Narra la letteratura buddhista
che, quando l’asceta Šâkyamuni raggiunse l’Illuminazione sotto l’albero
detto, appunto, della bodhi, non solo ottenne la visione del Dharma,
ovvero delle Quattro nobili verità, della legge del karma e dell’Ottuplice
sentiero, ma ebbe anche il privilegio di poter ripercorrere in immagini
tutte le sue esistenze anteriori. La leggenda poi vuole che egli abbia
narrato ai discepoli queste sue antiche vite, esemplari per atti di compassione,
di eroismo e di dedizione sacrificale. Da ciò nacquero i Jâtaka,
le 547 storie delle vite anteriori del Buddha, quando egli ancora accumulava
i suoi grandi meriti di bodhisattva, cioè di essere dedito alla
ricerca dell’Illuminazione(1).
Passano i secoli, passano
i concili e le dinastie, mentre l’antica corrente del Theravada cede il
passo al Mahâyâna. Si scrivono le grandi biografie del Buddha,
il Mahâvastu, il Lalitavistara, il Buddhacarita
e si scopre la vera forza edificante, l’eterna poesia dei Jâtaka.
È cosí che Ârya Šûra, uno dei piú grandi
poeti buddhisti, vissuto fra il III e il IV secolo d.C., sceglie 34 Jâtaka
e li riscrive, facendo di ognuno un piccolo gioiello poetico. Il titolo
di questa raccolta breve è Jâtakamâlâ (Ghirlanda
delle vite anteriori del Buddha)(2).
Da quest’opera – tradotta
in italiano dall’indologo Raniero Gnoli – abbiamo riassunto due storie
che esemplificano la grande compassione e l’infinita saggezza del bodhisattva,
la sua profonda conoscenza della legge del karma, la sua perfetta condotta
che non si discosta mai dalla rettitudine dell’Ottuplice sentiero.
Storia
della piccola porzione d’orzo
«Un dono
che procede da pia disposizione di cuore ed è collocato in un degno
recipiente non è mai piccolo, perché grandi sono i suoi risultati».
Con questo insegnamento Ârya Šûra dà inizio alla storia
di un re di Košala, che altri non era se non Siddhârtha in una sua
incarnazione da bodhisattva.
Il cuore di
questo re, grazie alla sua giustizia, era tuttavia pieno di benignità,
alieno dal nuocere ai suoi avversari. Ma l’amore che portava ai suoi dipendenti
era tale e tanto che la Fortuna non aveva gioia a stare coi suoi nemici.
Un giorno egli si ricordò della sua incarnazione appena precedente
e poiché voleva dare un insegnamento morale ai suoi cortigiani e
al popolo, dovunque fosse, nella sala delle udienze o nel suo appartamento
privato, ripeteva di continuo: «Non c’è onore, per quanto
piccolo, pagato allo Svegliato che dia magri frutti. Ma prima questo si
sapeva solo per sentito dire: vedi però adesso come grandi e ricchi
sono i frutti di una piccola porzione di orzo!… Questo mio esercito possente,
misto di cani e cavalli, interrotto dalle macchie di scuri e fieri elefanti,
la terra intera, la molta ricchezza, l’amante fortuna, la mia nobile moglie:
vedi come belli e copiosi sono i frutti di una piccola porzione di orzo!»
Ministri, brahmani
e cittadini, tutti incuriositi, avrebbero voluto sapere perché il
re pronunciava quelle frasi. La regina stessa desiderava saperlo, perciò,
avendo maggior confidenza con suo marito, un giorno, nella sala delle udienze,
gli chiese di spiegare che cosa, in realtà, intendesse dire. Il
re si attendeva quella domanda e lieto rispose che all’improvviso gli era
capitato di ricordare la sua ultima nascita in quella stessa città
nella condizione di servo. Questo servo era persona onesta, che si guadagnava
da vivere eseguendo lavori per i piú ricchi. Un giorno, mentre stava
per iniziare il suo lavoro, vide quattro monaci che chiedevano l’elemosina.
«I loro sensi erano ben assoggettati – proseguí il re – la
fortuna pareva accompagnare questi monaci. Il mio cuore era tutto intenerito
da una pia disposizione e, inchinatomi, diedi loro rispettosamente a casa
mia un piccolo piatto d’orzo. I re avversari che trascinano il lustro delle
loro corone fra la polvere dei miei piedi, tutto questo, dico, è
solo il frutto nato da questo germoglio».
