ETICA

Si può dire che, ancora una volta, all’uomo, in questo periodo decisivo per l’avvento di un suo nuovo ciclo sociale, si prospetta il problema del dolore in tutta la sua potenza, che dal piano fisico postula il metafisico. Perché il carattere dominante dell’attuale vicenda umana è dato dalla lotta e dalla sofferenza? Qual è il significato di queste prove di sacrificio e di dolore che quasi tutta l’umanità sperimenta?
Noi siamo certi che se essa fosse veramente capace di comprendere il significato ultimo di questa grande sofferenza, già avrebbe la chiave della soluzione del suo problema.
Esistono nell’uomo energie profonde che, per il loro carattere primordiale, possono considerarsi dormenti nel suo sangue e nella sua natura meno cosciente; esse sono le energie della volontà e dell’azione, quelle che misteriosamente agiscono, sollecitate da comandi o da impulsi, creando qualcosa di nuovo e di definito anche nel mondo della realtà sensibile. Ma tali energie rimangono inconscia potenzialità, se uno stimolo potente non le risvegli e non le riconduca alla coscienza centrale che l’individuo ha del proprio essere. E noi, seguendo la storia della umanità, possiamo effettivamente riconoscere le sue grandi creazioni sociali come conseguenza di una azione decisiva di queste energie primordiali deste nell’anima e nel corpo di essa: azione che costringe ogni individuo ad esprimere le sue migliori capacità.
Il problema consiste essenzialmente nel prendere contatto con tali energie e indirizzarle verso una consapevole creazione. Ora, quando il risveglio non sia possibile attraverso una educazione superiore della psiche, ossia attraverso una severa ed illuminante ascesi, la congiunzione della coscienza con queste energie può avvenire per via di un superamento violento della barriera che separa i due piani. Ma tale superamento crea nell’uomo una situazione particolare: la resistenza dell’abitudine organica, che tende meccanicamente a ripetere sempre gli stessi movimenti, l’urto di due tipi di coscienza e la scossa che ne riceve l’intero essere, generano infatti quella sensazione intollerabile, che è la sofferenza, sia che derivi dal mondo fisico sia che derivi da una causa morale.
Il dolore è una sensazione apparentemente negativa, in quanto l’organismo umano tende irresistibilmente a liberarsene per riacquistare lo stato in cui non esiste o non si avverte. Ma proprio in questa tendenza a liberarsi dal dolore, si può riconoscere l’azione velata della nostra facoltà cosciente verso una ristabilizzazione dell’equilibrio che le è peculiare, ma che, dopo il superamento del dolore, si attua talora in un piano piú profondo della personalità.
In ordine al concetto nietzschiano “Ciò che non ci spezza ci rende piú forti”, si può dire che l’umanità ha attinto taluni modelli di perfezione, grazie alla sua esperienza del dolore. Il tipo biologico si può elevare e affinare attraverso la reazione continua opposta da un’intima energia psichica all’azione delle forze esteriori: cosí, attraverso le sofferenze causate dagli stimoli del mondo esterno, l’uomo ha imparato a “conoscere” le diverse parti del proprio corpo, a sentirle come sue e a trasmettere ad esse il senso della propria coscienza.
L’uomo, dunque, raggiunge la gioia di essere cosciente nello spazio e nel tempo, attraverso quella vittoria sulla necessità esterna che gli viene propiziata dall’avvertimento e dallo stimolo della sofferenza. Se si tien conto come, in riferimento alla costituzione puramente morfofisiologica, siano state riconosciute dalla scienza medica talune parti insensibili del corpo chiamate “zone di ottusità del dolore”, e che questa sorta di insensibilità rende difficilissima la percezione di eventuali processi patologici formantisi in tali zone, è riconoscibile sotto un aspetto, per cosí dire, pratico, la funzione rivelatrice del dolore in riferimento alla coscienza dell’individuo.
Se l’ideale umano consiste nel conseguimento di uno stato sempre piú alto e piú profondo della coscienza, occorre riconoscere che il dolore è una via di affermazione della nostra natura gerarchicamente superiore, ossia di uno stato superiore della nostra psiche, in cui l’ideale di elevazione e di integrazione del piano inferiore rimane immutevolmente desta. Tale affermazione si esprime attraverso una trasformazione, o una creazione, la cui dinamicità è data dalla cooperazione delle energie fattive della natura umana piú profonda; cosí la piú alta virtú dello spirito si può ricongiungere con la piú concreta forza creativa dell’essere, a mezzo del superamento del diaframma che normalmente le separa.
