IL RACCONTO

OLTRE IL GIARDINO

n giovane apprendista di un monastero Zen in Giappone era molto zelante nello studio della dottrina dell’Ottuplice Sentiero, nella recita dei sutra, nella ripetizione delle sacre sillabe dei mantra e nella pratica della meditazione. Si impegnava altresí a fondo nell’assolvere ad ogni mansione pratica affidatagli quotidianamente dall’anziano Maestro che lo istruiva.
Quel giorno toccava alla pulizia del giardino. Era un compito che necessitava di grande cura e attenzione, dato che non si trattava di un giardino comune, ma di un luogo nato come espressione ideale, sul piano terrestre, di uno spazio celeste, atto al ristoro della mente, delle membra e del cuore. La superficie non era vasta, ma molto differenziata. Vi cresceva una vegetazione che, se pure ben ordinata, appariva spontanea. Faggi e betulle svettavano alti, sovrastando edere e felci, e specchiandosi in un fiumicello. Brevi radure si alternavano a fitti cespugli. Grandi pietre levigate dall’acqua sembravano montagne in miniatura. L’autunno inoltrato aveva cosparso il terreno di foglie gialle e rossastre che le abbondanti piogge degli ultimi giorni avevano ammassato.
Bisognava tutto ripulire, badando a sradicare le erbacce che insidiavano, con il loro disordinato moltiplicarsi, l’armonia dell’insieme. Anche il ponticello in legno che congiungeva le due rive erbose era invaso da foglie e pietrisco. Occorreva liberarlo dalla vegetazione marcescente, perché rischiava di diventare sdrucciolevole. Su quel ponte transitava spesso il Maestro, durante le sue solitarie passeggiate all’aperto. Il discepolo l’aveva visto incamminarsi verso l’altra sponda, ma a metà strada si era sempre sottratto alla sua vista, per ricomparire dopo un certo tempo senza che si potesse scorgere da dove. Il giovane non aveva fatto domande, ma aveva compreso che quel ponte congiungeva due dimensioni, delle quali una gli era ancora preclusa. Molte volte egli vi si era avventurato, ma nulla era successo: aveva solo raggiunto l’altra riva, che in nessun modo si differenziava dalla prima.
La giornata di alacre lavoro, iniziata all’alba, era trascorsa velocemente sarchiando, rastrellando, riordinando. Nel pomeriggio inoltrato, il luogo appariva trasformato. Tutto era pulito, netto. Nulla sembrava piú offrire all’occhio l’immagine d’abbandono che solo poche ore prima emanava dal giardino. L’anziano monaco uscí all’aperto per osservare l’operato del suo allievo. Stette un po’ in silenzio, poi si avviò lentamente verso un grande albero rosseggiante al sole del tramonto. Scosse un ramo basso, poi un altro. Una pioggia di purpuree foglie si riversò sul terreno sottostante. Il Maestro si allontanò, poi tornò ad osservare. «Adesso è perfetto», disse, e si avviò sul ponte, celandosi alla vista del discepolo.
Nei giorni che seguirono, il giovane apprendista aveva meditato a lungo sull’importanza della “naturalezza” di un paesaggio rielaborato dall’uomo, finché giunse a sentire in sé la bellezza dell’eterno divenire di nascita, sviluppo, decadenza, trasformazione e rinascita. Il Maestro non gli aveva assegnato compiti pratici, ma solo consigliato una quieta e raccolta osservazione della vegetazione, nel giardino ora cosí ben curato. Quel pomeriggio, un riverbero di sole traspariva tra le foglie degli alberi, facendole accendere di barbagli d’oro. Il ragazzo aveva contemplato per ore, immobile, la natura che lo attorniava. Ad un tratto gli sembrò di scorgere, oltre il ponte, un paesaggio circonfuso d’un chiarore ineffabile. Si alzò e prese a camminare, lentamente. Il Maestro si era affacciato alla soglia del monastero. Lo guardò allontanarsi, giungere a metà dell’arcuato ponticello, scomparire nella luce.

Gemma Rosaria Arlana

Torna al sommario