INCONTRI

Un poeta, solo nella sua stanza fredda e lontana, trasse dalla cartella un foglio bianco e si accinse a comporre dei versi, come usava fare quando il tempo lo invitava a lasciar libera l’anima di sognare. Ma quel poeta era infelice, amava invano una donna che proprio non poteva ricambiare il suo sentimento.
Per quanto si sforzasse di trarre fuori dal suo cuore la poesia, il poeta non ci riusciva e guardava disperato la vuota pagina bianca che gli stava davanti, e intanto cresceva in lui un sottile dolore che andò aumentando sino ad esplodergli dentro e allora, di getto, scrisse queste parole:
«Oh mia pagina bianca! Quante parole nascondi, quante rime, e il tessere dei pensieri che dall’uno all’altro si slanciano come i gabbiani e inseguono le aeree correnti del vento.
Oh mia vuota pagina bianca! Intingerei la penna volentieri nel fondo del cuore a distillarne la rossa goccia che vi scorre, cosí che a macchia a macchia formasse il disegno del volto di lei, come sulla candida neve vide Parsifal il volto dell’amata. E silenzioso resterei a contemplarla, lasciando con un colpo d’ala la pesantezza del mondo.
Oh mia silenziosa pagina bianca! Bianca di quel silenzio che cela il segreto nascosto in fondo all’anima, dove non trovo piú parole per cantare il mio amore. Il mio amore che non c’è, il mio amore perduto, il mio amore invocato nelle notti insonni e nel verde rifugio dei campi.
Oh mia dolorosa pagina bianca! Tu che non dai conforto nel tuo vano e vuoto candore, come il freddo cielo d’inverno. Non c’è fuoco che muova la mia passione in immagini di forza, non c’è dolcezza di tepore primaverile appena sfiorato dai raggi del sole al sorger del mattino, che mi nasconda il vero: lei non esiste, lei non ci sarà.
Oh mia terribile pagina bianca che invochi parole e versi! Non scorgo venirmi incontro, dal lontano orizzonte dove si curva il mondo, il conforto del pianto. E tu, tormentoso ricordo, mi togli la speranza. Oh, fosse bianca come questa pagina la mia memoria cosí che non potessi ricordarla! Oh potessi perdermi nel tuo candore cosí da non vederla mai piú a ricordarmi che non merito il suo amore!»
Lasciò cadere la penna e si curvò sul foglio. Si abbandonò al dolore sino ad una profondità che non aveva mai conosciuto. Il dolore si piegò su di lui, lo coperse d’un velo di nero silenzio. E sprofondò di piú e di piú dove non era mai giunto, dove la vita viene dimenticata, dove la morte sembra temere di entrare. Ed il silenzio divenne realtà, fu tessuto di forza come la forza delle cose del mondo. Ed aveva, quel silenzio, venti impetuosi e salde roccaforti, oceani percorsi da altissimi flutti e montagne innevate e fiumi e valli. Può mai il silenzio diventare mondo? Può il vuoto intervallo tra le parole che si inseguono nella rumorosa coscienza superare il loro fragore ed allargarsi all’infinito sino a colmare l’Universo d’una sola Parola? Può il silenzio diventare l’infinita sorgente dei pensieri e i pensieri delle frasi e le frasi della poesia?
Laggiú, affidato al silenzio, il poeta si risvegliò.
Era azzurro il cielo che vide, e vide curvarsi i rami degli alberi, in alto, come infinite mani giunte in preghiera e, in basso, i tronchi percorsi da rughe profonde e le radici sporgenti dalla terra verde e nera, umida e di trasudante umidore profumata, e chiazze di neve bianca come la sua pagina perduta, e pozzanghere grigie o azzurre, come pennellate, come pezzi d’infiniti specchi rotti e sparsi qua e là. Camminò e giunse in una radura circondata da rovi senza foglie. Nel centro c’era un albero caduto e su quel tronco nero d’umidità stava seduta una giovane donna che leggeva, il viso nascosto dietro un grande libro.
«Mia signora – chiese il poeta – dove mai mi trovo, dove son precipitato guidato dal dolore?»
«Poeta, sei giunto a me per la via piú difficile e piú ardua, quella percorsa dai lampi della sofferenza».
«Chi sei tu, e perché sei qui anche tu?»
«Io sono colei che ti ispira silenziosamente, leggendo le tue poesie nelle pieghe nascoste dell’anima, prima che tu ti accorga di immaginarle, di pensarle e scriverle».
«E questo mondo? Dove siamo?»
«Questo è il tuo cuore, che credevi colmo di sentimento e di vigore, invece, come vedi, siamo nel colmo dell’inverno, e nemmeno addolcisce il paesaggio il soffice contorno della neve».
«Sono io dunque cosí, è questa la mia realtà? O non è forse il sogno del dolore di non avere lei, la mia luce, il sole che recherebbe calore di primavera a questo mondo?»
«No, tu poeta, non sei questo. Questo freddo non ti appartiene, ma tu vi dimori spesso senza avvedertene, perché resisti al dolore e non lasci ch’egli ti trasporti, come vela sul mare spinta dal vento, sino a farti risvegliare».
«Solo dolore dunque? Solo il dolore è il pane della poesia e dell’arte? Mille morti e mille rinascite, sperare per cadere, illudersi per ritrovarsi costretti a guardare?»
«Oh no – disse lei sorridendo – no mio poeta! C’è anche il silenzio, quando gli occhi non riescono a distillare l’acqua del tuo dolore, quando, prima che questo avvenga, ammutolisci il rincorrersi dei pensieri nel cuore, e il ribollire del sentire si calma nella quiete. Non t’è chiesto dalla Poesia di soffrire! Sei tu che soffri, mentre dovresti rinunciare al sottile piacere del dolore e cercare me. Allora io ti leggerei il mio libro d’infinite parole, e tu sapresti».
«Saprei forse che tu, dolcissima fanciulla, sei l’angelo della poesia? La musa ispiratrice, quella vera, che mai si veste di sembianze umane e che non lascia dietro a se né orma né ombra?»
«Sapresti, mio signore, che io sono te, che queste profondità nelle quali puoi incontrarmi, sono altezze. Io canto i tuoi versi senza parole e mi ascoltano le stelle!»
Cosí disse, ed abbassò il suo libro. Il poeta vide le pagine bianche e il volto di lei e gli sembrò che fosse la sua donna amata circondata di luce.
«Sei tu, sei sempre tu a ricordarmi che non puoi restituirmi i miei versi. L’immagine del mio dolore mi ha seguito dunque anche in questo lontano mondo!»
«Non usano gli Dei scrivere con la penna, mio signore, ma con mobili immagini, ed io sono una di quelle. Quando rapito dalla luce dei suoi occhi hai dimenticato te stesso, donandoti senza chiedere nulla, hai scelto quell’immagine, ed io l’ho presa su di me per poterti apparire. Io non sono lei, eppure lei è me. Io sono il tuo amare, ma anche il suo segreto».
Ciò detto, la giovane donna si alzò e tese la sua mano ad accogliere quella del poeta:
«Stringi, stringi forte: io guiderò la tua mano» sussurrò con voce di altri giorni, e si dissolse il mondo.
Il poeta si scosse e vide intorno le cose d’ogni giorno, ma seppe che lassú, nelle profondità, la primavera era cominciata.

Renzo Arcon

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