Siamo tutti veggenti. Il vedere
è infatti un’attività spirituale anche quando si rivolge
al mondo fisico. Siamo convinti che il mondo fisico sia “quello vero e
unico” soltanto perché la potenza delle immagini è molto
forte: il mondo fisico contiene in sé una volontà di potenza
che ci obbliga a vederlo. Il mondo fisico è una vera rivelazione
perché non lo conquistiamo ma ce lo troviamo davanti. Chi vuole
cominciare a percepire altri mondi, deve allora operare una sorta di rivoluzione
copernicana, un ribaltamento. Deve cominciare innanzitutto a considerare
il piano fisico sensibile esattamente come considererebbe una “visione”,
una rivelazione. Quando ci si trova davanti ad una potente rivelazione
sorge immediatamente in noi il senso della meraviglia e la forza di essa
ci ammutolisce.
Dovremmo cercare di guardare il
mondo fisico, almeno in alcuni momenti della giornata, esattamente in quel
modo. Occorre essere desti e gli esercizi servono proprio a questo: alla
potenza dell’apparire sensibile possiamo contrapporre, mediante quanto
sviluppiamo negli esercizi, la forza di un silenzio che osserva, che si
pone per cosí dire fuori dagli eventi e ne può seguire la
piú minuta conformazione dandole un valore che implica una destità,
la quale non si lascia assopire dalla forza dell’apparire del mondo. Osserveremo
allora che la realtà dalla quale partiamo, e che è quella
di tutti i giorni, rispondente al livello di coscienza attuale, cela in
sé un aspetto che prima non conoscevamo. Emerge sottilmente quello
che Colazza chiamava un “sentire”. Che è il vero sentire. Il sentire,
infatti, non dovrebbe limitarsi ad essere espressione sognante dell’anima,
ma dovrebbe diventare un organo di conoscenza perché, come manifesta
in ogni momento l’intima vita del nostro essere interiore, dovrebbe parimenti
manifestare l’intima vita di quanto ci sta di fronte come altro da noi.
Possiamo allora in certo modo ascoltare questo sentire.
Possiamo spostare l’osservazione
dall’apparire, accolto nel modo che abbiamo visto, al sentire che sorge
continuamente in noi di fronte alle cose. Potremmo cosí sviluppare
un “udire” intimamente quanto le cose vogliono dire. Avremmo, per rari
e brevissimi momenti, la consapevolezza che esiste un linguaggio delle
cose e che esse sono soltanto una sorta di scrittura. La scrittura è
sempre composta da simboli e per questo, dunque, Goethe aveva ragione quando
affermava che tutto l’effimero è soltanto questo. Non appena cominceremo
a “udire le cose”, l’immediato apparire fisico di esse perderà il
suo potere di incantamento e passeremo dalla loro gravità alla manifestazione
di quella che potremmo chiamare la loro intima voce.
Si può però fare
un ulteriore passo avanti. Ci si può comportare, nei riguardi di
questo udire, nello stesso modo col quale ci siamo comportati nei riguardi
dell’apparire. Si può cominciare a lasciare la presa su quanto quel
sentire, cosí modificato, ci sta dicendo per avvertire invece l’essere
che parla dietro le cose o dentro le cose. Non appena riusciremo a farlo,
ci accorgeremo che le cose non sono fuori di noi e non sono nemmeno dentro
di noi, non sono un fatto oggettivo come lo intende un materialista ma
neanche un sogno della nostra anima. Siamo allora intimamente connessi
alle cose, guardiamo la realtà partendo da esse e ci accorgiamo
che dietro al mondo fisico c’è un altro mondo.
Dobbiamo insomma comportarci come
se il mondo fisico fosse una visione, una rivelazione spirituale potente
che si impone da sé alla nostra percezione. Ma per poterlo fare
il mondo fisico deve contenere in sé un altro mondo che necessariamente
deve essere simile alla nostra intima vita dell’anima, ché altrimenti
non potrebbe avere alcun potere sulla nostra coscienza. Il Mondo Spirituale
invece lo dobbiamo conquistare sapendo che la forza per percepirlo deve
partire da noi. Comunemente si crede invece che il mondo fisico vada abbandonato
per poter accedere al Mondo Spirituale che dovrebbe colmarci della sua
realtà. Se cosí avvenisse, però, se il Mondo Spirituale
si comportasse come il mondo fisico si comporta in ogni momento con la
nostra coscienza, ne resteremmo storditi, non potremmo assolutamente sapere
cosa stiamo vedendo.
