Paracelso elaborò
la cosiddetta “teoria della segnatura” sostenendo che in ogni pianta il
Creatore avesse inserito dei segni dai quali era possibile dedurre le virtú
medicinali. A sua volta Goethe, ispirato dalle ricerche di Linneo, si dedicò
allo studio della forma delle piante superiori (morfologia) col proposito
di individuare in esse un eventuale
collegamento con la pianta primordiale, la Urpflanze, procedendo
in una sorta di esame a ritroso della metamorfosi evolutiva affrontata
nei millenni da ciascuna specie, nel tentativo appunto di risalire alla
pianta primordiale, all’archetipo vegetale da cui tutte dovrebbero discendere,
e pertanto anche all’individuazione del Fattore, ossia dell’Ente supremo
che aveva dato avvio alla vita cosmica. Ai procedimenti della ricerca naturalistica
e della botanica morfologica, Goethe univa la genialità e la fantasia
del poeta, oltre all’intuito trascendente dello spiritualista immerso nello
studio dei fenomeni della natura e del loro nesso con l’anima e la morale
degli uomini. Non a caso Rudolf Steiner lo definiva “il Keplero e il Copernico
del mondo organico”. L’oggetto della sua ricerca mirava a studiare e sceverare
non il divenuto, ma il diveniente, non il formato ma il formante, non il
caduco ma l’imperituro, e all’inizio di tutto la legge formatrice, il vivente
primordiale, l’essere: una entità archetipica che passa dalla sfera
delle forze soprasensibili alla realtà fisico-materica attraverso
un sublime e complesso meccanismo di espansione e contrazione, effusione
e ritrazione, manifestazione e occultamento. Cosí è la sequenza
dalla semente contratta alla gemma, alla foglia espansa, al calice contratto,
al fiore espanso, al frutto e al seme contratti. E la vita poi ricomincia.
Ma benché la teoria
di Goethe delle metamorfosi vegetali rappresenti una pietra miliare sulla
strada della “scienza della vita”, essa non individua né spiega
le virtú medicinali, il rapporto tra le piante e l’uomo e in particolare
il loro valore terapeutico rapportato agli organi anatomici e al metabolismo
umani. Rudolf Steiner doveva colmare tale lacuna scoprendo e stabilendo
relazioni fondamentali tra la pianta e l’uomo. In particolare mettendo
in luce la polarità archetipica alla base della vita non solo vegetale.
Nei suoi studi sulle piante tripartite e sull’uomo tripartito e sul processo
foliare e il sistema ritmico dell’uomo, Steiner evidenziava proprio il
fenomeno base che governa le relazioni tra la costituzione fisiologica
dell’uomo e la struttura delle piante: il rapporto tra la vita vegetale
e la respirazione umana, e tra i processi linfatici della clorofilla e
dell’ematina del sangue umano.
In una conferenza del 1923
tenuta a un congresso medico, Rudolf Steiner tracciò il progetto
di una nuova farmacologia: «La bella natura che vediamo intorno a
noi non è che l’imitazione dei processi morbidi. Nell’uomo ci sono
processi morbidi interiori, e fuori di lui la natura meravigliosamente
bella. Bisogna capire la relazione tra loro e sapere come portare nell’uomo
delle forze esterne, in realtà patologiche, capaci di porre rimedio
ai disturbi delle sue componenti soprasensibili». Come potrebbero
tali sottili e sublimi intuizioni riguardare l’aloe, e in che modo stabilire
una relazione tra questa ruvida e selvatica specie vegetale e l’interiorità
umana?
Fra le Liliacee l’aloe è
la specie piú vigorosa, pervasa dagli influssi di Giove e Marte.
A una corteccia dura, disadorna e irta di aculei oppone al suo interno,
nei tessuti di riserva, ricchezza di linfe e di liquidi odorosi che essa
elabora attraverso l’accumulo eterico. Cresciuta in terreni aridi, concentra
ogni sua energia nel corpo vegetativo, tutto sacrificando a quell’unica
finale esplosione floreale, lussureggiante parossismo di fuoco magmatico
e sulfureo. Questa sua peculiarità di fiorire una sola volta e poi
disfarsi tra le sabbie desertiche e le aride rocce calcinate dal sole tropicale
o mediterraneo, cedendo ogni sua sostanza alla terra avara, ha conferito
all’aloe e all’agave da sempre ad essa accomunata, il ruolo di simboleggiare
l’unigenitura del Cristo. La
sua linfa, variamente impiegata in farmacopea da tempi remotissimi, valeva
anche come allegoria di vita eterna, in quanto i succhi da essa estratti
venivano adoperati dagli Egizi per l’imbalsamazione dei cadaveri di cui
impedivano la decomposizione. Sappiamo che il corpo di Gesú venne
trattato, prima della sepoltura, con aloe e mirra.
