Terra di solitudine, la visitano
ombre irrequiete, sussurranti, ambigue,
mai nessuna che viva mi interpelli
con la voce di lui. Disancorata
isola derivante, la percorre
ogni vento salmastro: mai nessuno
che porti lo scrosciare dei marosi
contro il legno policromo dei grandi
agguerriti velieri. Quale estrema
pietà racchiude il grido del gabbiano
se penetra le stanze e mi riscuote.
Non piú lamenti, questo fu il mio voto:
conservare speranza del ritorno,
dolcezza nell’attesa, giorno a giorno,
la mano intenta a tessere la tela
col filo del ricordo, refe amaro
e dolce a un tempo, se congiunge al mio
cuore dolente le sembianze care
e mi riporta il nome dell’assente.
La vita è tutta qui, tutta si svolge
nei chiari peristili dove i passi
cadenzano l’afflato dei sospiri.
Oh, quanti nodi intralciano l’ordito,
quanti la trama ingombrano, e le dita
dolorosi feriscono! Ma occorre
conservare certezza, soavità
nei gesti quotidiani, nel sorriso
l’armonia di pensieri e sentimenti,
portare miele alle parole se
a un tratto irrompe il trepestío sacrilego
di scomposti invasori sui lucenti
marmi di Paro, orme concupiscenti
d’ogni lussuria e gozzoviglia. Quindi
onorare le mense, ripulire
l’orrore, conservare la purezza.
E poi, di nuovo sola a trepidare.
Oh, quei miraggi cui lo sguardo vola
dalle altane protese al vasto mare,
dove lampi tra spume fanno e disfano
somiglianze di vele. Rimanere
impassibile ostaggio dell’angoscia,
non trasalire se, per sortilegio,
l’anima già si illude alle parvenze
dissolte appena un vortice le crea.
Conservare fermezza e levità
nella mano che volge la clessidra
e riprende il suo gioco sulla tela,
inganna il tempo e il suo crudele fuoco.

Fulvio Di Lieto

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