Nato a Oberwiederstedt,
in Sassonia, il 2 maggio 1772, Georg Philipp Friedrich von Hardenberg,
in arte Novalis (nome che significa “colui che coltiva la terra vergine”),
è autore di varie opere poetiche, saggistiche e di narrativa misterica,
tra cui Polline, I Discepoli di Sais, Inni alla Notte,
Frammenti e Studi, Cristianità o Europa e Heinrich
von Ofterdingen, rimasto incompiuto per la sua prematura morte. Insieme
a Goethe, Schiller, Hölderlin, Schelling, i fratelli Schlegel e Tieck,
fu tra le figure piú eminenti della cosiddetta Romantik tedesca,
attiva a Weimar, Jena e Dresda.
Morí a Weissenfels
il 25 marzo 1801.
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La diligenza superò le ultime case di Jena mentre il giorno
autunnale lentamente declinava. Novembre accendeva di un gelido fuoco le
dense faggete, copriva di brume le abetaie nel cui intrico lo sguardo del
giovane poeta tentava di penetrare, vincendo il sussultare ininterrotto
della vettura. Lo affascinava il mistero degli alberi, la loro capacità
di scambiarsi l’amore e la vita col polline, di non ferirsi l’un l’altro
col ripudio e l’abbandono, di riparare col tempo ogni lacerazione, coprendola
con nuova corteccia. Gli uomini non erano cosí abili. Le ferite
procurategli dalla scomparsa di Sophie prima, e immediatamente dopo di
suo fratello Erasmus, ancora gli bruciavano: due colpi mortali che gli
avevano portato via una parte di vita. La dolce e saggia Julie tentava
ora di costituire la nuova corteccia da sovrapporre a quelle lacerazioni.
Lo attendeva a Weissenfels con le sue premure, la sua devozione.
A tratti una radura interrompeva la fitta macchia boschiva e una fattoria
emergeva dalla nebbia, operosa come tutte le case rurali della Turingia
e della Sassonia, il grande camino che disperdeva ghirigori di fumo verso
il cielo invisibile. Odori di legna bruciata, di mele fermentate, di muschio
e di radici impregnavano l’aria, penetravano attraverso gli spiragli dei
finestrini, e di nuovo la barriera degli alberi, quel mare silenzioso,
premeva contro il vuoto fangoso della strada. Poi di colpo, improvvisa,
tornò a balenare nella mente del giovane quell’immagine, riproponendogli
lo scenario che quasi ogni notte ormai ricorreva nei suoi sogni, reale,
inquietante e sublime allo stesso tempo. Si vedeva errare per una selvaggia
boscaglia. Superava forre e asperità del terreno. Si inoltrava quindi
in una selva di alberi piú radi, con le foglie che lasciavano trasparire
la luminosità del giorno. Ecco il sentiero inerpicarsi su per una
gola rocciosa, seguendo il greto asciutto di un torrente. Grado a grado
che saliva, la luce diventava piú forte, finché uno dei suoi
raggi illuminava la superficie di un tranquillo lago alpestre, posto nel
vano di una grotta scavata nel monte. Si bagnava in quell’acqua pura e
cristallina e veniva trasportato in una dimensione diversa e remota. Rocce
multicolori si levavano intorno a un pianoro erboso con una sorgente. Fiori
di ogni tinta sbocciavano ovunque, i loro aromi lo inebriavano. Ma soltanto
uno tra essi lo richiamava, si offriva a lui piegando il suo gambo: un
fiore azzurro impregnato della stessa luce turchina di cui riverberavano
le rocce circostanti. Quindi con stupore egli assisteva a una prodigiosa
metamorfosi: le corolle dell’arcana infiorescenza si univano a formare
un tenero volto, lo stelo e le foglie si addensavano a simulare una figura
umana. A quel punto, sempre, il giovane si svegliava.
