IL VOSTRO SPAZIO

Col piede ho calpestato il suolo sacro
che un tempo accolse Olimpia ed i suoi templi,
udí le grida delle genti antiche
accorse per assistere alle gare,
e sotto il passo del trionfatore
fremette per il peso della gloria.
A Sparta ho visto il cardo traditore
punger le pietre immerse nell’oblio,
mèmori di Leonida e Licurgo,
di fama conquistata col sudore,
sangue sul petto, spada contro spada,
in nome dell’onore e della patria,
e ho pianto per un odio secolare
che tanto fuoco ha osato ricoprire
di polvere, d’erbacce e parassiti,
senza capire che la brace cova
e fiduciosa attende tempi nuovi
per ritornare a vivere nei cuori.
Ho camminato poi fino ad Atene,
dove mi ha torturato il raccapriccio
per la sconfitta della Gran Maestra,
che i barbari respinse con orgoglio
nella difesa della civiltà
ed ora, abbandonati scudi e lance,
non ha piú opliti a guardia delle mura
per un assalto ormai spropositato
di genti grette, di dissacratori
giunti fino all’Acropoli a milioni,
senza pietà e rispetto per la Madre
che ci ha insegnato il poco che sappiamo
e tanto ancora ci ha spiegato invano
vedendo farsi vento le parole.
Sono fuggito in mare verso Creta
per riscoprire le radici arcaiche
e a Cnosso e Festo numi m’han guidato
fino ai giardini ormai dimenticati
nascosti dalle pietre colossali,
bagnati dalle acque delle fonti
in cui le ninfe avevano ristoro.
Con forze nuove indietro ho navigato
per giungere sui monti delle Muse
da pellegrino, senza sacrifici
offerti in cambio della loro Grazia.
Nel tempio del dio Apollo, presso Delfi,
preghiere dal mio spirito ho innalzato
e ho chiesto il vaticinio della Pizia
che, pur tacendo i fatti del futuro,
m’ha suggerito d’essere paziente
perché il destino non tradisce l’uomo,
la verità rimane nella Terra
e può scoprirla chi l’ha meritato,
in ogni tempo, in ogni circostanza,
qualunque sia il rancore dell’ilota,
qualunque sia dello straniero l’arma,
dell’ateo greve la denigrazione.
Ed ora, sulla strada del ritorno,
non temo piú per te, Grecia degli avi,
che ci hai insegnato il poco che sappiamo,
perché altre cose un giorno impareremo
leggendo sui tuoi templi i segni occulti
che oggi non decifra l’occhio umano.
Del mio timore resta un fumo lieve
che dalla nave sale verso il cielo.
da: L’Archetipo, II, 3, 1989
Donami ancora
la parola che placa
e trasforma la pena
in forza e luce
che costringa i miei giorni
a nuovo e duro
ordine di pensieri
e azioni chiare.

Non più vago ondeggiare
di ricordi
non più pena soverchia
nel sentire.

Saprò mai farlo?
Appena ora è l’inizio
di un tempo nuovo,
ricco di volere
e agire conseguente,
sul metallo
oscuro e opaco
degli anni passati.

Ho nelle mani
un ramo inaridito,
tremante ancora
di un’eco lontana;
ma non odo, non vedo.

È cogliere l’Archetipo vivente,
elaborare un metodo:
nulla a che vedere, ahimè,
con la dialettica ed il filosofare su di sé,
impedimenti in ver da “non vedente”.
Se a questi poi aggiungi l’Io dormiente
circa il “soggettivo” modo,
grande pericolo c’è:
più che i “difetti” son le “qualità” che incatenano il Sé
ad un falso apparire “indipendente”.
Ma tu sorprender puoi il “Pensiero-Essenza”,
qui sta il segreto:
immetter Volontà nella Coscienza.

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