INCONTRI

Lavorava nello stesso ufficio ormai da piú di vent’anni. Anni, mesi, settimane e giorni: tutti uguali. Si svegliava di buon’ora e si recava al lavoro con una sorta di fatalismo nel cuore, un senso di ineluttabilità che si trasformava spesso in pesantezza, come se dovesse assistere – impotente ed estraneo – allo svolgersi di un movimento meccanico dove i denti degli ingranaggi percorrono sempre lo stesso giro, dando luogo ai medesimi effetti. Entrando nel salone, disseminato di vecchie scrivanie che sorreggevano moderni computer come il passato sembra sorreggere un indeterminato presente, provava a volte l’impressione di urtare contro i colleghi, le loro personalità, i loro modi che trovava sciocchi, banali, scontati. “Ora dirà questo, ora farà quest’altro”, si diceva vedendoli, e la continua conferma lo rafforzava nell’idea che non ci fosse piú nulla capace di meravigliarlo, che tutto fosse scontato, già vissuto, già pensato.
Non che odiasse quei poveretti, in fondo immersi nella stessa vischiosa e soffocante realtà quotidiana, però ne provava un senso di ribrezzo reso ancor piú fastidioso dal fatto che gli manifestavano sempre una parte di lui stesso, come se si guardasse in uno specchio, di scorcio, con un’occhiata veloce e fuggente. Certo, a volte le tensioni che si creavano nel corso della giornata, dovute al vivere insieme non per scelta ma per circostanze fortuite, lo portavano a sperare che un giorno questi personaggi potessero scomparire dalla sua vita come sogni al risveglio, e questi, spesso, erano incubi...
Passato il primo momento di imbarazzo per sentimenti che non avrebbe voluto provare ma nei quali si cullava, l’impiegato sedeva alla sua scrivania, col suo schermo davanti e le carte, tante carte, disposte in fasci ordinati accanto a lui. Allora iniziava il suo lavoro dedicandovisi con scrupolosità, pensando attentamente ad ogni passaggio, vagliando con rigore ogni frase, ogni cifra e compiacendosi, a volte, d’un problema risolto, di un fascicolo chiuso che gli dava un brivido di appagamento. Ma subito dopo ne apriva un altro e tutto ricominciava. In quei momenti provava una profonda insoddisfazione: quelle carte non finivano mai, non sarebbero mai finite, anche dopo il suo agognato pensionamento e la sua morte, a volte temuta altre astrattamente sperata. Erano eterne, erano gli dei o i demoni del suo particolare purgatorio.
Quando la stanchezza prevaleva e la testa gli sembrava incapace di reggere una cifra in piú, una frase di troppo, allora si svagava orientando la sua attenzione di contabile verso altre cose, altri oggetti o, meglio, gli oggetti. Notava, per l’ennesima volta, che la macchia di inchiostro sul vecchio legno della scrivania, aveva curiosamente la forma di un’isola come appare nell’atlante geografico, e la chiamava “Sicilia”. Notava i suoi bordi frastagliati dove l’inchiostro s’era aperto un varco tra le fibre del legno, poi, specie quando i colleghi si prendevano una pausa e l’ufficio rimaneva per qualche minuto vuoto, alzava lo sguardo verso l’ambiente attorno, sempre lo stesso eppure sempre cosí interessante. Osservava con attenzione le file di scrivanie, ne notava le diversità, coglieva i particolari piú minuti per via di un lunghissimo addestramento a quel guardare, vedeva le pareti d’un bianco ormai sporco, e come le macchie di polvere e di umido formassero casuali intrecci con la ragnatela delle sottili fessure dei vecchi intonaci. In quei momenti veniva del tutto assorbito da quelle osservazioni, ne faceva il totale contenuto della sua coscienza, come se fossero la cosa piú importante, e ne traeva un senso di liberazione sostenuto dalla consapevolezza che il suo osservare gli faceva incontrare una realtà piú vera, in certo modo piú presente, piú forte. Poi ripiombava nel grigiore astratto delle cifre, lasciandosi trasportare dalla loro necessità verso mete che non avrebbe mai visto, e che riguardavano un altro ufficio con altre scrivanie e altri impiegati, altri giorni, altri mesi, altri anni.