Anche adesso, un sobbalzo piú forte della vettura interruppe
il suo fantasticare e riscosse i suoi compagni di viaggio. Due robusti
uomini d’affari presero a discutere di dazi doganali e compravendite; il
terzo, un precettore magro con occhialetti, era intento a leggere. Novalis
andò con il pensiero all’amico Hölderlin, adattatosi a insegnare
per vivere, al suo sfortunato amore per Suzette Gontard, la Diotima dei
suoi versi. A causa di quello sfortunato amore stava ancora peregrinando
da qualche parte in Svizzera o in Francia. Gliene aveva parlato Schiller
a Jena. L’incontro con il suo maestro e amico non era stato dei piú
gratificanti, questa volta. L’autore dei Masnadieri appariva deluso
dagli sviluppi che aveva preso la Rivoluzione francese, ma soprattutto
si considerava tradito da Napoleone, che si era appena fatto proclamare
Primo Console, assumendo tutte le prerogative di potere. Un assolutismo
si sostituiva a un altro, e i princípi di Liberté,
Égalité e Fraternité si dissolvevano
sotto i colpi dei cannoni e nel luccicare sinistro delle baionette e delle
sciabole. Ma la cosa piú grave era che la Grande Armée
marciava portandosi dentro il veleno della Dea Ragione, dell’ateismo: l’Illuminismo
razionale dava i suoi frutti. Durante la campagna d’Italia, i soldati francesi
avevano profanato gli altari, depredato le chiese, vilipeso reliquie e
arredi sacri, passato per le armi i sacerdoti, e i contadini insorti si
erano lasciati trucidare, come in Vandea, per difendere luoghi e oggetti
sacri e i ministri del culto.
Chi non sembrava temere Napoleone e le sue armate sacrileghe era Goethe.
Novalis lo aveva incontrato durante l’estate a Weimar, insieme con Ludwig
Tieck. Al contrario di Schiller, l’autore dei Dolori del giovane Werther
provava un sentimento di ammirazione per la stella nascente del generale
còrso. Secondo lui, Napoleone incarnava il demiurgo venuto a scuotere
il sonno del mondo. Portava il fuoco distruttore ma catartico, rinnovatore.
Come una meteora, che sconvolgeva le logore simmetrie di un ordine umano
rimasto fermo alle antiche usanze e conoscenze. Certamente, anche la religione
sarebbe cambiata, e cosí il modo di intendere il rapporto tra uomo
e divinità.
Avevano parlato di questo argomento, e Goethe si era lasciato andare
a una confidenza, quasi un dono dell’anima al giovane poeta che gli rendeva
visita: un episodio del suo soggiorno romano del 1786. Era il giorno di
sabato della Settimana Santa. Fuori pioveva. Solo, nella sua stanzetta
al Corso, attraversava un periodo di profonda crisi. Fuggito quasi clandestinamente
dalla corte di Karl August, doveva decidere della propria vita, e si vedeva
chiuso come in un labirinto. La disperazione lo aveva attanagliato, spingendolo
inesorabilmente verso l’orlo di un abisso. Un nonnulla sarebbe bastato
a precipitarlo nella perdizione. Era stato allora che, mentre un raggio
di sole, squarciando le nubi, illuminava la sua cameretta, le chiese di
Roma avevano sciolto le campane per annunciare la Resurrezione di Cristo
dopo la sua permanenza nel regno infero del buio e della morte. La luce
e l’armonia trionfavano, la disperazione si dissolveva per incanto, l’abisso
si tramutava in un edenico rifugio consolatorio. Cristo lo aveva salvato
dalla perdizione. Era lui, il Risorto, la chiave di ogni speranza e riscatto
umano. Per questa esaltante esperienza, Goethe progettava di inserire l’episodio
nel suo Faust, per volgere tutto il poema in chiave salvifica: la
redenzione cristica dopo il crogiolo di scienza, magia, passione, delitto
e delirio di potenza.
Incoraggiato da questa confidenza, il giovane aveva allora parlato
a Goethe del saggio appena iniziato, Cristianità o Europa,
illustrandogliene il tema di fondo e i princípi ispiratori, rivelandogli
altresí la sua intenzione di proporlo a Schlegel per la pubblicazione
su «Athenäum». Ma Goethe aveva consigliato di attendere
tempi migliori. Troppo espliciti erano gli intenti contenuti nel saggio,
mirante a rivalutare le radici cristiane della civiltà occidentale.
L’opera rischiava di apparire come un’apologia strisciante del cattolicesimo
romano, specie in un paese dove la riforma era ben saldamente impiantata.
Ad un popolo bisognoso di sacralità e prospettive salvifiche, occorreva
invece dare la verità per mezzo di parabole, di allegorie.