Lo stesso rovesciamento può
essere compiuto riguardo al volere. Il secondo esercizio risulta essere
il piú difficile da realizzare. L’azione pura sembra sempre estremamente
banale e spesso a ragione ci accorgiamo che in realtà essa diventa
un’abitudine che non manifesta alcuna forza, alcuna modificazione della
nostra struttura interiore. Si può però aggiungere alla determinazione
all’azione qualcosa
che troviamo sempre nella vita e sempre con dispiacere! Accade che ci venga
imposto un obbligo, un dovere. Questo molte volte è gravoso e del
tutto contrario sia ai nostri interessi che ai nostri desideri. La volontà
viene immediatamente diretta alla ribellione, al rifiuto. Spesso ci obblighiamo
a eseguire un tale compito perché consideriamo vantaggi e svantaggi
di esso e perché ci rappresentiamo il momento nel quale esso dovrà
pur essere finito e magari, dopo, potremo passare delle ore piú
piacevoli…
Proviamo invece a considerare
un tale obbligo come un esercizio. Davanti all’immediata risposta negativa
dell’anima di fronte alla richiesta perentoria dei nostri superiori, o
di chi comunque ci impone quel compito, freniamo per un attimo la reazione
negativa e cerchiamo di volere quell’impegno come se fossimo noi a determinarlo.
Dovremmo cercare di vedere il compito imposto come un’occasione per esercitare
la nostra volontà in cosí alto grado da rovesciare completamente
l’apparire dei fatti: siamo noi a volere quell’impegno, quel lavoro e,
per cosí dire, lo imponiamo all’altro che apparentemente ce lo ordina.
È evidente quanto sia difficile
realizzare una simile posizione e infatti a tutta prima non ci riusciremo
affatto. Lentamente però ci accorgeremo che riusciamo a compiere
questo rovesciamento per un attimo, per una frazione infinitesima di tempo.
A poco a poco questo tempo si dilaterà sino a che l’intero lavoro
verrà da noi compiuto non per dovere né per quel continuo
ricatto che sembra legarci alle cose ma per una intima forza. Il che, naturalmente,
non dovrà fare di noi degli esseri proni a qualsiasi richiesta ci
venga fatta! Ricordiamo sempre che qualsiasi esercizio è dato all’uomo
per l’uomo e non deve mai avvenire il contrario. Possiamo metterci nella
posizione indicata riguardo ad un ordine spiacevole che ci può essere
dato ma possiamo sempre, in un momento successivo, decidere se e come realizzarlo.
Questi semplici esercizi non devono
farci dimenticare gli esercizi dati dal Dottor Steiner e che Massimo Scaligero
ci ha insegnato a fare. Essi però si avvicinano ancora di un passo
alla nostra situazione attuale, che non è piú quella dei
tempi del Dottor Steiner e nemmeno quella degli anni durante i quali Massimo
Scaligero poteva aiutarci con la sua presenza. Senza i 5 esercizi e la
concentrazione non sarebbe possibile, infatti, muoversi in modo corretto
nei riguardi di quanto osservato sopra. Agire nella vita di ogni giorno
presuppone possedere una forza che non può essere innata ma che
deve essere conquistata. Cosí come il bambino deve muoversi ed esercitare
il suo corpo al fine di potere un giorno modificare la realtà che
lo circonda mediante le sue azioni, anche semplicemente spostando un oggetto
da un luogo all’altro, parimenti noi dobbiamo sviluppare delle forze che
ci permettano da un lato di cominciare a vedere qualcosa che non sia il
solo mondo fisico e dall’altro ad agire in modo da dominare quest’ultimo
e non già esserne dominati.
Occorre però decisamente
cominciare a muoversi in questa direzione. Non può bastare chiudersi
in una stanza e meditare, occorre che quanto sviluppiamo in noi per mezzo
di quelle meditazioni diventi forza operante. La forza operante non va
confusa con un attivismo che è quasi sempre una forma di caduta
delle forze, come se queste dovessero diventare oggetti percepibili soltanto
mediante gli organi fisici. L’attivismo contiene sempre in sé la
brama di chi si sente escluso dal mondo e vorrebbe partecipare a quella
realtà che invece dovrebbe capire. Qui si tratta invece di agire
nel mondo partendo dalla sua intima struttura, dall’incontro con la sua
vera realtà, la quale non può mai dominare la coscienza ma
deve invece da questa essere incontrata: “con-presa”.
Immagine: «Splendor solis» di S.
Trismosin, sec. XVI – L’androgine tiene in una mano l’uovo della vita
e nell’altra lo specchio della coscienza
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