Quel giorno, era un lunedí, si sentiva particolarmente stanco. La sua non era certamente una stanchezza fisica e nemmeno intellettuale, perché non aveva ancora affrontato tante carte da sentirsene dominato, sopraffatto o semplicemente esaurito. Durante la pausa, quando i colleghi erano usciti sciamando e dibattendo delle solite stolidità, lui era rimasto seduto, immobile, con lo sguardo perso sulla “Sicilia”, a notarne ancora una volta i contorni e osservando che c’era anche, vicino, un nodo del legno, già visto milioni di volte, ma ora presente in maniera particolare, col suo colore piú scuro e la compattezza delle fibre, come se queste avessero deciso, in quel punto, di formare un gorgo nel legno, un punto fermo nella loro corsa parallela verso la fine della tavola. Era immerso in quelle osservazioni come se tentasse di toccare il fondo solido di un mare alto abbastanza da sfiorare la sabbia appena con la punta dei piedi, e nel suo cuore non riusciva a dissimulare una tristezza, una sorta di malinconia profonda che sembrava muoversi come un vento gelido. Tentava di ignorarla e si sforzava ancor piú di guardare, come se lo sguardo potesse abbracciarsi alla realtà impedendogli di perdersi, di precipitare nell’incoscienza, che temeva non già come deliquio ed abbandono, ma come potenza capace di irretirlo e sbatterlo qua e là, impotente, nella corrente di una vita cosí priva di correnti e di movimenti. Appena lo sguardo perdeva la connessione con le cose, appena i pensieri diventavano fluttuanti nuvole dentro la sua anima e in balía del suo sentire, avvertiva sorgere in sé un’ansia, un tormento che sconfinava nella paura e che lo angosciava. Certo, non si rendeva ben conto di tutto questo e lo viveva in lampi improvvisi dai quali si ritraeva dolorosamente, perché tutto questo ribollire di correnti profonde aveva il volto della sofferenza. Poi qualcosa cambiò.
Sentí che era entrato qualcuno. Avvertí una presenza vicino: l’aria non era piú la stessa, forse per un lieve profumo, forse per una impercettibile serie di leggeri rumori. Alzò gli occhi. C’era una giovane signora davanti alla sua scrivania, immobile. Lo guardava con occhi limpidi ma non inconsapevoli delle lotte della vita.
«Buongiorno – balbettò lui, imbarazzato e sorpreso da quella presenza – siete una nuova collega?»
«No – disse lei – ci conosciamo già».
«Non so… non capisco, non l’ho mai vista prima…»
«Non hai mai visto me: hai visto attraverso me, mediante me».
Si fece silenzio intorno e l’impiegato notò, in quel silenzio, che lei era molto bella e che il dolore era scomparso dal suo cuore, la pesantezza era svanita. Lei era lí davanti, ma la sua capacità d’osservazione non gli permetteva di metterla bene a fuoco, non riusciva a scorgerne i contorni e doveva fare uno sforzo per poterla vedere. E proprio da quello sforzo gli nasceva dentro un senso di sicurezza come se fosse pervenuto alla realtà vera, quella che invano inseguiva nel suo osservare quotidiano.
«Chi sei?» chiese, e si sorprese nell’udire la sua stessa voce che sembrava cantargli dentro dalle profondità dell’anima.
«Io vivo tra te e il mondo. Sono l’angelo dell’osservare. Guardati intorno: nulla di cui hai conoscenza esiste senza di me. Io ti prendo per mano e ti accompagno attraverso le cose del mondo facendotele incontrare ad una ad una, perché io non sono nessuna di loro e le comprendo tutte».
Allora l’impiegato si guardò attorno e vide i contorni delle cose diventare luminosi ed espandersi, come se scrivanie e sedie, computer e schedari, le macchine da scrivere e i segni del tempo sulle pareti, e persino la sua “Sicilia” acquistassero una potenza mai vista prima e si ingrandissero balzandogli incontro. Sentí spezzarsi qualcosa dentro, come il rumore di un ramo secco che si rompe sotto i piedi, e tutto svaní. Si trovò nel nulla. Ed era un nulla ricolmo di indefinibile luminosità, come la luce del sole si irraggia dentro la lieve nebbia dei mattini d’inverno, e si accorse che quella luce proveniva da lui stesso. Allora riudí la voce di lei.
«Qui tutto è possibile, qui ogni cosa ha il suo significato, qui il mondo si incontra col tuo sguardo e qui non c’è sguardo e non c’è mondo. È il nulla nel quale ci si ritrova per non perdersi piú, il mondo è dentro, e noi, intorno ad esso, lo conteniamo, lo comprendiamo. Io sono questa luce voluta momento dopo momento nel tuo pensare le cose del mondo, e in questa volontà tu mi amerai».
L’impiegato si riscosse. Davanti a lui non c’era nessuna collega nuova e le cose avevano ripreso la loro consistenza quotidiana. Si alzò. Attraversò la stanza e nel camminare si accorse che qualcosa era cambiato. Ad ogni pensiero che gli sorgeva dentro guardandosi attorno si accompagnava sottilmente il sentimento che lei era lí, che la donna veduta un attimo e subito incommensurabilmente amata, era presente. Incontrò i colleghi e li vide inconsapevoli d’essere immersi nella stessa luce, e per questo li sentí fratelli. Uscí nel grigiore della pioggia, ma ormai il mondo era inondato di sole.

Renzo Arcon

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