In prossimità dei centri abitati la foresta diradava, offrendo
spazio alle colture. Canali tranquilli solcavano i campi, e la pigra corrente
muoveva le grandi ruote dei mulini, giocava con le arcate dei ponticelli
di pietra, rifletteva le schiere ondulanti dei pioppi. Nei cascinali, abili
mani tessevano, cucivano, modellavano vasi e li dipingevano, forgiavano
attrezzi per il lavoro e le necessità domestiche. Quanto sarebbe
durato ancora quel mondo, non certo perfetto ma comunque avido di armonia
e di giusto benessere? Nella vicina Slesia, le miniere fornivano metalli
ormai quasi soltanto per fabbricare armi da guerra, e le macchine a vapore
da poco introdotte in tutte le attività dell’industrializzazione
nascente acceleravano una produttività volta alla distruzione. Il
fiato del drago materialistico alitava ormai su tutta l’Europa e molto
presto sarebbe arrivato sulla vita ancora idillica della sua Turingia e
dell’austera Sassonia. Egli voleva, doveva, chiudere quel mondo in un’arca
di parole, conservarlo per il dopo, quando il mostro ateo e positivistico
avesse esaurito il suo fuoco inquinante. Ma non voleva farne un reliquiario
inerte, cristallizzato, bensí lo scenario prodigioso, segnato dall’onnipervasiva
sostanza trascendente, nel quale un personaggio avrebbe percorso un cammino
iniziatico, per giungere a quell’esito di redenzione cristica di cui aveva
parlato Goethe. Il suo protagonista, al contrario del dottor Faust, sarebbe
stato un giovane non disilluso dalla vita ma amante di ogni aspetto dell’esistenza,
incantato dai misteri della natura, proteso alla ricerca del bello e del
sacro, disposto a ogni esperienza, purché mirante alla scoperta
dell’essenza divina di cui ogni creatura e tutti gli elementi cosmici vibravano.
A Jena aveva incontrato di nuovo Tieck, il poeta suo coetaneo, che
scriveva fiabe ambientate in un Medioevo germanico popolato di saggi animali
parlanti, di gnomi, folletti e fate. Ecco, fondendo le aspirazioni di Goethe
e di Tieck, egli avrebbe creato un personaggio consapevole della propria
potenzialità divina, intento a compiere un viaggio all’apparenza
fisico ma nella realtà misterico e metafisico, passando per le vicissitudini
piú disparate, incontrando gli esseri piú straordinari, consumando
lungo la via tutta la materialità di cui l’uomo comune è
gravato, fino a ricavare, dalla ruvida ganga di un’anima protesa alla ricerca,
la gemma della realizzazione spirituale. Soltanto allora quel personaggio,
libero, purificato sin nella piú segreta essenza, avrebbe potuto
cogliere il fiore azzurro di cui risplendeva il suo perenne sogno.
L’abitato di Weissenfels si disegnò in lontananza, col profilo
a lui familiare delle case raccolte intorno alle sagome protettive della
torre municipale e della chiesa. La nebbia, che ora scendeva col suo velame
rugiadoso e scuro, aveva un che di ovattato e leniente per gli uomini avviati
alla pace serale e al riposo notturno, non conteneva alcuna minaccia di
tenebra e oppressione né per i buoni e devoti abitanti della sua
terra né per quelli di tutte le contrade del piú vasto mondo.
Poiché, in fondo alla rovina delle guerre, alla prevaricazione e
oppressione dei despoti, alla dissacrazione di ogni valore morale e spirituale,
brillava la stella adamantina del Cristo. E ogni uomo avrebbe colto il
proprio fiore interiore al termine del percorso verso quel puro ed eterno
splendore. Il cuore del giovane poeta formulò un nome, le labbra
lo assecondarono all’unisono: Heinrich… Era nato l’eroe di una favola portentosa,
e già procedeva nel mondo, armato di innocenza e fede, pronto alla
meraviglia e al prodigio, avvinto al mistero arcano della poesia: l’uomo
che negli Inni alla notte egli aveva descritto come «il glorioso
viandante, colmi gli occhi di vita, leggero il passo e le labbra socchiuse
ricche di suoni…». Una creatura a sua volta creatrice, permeata di
Spirito, la quale, avendo realizzato l’Io interiore, «ogni essere,
con la sua celeste immagine avvolge, e la cui presenza unica rivela l’incanto
del reame della Terra» e che, come aveva profetizzato nella frase
conclusiva di Cristianità o Europa, egli riteneva capace di «trasformare
tutto ciò che è terrestre in pane e vino di vita eterna».
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