Per tale ragione,
inconsapevolmente, anche nella sua incarnazione presente, l’antico servo,
rinato come re, aveva continuato a compiere buone azioni e a fare l’elemosina
agli asceti. Ma ora avrebbe continuato ad agire rettamente e caritatevolmente,
ben consapevole dei buoni frutti che un tale agire comportava. La regina,
piena di gioia, raccontò al re di ricordare a sua volta la sua ultima
nascita. Anche lei era una serva, che un giorno aveva donato a un santo
asceta un po’ di cibo rimasto. Non ricordava altro, ma certo era per questo
suo atto di misericordia che era rinata regina, ricca e potente. Tutti
coloro che avevano ascoltato il dialogo fra il re e la regina erano meravigliati
di quanto grandi fossero gli effetti di una piccola azione meritoria, e
il re, volendo che l’insegnamento penetrasse profondamente nei loro cuori,
affinché si comportassero in futuro secondo la Legge, aggiunse:
«La carità è un gran tesoro che sempre ci accompagna,
inaccessibile ai ladri. La carità lava la mente dalle macchie dell’egoismo
e della brama. La carità è un agevole veicolo, che ci solleva
dalle fatiche del viaggio attraverso l’esistenza. La carità è
un amico costante, tutto inteso a procurarci molteplici piaceri. Tutto
quello che si desidera, vuoi ricchezza o gloria, vuoi potere o dimora nella
città degli dei, o infine bellezza della persona, tutto si ottiene
con la carità. E chi avendo ben considerato tutto questo, non vorrà
praticare la carità?».
Avendo udito
ciò gli astanti raggiunsero una pia disposizione d’animo, cercando
d’allora in poi di praticare nel migliore dei modi la carità. È
questo uno dei Jâtaka che piú manifestamente si rivolge
ai laici, invitandoli alla pratica del dono, come recita l’epilogo della
storia: «Chi dona con una buona disposizione di spirito alla santa
comunità, la quale è un insuperato campo di meriti spirituali,
può ottenere la piú grande felicità».
Storia
del capo della corporazione
In
un’altra incarnazione da bodhisattva il Buddha era capo di una corporazione
e, grazie alla sua abilità negli affari, rettamente condotti, si
era acquistato grandi ricchezze. Inoltre la sua onestà e integrità
di costumi gli avevano conquistato la stima di tutti, una stima che egli
meritava anche per la conoscenza che aveva di molte scienze e arti. Ma
non per questo dimostrava un’alta idea di sé, anzi si rivelava molto
caritatevole e nessun mendicante si allontanava scontento dalla sua porta.
Un
giorno uno Svegliato, nelle vesti di monaco, desiderando accrescere i meriti
spirituali del bodhisattva, si avvicinò all’ora del pranzo alla
sua porta e vi si fermò, «pieno di nobile tranquillità...
guardando sicuro, quieto, dolce e fermo», in attesa di ricevere il
cibo.
A
quel punto Mâra, il dio dell’illusione e della morte, invidioso del
merito che il bodhisattva stava per acquistarsi, creò per opera
di magia fra lo Svegliato e la soglia della casa un profondo e largo inferno,
entro il quale centinaia di dannati si dibattevano disperati tra le fiamme.
Intanto il bodhisattva aveva invitato sua moglie a portare del cibo al
monaco. La donna aveva obbedito volentieri, ma, giunta presso la soglia,
si spaventò di fronte alla terribile visione dell’inferno. Perciò,
pallida e tremante, tornò dal marito e gli narrò a fatica
quanto aveva visto.
Il
bodhisattva, tuttavia, preoccupato che il monaco potesse allontanarsi dalla
sua casa affamato, non si curò di quanto gli aveva riferito la moglie
e, preso il cibo, si avviò alla porta e vide anch’egli l’inferno.
Si stava chiedendo cosa fosse, quando Mâra gli apparve dicendogli
che quello era l’inferno chiamato “Terribilissimo”, al quale erano destinati
dopo la morte per molte migliaia di anni coloro che avevano dilapidato
la loro ricchezza nella “follia della carità”. Infatti, proseguí
Mâra, distruggendo la ricchezza materiale (artha), cioè
il secondo dei tre fini dell’esistenza umana secondo gli Hindu, egli colpiva
la giustizia universale, che è il fondamento dei tre fini. Al contrario,
chi si astiene dalla carità e conserva la propria ricchezza è
destinato al mondo degli dèi, concluse Mâra.
