- Tre legioni, agli ordini del
pretore Triario, erano rimaste a presidiare Tigranocerta,
espugnata nella primavera precedente, mentre due, le piú
fidate, comandate dal generale in capo Licinio Lucullo,
scortavano il ricco bottino delle varie conquiste ai danni
di Mitridate e i cospicui tributi riscossi nelle province
imperiali nel corso di quei lunghi anni di campagna
militare.
- Erano diretti al porto di Tiro,
da dove su robuste triremi e navi onerarie avrebbero
raggiunto Ostia e quindi Roma. La colonna di militi,
cavalleria e carri, seguiva il corso del Kara-su, che
nella lingua locale, fatta di aspre sillabe gutturali,
voleva dire “fiume nero”, ma che ai Romani era noto
come Eufrate, e che stabiliva la linea del confine
orientale al di là della quale si agitavano le tribú
nomadi, i regni e le satrapie degli Unni e dei Circassi.
- Prima di sfociare nella vasta
piana mesopotamica, isolandola dai bollori polverosi del
deserto siriaco, l’Eufrate s’insinuava in gole e
meandri e, serpeggiando tra falese a picco, precipitava in
salti vertiginosi o ribolliva in cateratte e rapide.
- Per giorni era stato un
cauteloso procedere lungo la carovaniera che arditamente
costeggiava l’alveo del fiume. A un tratto la staffetta
kurda si staccò dal manipolo di testa e, galoppando in un
turbinio di polvere, si portò dove Lucullo avanzava al
centro dello Stato Maggiore. Trattenendo il cavallo, con
voce stentorea e puntando il braccio armato di pungolo in
direzione dell’ampia vallata all’orizzonte, indicò il
profilo di una città contro lo sfondo di alberi e dune.
Il cavaliere gridò: «Samsat, Samsat!», e dando di
sprone tornò nel drappello che faceva da battistrada.
- Samosata accolse le stanche
milizie romane con le sue terrazze fiorite declinanti
verso il fiume, le sue fontane e le piazze alberate.
- «Dunque, illustre console e
amico, ti richiamano a Roma…». Dopo la sontuosa cena
offerta ai comandanti nella sala delle cerimonie, il re
Antioco intratteneva Lucullo in colloquio privato nella
frescura del giardino pensile. Sotto i raggi della luna il
grande fiume scorreva ora pacificato e solenne, non molto
distante in quel punto dal corso del Tigri. Nel loro
abbraccio, i due fiumi fecondavano la terra che ospitava
la piú antica civiltà del mondo conosciuto. Superato il
guado, la corrente faceva girare le colossali ruote che
sollevavano l’acqua dal fiume per immetterla nei canali
di irrigazione. Quando le coppe delle norie si svuotavano
capovolgendosi, l’acqua rifletteva il riverbero lunare e
sembrava argento fuso. Piú a valle, dopo le ultime luci
della città, brillavano i falò delle legioni romane
accampate.
- «Sí, Pompeo ha convinto il
Senato. La guerra a Mitridate la terminerà lui» fu la
risposta del comandante romano. E il re:
- «Hai deluso pubblicani,
mercanti e banchieri che seguivano le legioni, e forse hai
chiesto troppo ai tuoi soldati. L’Armenia e le sue
montagne hanno dato fondo alle loro energie. Alessandro
fece lo stesso, volendo spingersi oltre l’Indo».
- «Troppo onore, se mi paragoni a
lui. Non valgo tanto» si schermí pacatamente il console.
- «Ogni uomo ha il suo sogno –
insistette con garbata malizia il re. – Dalla riuscita
si valuta la sua grandezza. Che sognavi di trovare in
Armenia, Lucullo, forse il luogo da cui ebbe origine la
storia umana, come ritengono molte leggende locali?».
- «Il mio paradiso, Antioco, lo
sto costruendo a Roma, sulla collina che guarda il Tevere.
I proventi di questa campagna, quelli beninteso che il
Senato, Pompeo e Crasso mi lasceranno, andranno ad
arricchire la mia collezione di statue e la mia raccolta
di pergamene e dipinti».
- «E i tuoi giardini –
commentò il re argutamente. Poi, in tono piú serio: –
Ho fatto aggiungere un regalo particolare per te: quattro
alberelli con terra originale e due dozzine di talee di kerash,
metà con fiori bianchi e metà rosa. Li pianterai a Roma
nei tuoi orti e nella fattoria del Tuscolo. Sono certo che
prenderanno bene e daranno anche frutti tra qualche
anno».
