifestazioni tipiche della stagione fredda: grigiore, uniformità, defoliazione, scarnificazione delle forme, mutismo di voci e suoni. Ma si tratta di una parvenza. È come se un sipario venisse calato ad arte sulla scena dove invisibili operatori e ideatori, animati da fervore creativo, stanno allestendo alacremente, silenziosamente, lo spettacolo piú fantasmagorico di cui la natura sia capace. In realtà, quello che ci appare come il sonno letargico degli elementi nasconde uno stato di veglia estrema: linfe, germi, semi e umori si attivano febbrilmente, in una trattenuta frenesia generativa, sull’opera tesa a elaborare un sogno immenso che, prima o poi, esploderà incontenibile.
Allora, la cortina si solleverà mostrando la scenografia dove i colori, le forme, i suoni e le voci animeranno il transito dall’occulto, umile lavorio elementare al dispiegamento delle energie vitali nel loro piú alto dato espressivo ed estetico. E gli uomini, sin dagli albori della loro vicenda storica, hanno voluto celebrare queste temperie di passaggio, esaltando proprio quegli aspetti naturali che l’inverno, almeno visivamente, aveva penalizzato: luminosità, sonorità, motilità. Ed ecco allora la danza, la corsa, il canto, il fuoco pirotecnico, le luminarie, il fragore, le risa, ecco gli allegri costumi, le stoffe sgargianti, gli specchietti, le perle. Infine le maschere, che rendono diversi, che sdoppiano, moltiplicano, e piú che nascondere rivelano le essenze celate dietro le parvenze.
Cosí e non diversamente da sempre, presso ogni popolo, tribú e razza. C’erano segni per queste transizioni. Nella Roma antica, l’araldo che annunciava il mutamento stagionale cosmico era il delicato bucaneve, il galanthus nivalis. Fresco, acerbo, fragile, nel suo colore conservava memorie di neve e di lunari influenze, il suo candore simboleggiava purezza e verginale innocenza, oltre a rappresentare il risveglio della luce. Le fanciulle, alle calende di febbraio, con le fasi di luna nuova, ne coglievano mazzetti lungo i rigagnoli sacri della valle delle Camene, sulle pendici del Celio, presso la meta sudans nella valle Velia, e ne facevano dono alla ninfa Giuturna, nella cui fonte sgorgante nel Foro si bagnava Giunone, per rinnovare la sua perpetua giovinezza. L’offerta dei fiori era il rito delle fanciulle in attesa delle giuste nozze e della felicità coniugale, pronuba la regina degli Dei, consorte di Giove. Con l’epiteto di “Februa” era lei che presiedeva ai riti di purificazione cui i Romani avevano dedicato il mese di febbraio, e il colore bianco ne governava le liturgie, volendo simboleggiare la luminosità rinascente, la purezza riconquistata, la luce indivisa, la foemina alba, elemento mercuriale e lunare, il principio femminile per eccellenza. Secondo la teoria espressa da Goethe in merito ai colori, questi rappresentano la personale risposta di ciascun elemento naturale e cosmico al bianco della luce primigenia. Dall’unico al molteplice, che si sforza con ogni mezzo di tornare all’essenza unitaria da cui deriva, compenetrandosi, mescolandosi in mille combinazioni sulla tavolozza imprevedibile del creato. In questo esaltante gioco esistenziale, è sempre alla scaturigine prima che tende il molteplice a tornare: a quell’unica luce indivisibile che tutto illumina e da cui tutto muove.