Il dolore non è che una deformazione di ananda (beatitudine cosciente, gioia trascendente); questa forza, che è una manifestazione “dinamica” del Divino, fluendo nell’uomo e incontrando una resistenza nella sua immaturità, deve necessariamente presentarsi sotto forma di dolore, e insiste in questa forma fino al momento in cui potrà presentarsi nella sua vera essenza di gioia creativa: il che sarà possibile attraverso l’affinamento della natura umana per virtú del dolore.
Ecco perché, se l’insegnamento del dolore dura anche quando questo è cessato, esso può costituire per l’uomo l’avviamento verso un ethos superiore. Se l’insegnamento si oblia, il dolore ritorna e ritornerà finché l’uomo non avrà compreso il segreto della vittoria. Allora si comprenderà che il dolore era una “irrealtà” necessaria: esso esisteva in quanto l’Io non era capace di “essere” compiutamente nel suo proprio dominio: la realtà del dolore aveva un valore semplicemente strumentale e perciò temporale. Cosí il dolore soltanto può condurre al superamento del dolore.
Tale concezione occorre sia compresa per evitare la confusione dovuta all’idea dell’originaria “oscurità” della vita e della fatalità del dolore. Questo, invero, è una forma di resistenza della natura inferiore dell’uomo all’azione della natura piú alta: ma la resistenza ha il senso simultaneo di ostacolo e di stimolo per il superamento dell’ostacolo: cosí il dolore non è cieca e irremovibile fatalità, ma via di conoscenza superiore, di realizzazione della vera e intima finalità dell’essere umano. Sotto questo riguardo, esso insegna a discriminare lo stato di presenza spirituale dallo stato di assenza e di sprofondamento nella propria natura animale, in quanto, come si è accennato, la sofferenza deriva proprio dall’incontro e dal contrasto di forze di coscienza con forze dell’incoscienza: dove l’inconscio resiste, il dolore, come un preciso termometro, registra l’intensità della sofferenza.
Qui si delinea il senso della vita eroica, sia nel dolore animico che in quello fisico: nel sopportare con fermezza la crisi del dolore, l’Io umano si schiera, per cosí dire, con le forze della coscienza; inoltre, nella esasperazione della lotta, la volontà dell’Io si potenzia cosí da chiedere l’intervento delle forze ancora piú forti e sopracoscienti.
È l’“eterno” che urge nell’umano per fluire in quella vita individuale e collettiva che aveva creduto di poter esistere entro i suoi limiti, nella sfera della sua contingenza, nella sua arida materialità. Là dove questa vita depotenziata resiste, la forza spirituale, appoggiandosi alla coscienza dell’uomo, fa violenza alla vita, la costringe a una rettificazione, a un’obbedienza purificatrice. Il principio è dunque l’Eterno, il dolore è il mezzo, la conquista di un nuovo bene è il risultato. Ecco perché esigenza mistica, spirito eroico e senso del sacrificio confluiscono in un’unica vicenda, ove l’uomo abbia saputo intendere l’appello della sua autentica interiorità, che è l’appello stesso del Divino.
Due vie sono state offerte all’uomo per la vittoria sulla morte: il dolore e la morte eroica. In ambedue il principio del sacrificio implica il risveglio di una coscienza di vita superiore alla vita stessa: dove nasce la sofferenza, lí l’uomo è costretto a essere sveglio e ad acquistare coscienza della sua regalità.
Se la vita normale e pacifica è, nella sua monotonia, qualcosa che narcotizza la personalità e attutisce il senso dell’Io, riconducendolo ad una coscienza talora inferiore alla coscienza di veglia, ossia ad uno stato di torpore stagnante ed imbelle, la vita di dolore desta la psiche dell’uomo, la costringe ad essere piú-che-sveglia e la dischiude ad uno stato di purezza trascendente.
In questo stato di eroica euforia dell’essere, il dolore non ha piú senso: esso, svanendo, ha lasciato in noi soltanto ciò di cui era una forma difforme: l’essenza di una libera e cosciente gioia. Di là dalla irrealtà del dolore, questa attende di essere conosciuta, perché essa soltanto può esprimere la natura segretamente divina dell’uomo, attraverso l’azione di un senso “solare” e creativo della vita.

Massimo Scaligero

Selezione da «Augustea» n. 1, XVIII, 1943

Immagine: «Il malato» miniatura, Borgogna, XV secolo

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