- «Già, la mia botanica –
disse Lucullo con un mezzo sorriso. – Ti ringrazio, o
re. Se gli Dei vorranno, anche i Romani scopriranno la
bellezza delle fioriture primaverili di queste piante a
noi ignote e assaggeranno i loro frutti succosi dal colore
del sangue vivo».
- «Credi negli Dei, quindi. Non
segui le dottrine di Democrito e del tuo concittadino
Lucrezio».
- Lucullo guardò stupito il re.
«No, io sono d’accordo con il mio amico Nigidio Figulo
e con i pitagorici. La vita non può esaurirsi con la
morte fisica. L’uomo, da come l’ho conosciuto a Roma,
in Grecia e in Oriente, anela a ben altro».
- «Cosí dicono anche i rishi
del Gandhara e del lontano Maghada. Il soffio divino è in
tutte le cose, e l’anima immortale, evolvendo, tende a
conquistarne la potenza, a fondersi con esso».
- Lucullo non fece commenti. L’altro
proseguí:
- «Io credo in un solo Dio: La
Divinità Solare… Sto costruendo un tempio che ne
celebrerà la grandezza nei secoli a venire».
- «Un tempio, e dove?»
- «Lassú» e la mano di Antioco
si tese a indicare le alte montagne del Tauro che si
ergevano alle spalle della città. Il console seguí la
direzione del gesto, e il suo sguardo si perse nell’immensità
della notte, contro la massa oscura dei rilievi che
separavano l’Impero romano dalle regioni ancora
sconosciute, di cui favoleggiavano i mercanti e gli
avventurieri: un immenso lago salato, il mare di Ircan, la
terra degli Han e degli Yuezhi.
- «Se vuoi, ti ci porto – disse
Antioco. – Ti faccio vedere il mio grande sogno. Pompeo,
Crasso e il Senato aspetteranno qualche giorno in piú i
loro talenti d’oro».
- «Sí, ci terrei a vedere il
luogo dove il tuo Dio si rivela».
- Fu cosí che il re della
Commagene, Antioco, e il console romano Licinio Lucullo
iniziarono l’arduo pellegrinaggio alla montagna sacra,
il Nimrud Dag, lasciando la fertile terra che gli Assiri
chiamavano Kummuhu, per affrontare la salita al santuario
supremo voluto dal re per sé e il suo Dio. Un tempio che
fosse il piú vicino possibile al cielo, l’etemenanki
dove la divinità scendesse ad incontrare gli uomini.
- «Perché si chiama Nimrud
questo monte?» chiese Lucullo mentre la carovana,
lasciata la pianura, s’inerpicava su per i sentieri
aridi e pietrosi che conducevano alla vetta.
- «Prima che il Grande Diluvio
inondasse la terra – spiegò il re come se raccontasse
una fiaba a un bambino curioso – i sovrani erano anche
Sommi Pontefici, e collegavano gli uomini con la
divinità, con la quale potevano discorrere sulle alture.
Il re Nimrud, vincendo le ripetute avversità che il dio
del Male Ahriman gli procurava, fece costruire su questa
altura una ziqqurat, dove la divinità si
manifestava per illuminare e guidare gli uomini. In
seguito l’umanità cadde preda delle forze infere e il
tempio rovinò lentamente. Ora io lo sto ricostruendo».
- Erano
arrivati sulla cima del monte, dove ferveva un grande
cantiere. Tre ampie terrazze, volte rispettivamente a
Oriente, Occidente e Settentrione, erano state tagliate
nella roccia viva e i materiali di risulta erano serviti a
creare il basamento del santuario. Sulla terrazza
orientale si ergeva un altare contornato da statue
gigantesche.
- «Sono le divinità di tutte le
religioni che si fondono nel Dio unico: lo Spirito
vivificante che suscita e pervade la creazione visibile
del mondo».
- «Il pneuma divino di cui
parlano gli stoici Panezio e Posidonio» concordò
Lucullo.
- Varie iscrizioni erano incise
sullo zoccolo dei colossi posti a guardia dell’area
sacra: i lamassu a forma di sfinge, le aquile, i
leoni. Una iscrizione in particolare colpí lo stupefatto
console romano, che volle trascriverla per intero. Diceva:
“Io Antioco ho innalzato questo monumento a mia gloria e
a quella del mio Dio. Ho sempre ritenuto che la pietà è
di tutti i beni non solo quello il cui possesso è il piú
sicuro, ma anche quello il cui godimento è il piú dolce
per i mortali; che è la pietà a costituire la felicità
del potere e a renderne l’uso invidiabile, e durante
tutta la mia vita ho rispettato gli Dei come la custodia
piú fedele della mia sovranità e come un diletto
incomparabile per il mio cuore… Cosí dunque io concepii
il disegno di innalzare, in prossimità dei troni eterei e
su fondamenta inattaccabili dalle ingiurie del tempo,
questo hierothesion dove il mio corpo, dopo aver
vegliato tra le benedizioni, dormirà il sonno eterno,
separato dall’anima pia, involata verso le regioni
celesti”.
