POESIA

Era venuto da Sidone in nave,
pagando il suo passaggio coi responsi
che traeva dai segni delle stelle,
e il capitano prima di sbarcare
gli aveva regalato due sesterzi
perché se li godesse al termopolio
e nei bordelli, se gliene avanzava.
Un marinaio lo scortò alla riva
e sogghignò nell’augurargli «Vale»,
affidandolo a Bacco e alla dea Venere.
A ben pensarci, era un soggetto strano
quel viaggiatore, specie d’indovino
che interpretava il volo degli uccelli
prevedendo schiarite e fortunali,
e aveva gli occhi di bagliori accesi,
oppure senza fondo, come il mare.
E se guardava, ti leggeva dentro.
Tornava a casa dopo un lungo tempo
Fausto Liburno, figlio di Marcello,
vissuto in India, Egitto, Grecia e Persia,
frequentando le scuole dei Misteri.
In Palestina aveva visto un uomo
ricevere la morte per amore.
Baciò la terra presso il decumano
e diede le monete a un mendicante.
Trasse l’acqua da un pozzo, colse un fico,
annodò stretti i lacci dei calzari,
passò davanti ai templi degli dèi
romani, sfavillanti d’ori e stucchi,
Cerere, Marte, Giove, e ai santuari
delle divinità dai culti arcani,
Iside, Mitra, Tanit ed Astarte.
Notò gli infermi al valetudinario
di Serapide, nume guaritore.
Ignorò le taverne e i lupanari.
Udí ruotare macine ai mulini,
i mantici ansimare alle fucine.
Gli giunse il canto delle lavandaie
intente a risciacquare toghe e pepli,
il grido dei tintori alla fullonica
e il loro cadenzato trepestio.
Ostia ferveva di ricchezze e lusso:
terme, botteghe, fondachi e mercati,
alitando quei fremiti di vita
a lui, stupito come uno straniero.
Era tornato povero di panni,
leggero di bisaccia e di scarsella,
ma dentro aveva un regno di parole
per infiammare gli uomini di luce.
Prese la via dell’Urbe a passo lieve:
portava a Roma la semente nuova.

Fulvio Di Lieto
da Spazi di fuga, Il Ventilabro, Roma 1994

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