Il
bodhisattva, comprendendo che il ragionamento di Mâra era capzioso
e tendeva solamente a distoglierlo dal retto agire, rispose: «Circa
ciò che hai detto, che, cioè, dalla carità nasce ingiustizia
e che la prosperità materiale è la principale causa della
giustizia, il mio povero senno umano non arriva proprio a capire come,
senza la carità, la prosperità materiale possa condurre alla
giustizia. O forse, tu pensi, essa è cagione di giustizia, quando
è ammassata in un tesoro? o quando è tolta, colla violenza,
dai ladri? o forse quando riposa immersa nelle viscere dei flutti? oppure
quando è divorata dal fuoco? Dicendo poi che chi dà va all’inferno
e chi riceve è assunto fra gli dèi, con questo non fai che
confortare, proprio mentre cerchi di raffrenarlo, questo mio desiderio
di carità. Sí, possano le cose andare proprio cosí
come tu dici, e i miei poveri salire al cielo! Ché la carità
io l’amo per il bene del mondo e non come mezzo atto a procurare la mia
propria felicità!»
Dopo
aver pronunciato questo discorso e aver affermato che avrebbe preferito
lanciarsi a capofitto nell’inferno che gli lambiva le vesti, piuttosto
che disprezzare le richieste dei mendicanti che confidavano nella sua generosità,
il bodhisattva, sicuro che la forza della sua carità lo avrebbe
salvato da ogni pericolo, si gettò nell’inferno. Ed ecco che dal
centro dell’inferno emerse, per i suoi meriti spirituali, un loto purissimo
sul quale il bodhisattva riuscí a raggiungere lo Svegliato e a riempire
la sua ciotola di cibo.
Mâra,
sconfitto, scomparve col suo inferno, mentre lo Svegliato, per dimostrare
la sua gioia, si levò in volo splendente come una nuvola greve di
lampi.
|
Questi bei racconti non
possono non farci tornare alla mente un passo del Vangelo di Luca (12,
33-34), laddove il Cristo dice: «Vendete ciò che avete e datelo
in elemosina, fatevi borse che non invecchiano, un tesoro inesauribile
nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma. Perché
dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore».
La lettura contemplativa
di brani come quelli narrati dispone l’anima a una grande apertura del
sentire, in cui fiorisce la compassione e lo stimolo alla dedizione sboccia
in mitezza interiore, in sacrificio di sé per amore delle creature.
Di questa ricchezza dell’anima la letteratura buddhista è maestra:
e lo sarà anche a beneficio dell’Occidente.
(1) I Jâtaka
fanno parte del Canone buddhista che, secondo la tradizione, fu fissato
poco tempo dopo la morte del Buddha, verso il 477 a.C., in occasione del
primo Concilio di Râjagrha, nel Magadha (oggi Bihar). Esso, tuttavia,
fu trasmesso oralmente per circa quattro secoli, fino a che nel I secolo
a.C. sarebbe stato posto per iscritto. Lo scopo originario dei Jâtaka
era quello di spiegare in modo semplice il Dharma ai laici, fornendo
un esempio pratico di come l’esercizio della virtú e dell’ascesi
porti non solo a buone rinascite, ma anche al progresso sulla via dell’Illuminazione.
(2) Ârya Šûra, Storia della
tigre e altre vite anteriori del Buddha, a cura di Raniero Gnoli, Leonardo
da Vinci Ed., Bari 1964. Tanta è la bellezza della narrazione che
le sue strofe si trovano riprodotte su vari affreschi delle grotte di Ajantâ.
Se nei Jâtaka canonici confluirono alcuni racconti tipici
del folclore indiano, che conservano spesso il sapore delle narrazioni
popolari, i Jâtaka di Ârya Šûra presentano invece
i tratti raffinati della grande letteratura e della grande poesia, che
vuole donare al lettore insegnamenti di ordine morale e spirituale molto
elevati in un linguaggio altrettanto alto.
Immagini:
– P.D. Chopra «L’Illuminazione del Buddha»
– Thanka tibetano con l’illustrazione di alcuni episodi delle vite
anteriori del Buddha,
gouache, sec. XVII
|