In base a tale principio, a Giunone veniva dedicato il pavone, uccello che nelle sue piume racchiude tutta la gamma dell’iride. Per venerare Giunone Februa, una fiaccolata percorreva le vie dell’Urbe esorcizzando il buio della notte illune e i geni nefasti che popolano l’oscurità. Poi, col plenilunio venivano le Idi e le celebrazioni in onore di Giove. Tra esse spiccavano i Lupercali, con la loro cruenta liturgia sacrificale in cui predominava il rosso porpora, segno di vitalità e regalità, di potere supremo e di “massima gloria” secondo Plinio. Mentre la trasgressione rituale, il clima libertario, la licentia dei Saturnali di fine dicembre intendevano, attraverso la celebrazione di particolari cerimonie, esorcizzare il vuoto d’azione umana, l’inerzia solare alla cadenza del solstizio invernale e la saturazione ciclica del tempo e della natura, i Lupercali ritualizzavano la restaurazione della sollertia umana nell’ambito naturale, la rinascita solare e cosmica, il rifiorire del tempo. Entrambe le ricorrenze si connotavano per la loro gioiosa animazione e per la rottura di convenzioni sociali e gerarchiche espressa nella collettiva, promiscua partecipazione ai riti. Queste pratiche e liturgie, fraintese e volgarizzate, hanno dato origine, con molta probabilità, allo scatenamento e alla disinibita frenesia del nostro Carnevale.
Variando le realtà etniche e geografiche, restano uguali le motivazioni e gli impulsi che hanno ispirato nel tempo le celebrazioni dei “riti di passaggio”, e non dissimili gli atti che li esternano, tenuto conto delle differenze sostanziali dei temperamenti: dalle regioni del Nord estremo, dove la luce rinascente veniva rappresentata e onorata con solenni e austeri canti e danze., all’India, la cui umana esuberanza e il rigoglio della provvida natura sono alla base della festa di Holi.
Secondo la tradizione induista, il demone Holika imprigiona durante l’inverno la natura e gli uomini in una gelida stasi, frena l’anelito dei semi alla vita, gli slanci d’amore, tarpa le ali agli uccelli. Poi la luna piena di febbraio, la Tithi bianca, porta la festa di Palguna, che celebra l’energia vitale, con il ritorno dei suoni e dei colori. Un’occulta potestà cosmica impartisce un ordine e le forze di rigenerazione latenti nelle creature e negli elementi si attivano, esternando la loro essenza. Lungo i tronchi e gli steli la linfa torna a scorrere rapida e feconda, nelle vene delle creature il sangue pulsa ricco di nuova forza, accende le passioni amorose e la gioia di esistere, i colori esplodono finalmente in variegate fioriture: l’albero di sesamo con i suoi serici fiori di tenero verde pallido, il mango, coperto di corolle d’un ricco giallo oro, mentre di un vivido ocra palpitano al tiepido vento del Sud i petali rosa dei rami di ciliegio, di porpora i boccioli dell’albero di Kachnar. La terra, che nella stasi invernale secondo le antiche conoscenze ha mantenuto il massimo grado di veglia e di fervore germinativo, ora imbastisce la prodigiosa rappresentazione di questo sogno multicolore, dalle eteriche tensioni e vibrazioni. Lentamente, la fase onirica evolverà fino alla saturazione vegetativa dell’estate, che costituisce in realtà il massimo abbandono all’inerzia. Ma ora, coi colori ritorna il movimento, il dinamismo, la ridda giocosa: è il ras-lila, il girotondo che il dio Krishna danza sulle radure dei boschi con le Gopi, le divine pastorelle. Il suo magico flauto attiva tutti gli elementi della natura. Poi il dio dalla pelle blu scende nelle strade e prende parte alle miti e allegre schermaglie della festa di Holi, insieme a Radha, bella come la luna piena, spruzzandosi addosso l’un l’altro acqua in cui vengono stemperati i piú fantasiosi pigmenti vegetali. Anche dalle finestre e dalle altane, donne versano sui passanti polveri variopinte e odorosi petali di fiori. Sfilano intanto cortei preceduti da suonatori di cembali e tamburi e da bambini armati di spade di legno. Portano a bruciare il pupazzo snodato del demone Holika. Soltanto quando il suo malefico simulacro sarà ridotto in cenere, il cupo inverno avrà ceduto il passo alla radiosa primavera.

Leonida I. Elliot

Immagini:
- Marc Chagall Giunone e il pavone
- Krisna prende parte alla festa dell’Holi
Miniatura Kangra, Punjab, India, sec. XVIII

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