I popoli semitici la definivano
halal, l’amara, i Greci alóe, e davano lo stesso nome
alle feste in onore di Dioniso e Demetra celebrate ogni anno ad Atene ed
Eleusi. L’aloe veniva intensamente coltivata in Messico e nello Yucatan
da Maya e Aztechi per ricavare dalle sue gemme fiorifere la bevanda che
accompagnava i riti collettivi, in grado di favorire l’ebbrezza estatica
e la chiaroveggenza. Personificazione femminile dell’agave-aloe era la
dea Mayahuel, dispensatrice del succo divino octli, capace di infondere
agli umani energie sublimative e doni di fecondità e fertilità.
Scadendo l’antico sapere nelle pratiche di magia e di volgarizzazione del
sacro e del misterico, l’octli, fermentato, doveva acquisire nel
tempo proprietà alcoliche, trasformandosi nell’attuale bevanda mercificata
del pulque, tuttora molto in uso presso le popolazioni mesoamericane.
Collegato all’aloe, ma unicamente
per via etimologica, in quanto amaro, era il mitico “legno d’aloe”, o “legno
aquilario”, detto agàlloco. Dotato di poteri arcani, odoroso se
combusto, veniva adoperato per le fumigazioni magiche, gli esorcismi e
le malíe. I suoi tronchetti galleggiavano nei fiumi e si raccoglievano
in determinati periodi dell’anno, favoriti da propizie congiunzioni astrali.
In uno dei piú celebri
trattati del Medioevo, Liber de simplici medicina, conosciuto anche
come Circa instans, del medico salernitano Mattheus Platearius vissuto
nel XII secolo, vengono descritte le proprietà farmacologiche e
le virtú terapeutiche delle piante, dei minerali e delle sostanze
animali. Riferendosi al magico legno di aloe, Platearius riteneva che esso
crescesse “nelle foreste di Babilonia”, e da qui, fluttuando nei leggendari
rivi da cui la mitica città era attraversata, raggiungesse i corsi
d’acqua grandi e piccoli del mondo intero.
Ben altre virtú nascoste
dell’aloe ci rivela Wilhelm Pelikan(1),
quando spiega che la loro segnatura cosmica le rende “gocce vive”, “globi
acquosi”, che evolvono da uno stadio mercuriale a uno solforico, e quindi
dallo stato liquido a quello aereo. Poco legate al processo terrestre,
non si mineralizzano, tendono a smaterializzarsi. Lo zolfo, permeando l’albumina
contenuta nella succulenza di queste piante, ne volatilizza le essenze,
sino alla radianza finale della fioritura che mantiene il retroaroma solforoso
nelle infiorescenze della specie. Albumina e zolfo formano, secondo Steiner,
la sostanza «con la quale lo Spirito si bagna le dita» per
modellare la vita.
Pelikan afferma a tale proposito
che gli alimenti liquidi sono meglio assimilati dal corpo eterico e da
questo veicolati verso il processo costruttivo; in seguito vengono passati
alla parte del corpo astrale che agisce nel metabolismo e poi lasciati
alla respirazione interna dei tessuti. Quando l’organizzazione dei liquidi
è bloccata patologicamente (ritenzione), l’aloe riesce a sciogliere,
schiarire e distendere il processo infiammatorio che ne deriva, espellendo
i liquidi in eccesso. Le azioni terapeutiche delle Liliacee sono enfatizzate
dall’aloe e agiscono piú a fondo. Esse tonificano e attivano il
metabolismo. La forte vitalità di questa pianta si unisce a una
sulfurizzazione ben organizzata, alla quale si aggiunge l’azione del calore
dell’ambiente in cui essa cresce. Riunendo attivamente le componenti umane
dissociate, essa stimola la rigenerazione, calma il dolore, accelera la
ricostituzione dei tessuti.
Nel passaggio dallo stato
mucillaginoso a quello floreale, dalla goccia impregnata d’albumina al
fuoco sulfureo dell’infiorescenza, il processo vitale dell’aloe soggiace
alla legge formale dell’esagono regolare, della stella a sei raggi. Dalla
goccia all’esagono, dall’acqua al cristallo rappreso del fiocco di neve,
che all’ispezione tale esagono rivela. E dunque, il cerchio e l’esagono
strettamente uniti in intima relazione, cosí come la pianta è
chiusa in basso nella forma globosa del bulbo ma dirama e si espande nella
geometria esagonale dei suoi organi superiori culminante in stellate esuberanze
florali. L’essenza archetipica del giglio, alla cui famiglia l’aloe appartiene,
discende dal cielo, sotto forma di un astro che trasforma la sua fredda
arcana purezza in ardente materia vitale.
(1)W.
Pelikan, L’homme et les plantes médicinales, Vol. I, Triades,
Paris 1962
Immagini:
- La “segnatura” dell’aloe secondo Wilhelm Pelikan
- Robinet Testard — La raccolta dell’aloe Miniatura a soggetto
su pergamena, facente parte del corredo illustrativo del Codice naturalistico
Le livre des simples medecines, Francia, sec. XV trad. dal latino
in francese del trattato di Platearius
- Aloe ferox in piena fioritura Segnale di vita in ambienti dove
la vita sembra negata, l’aloe è memoria di un’epoca embrionale dell’evoluzione
terrestre e del divenire vegetale
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