- «Perché un cosí ricco e
stupefacente santuario, Antioco – chiese poi Lucullo al
re – su questo monte impervio e lontano dalla tua
reggia? Cosa speri di ottenere dal tuo Dio?».
- «Che si manifesti agli uomini e
li ami». E proseguendo in tono solenne: «Ci saranno
feste e celebrazioni, e i miei sudditi verranno in
processione devota, offriranno fiori e miele, bruceranno
aromi e incensi, mentre musici e cantori accompagneranno i
riti, allietando i pellegrini che potranno nutrirsi in
abbondanza alle tavole consacrate dai sacerdoti».
- Mentre Antioco descriveva la
funzione del futuro santuario votato al Dio Solare,
Lucullo leggeva le iscrizioni scolpite sulle statue,
tentava di decifrare i molti simboli incisi o rilevati a
sbalzo. Cosí come tutti gli Dei rappresentati in effigie
si fondevano nell’Uno invisibile, anche gli elementi che
ne caratterizzavano la forma sintetizzavano tutte le
culture del tempo: l’egizia, l’ellenica e la persiana,
in un ibrido da cui risultava la quintessenza dell’arte
ispirata al Dio Unico.
- Un
grande bassorilievo raffigurante un leone attrasse l’attenzione
del console romano. Recava scolpite sul corpo dell’animale
e sullo sfondo teorie di astri. Lucullo notò la
congiunzione in cui venivano a trovarsi nella portentosa
scultura i maggiori pianeti, Giove, Mercurio, Marte e
Venere, con la costellazione della Vergine. Antioco
spiegò:
- «Gli astrologi predicono i
tempi nuovi, che annunciano la nascita di un grande re».
- «E quando dovrebbe accadere?»
chiese Lucullo.
- «Presto, molto presto… un re
di pietà e amore, un uomo-Dio. Noi qui – e indicò
ispirato il prodigioso sacrario che coronava la montagna
– lo attendiamo…».
- Trascorsero dieci anni, poi il
re della Commagene ricevette una lettera da Roma. Il suo
amico Licinio Lucullo lo informava che tutti gli alberi di
kerash avevano allignato sia nella sua fattoria del
Tuscolo sia soprattutto nel giardino della sua villa
urbana che dominava il Campo Marzio e la Via Lata. Fiori
bianchi e rosa avevano salutato la primavera, e quell’anno
frutti rosso scuro erano maturati con l’ultima luna di
maggio. Lucullo li aveva offerti alla grande cena in onore
del suo amico Nigidio Figulo, il quale aveva appena
pubblicato, con l’editrice amanuense di Tito Pomponio
Attico, un volume sull’esistenza degli Dei. La lettera
continuava spiegando che il simposio aveva anche voluto
salutare il poeta Catullo che s’imbarcava per la Bitinia
insieme alle legioni di Memmio. Con quell’impresa il
giovane poeta cercava, a suo dire, la Fortuna, ma
soprattutto di dimenticare Clodia, la Lesbia dei suoi
carmi. Se mai Catullo si fosse spinto fino a Samosata,
nella lettera il console romano chiedeva al re di
riceverlo con fraterna sollecitudine e condurlo al Nimrud
Dag. Era certo che lí il poeta avrebbe trovato la pace
dell’anima, come lui stesso l’aveva trovata dopo l’ascesa
alla montagna sacra.
- Ma invano Antioco attese il
giovane poeta, e la sua lettera di risposta a Lucullo
giunse a Roma troppo tardi per essere letta. Il suo amico
dormiva nella terra dei suoi Horti favolosi, la
stessa che nutriva gli strani alberi dai fiori bianchi e
rosa a ogni primavera e i cui frutti saporosi avevano la
polpa color sangue vivo. I Romani, per assonanza con l’etimo
originale, avevano definito cerasus quell’albero
straniero.
- Osservandone le fioriture
leggiadre e odorose, gustandone i frutti, sognavano di
regioni favolose ai confini del mondo. Ricordavano quell’uomo
straordinario, Licinio Lucullo, celebre in vita per le sue
manie estetiche, per le cene sontuose e interminabili che
offriva nella sua villa sul Collis Hortolorum,
piena di statue, fontane, dipinti, mosaici, pergamene.
Forse, concludevano con un certo rimpianto, quell’uomo
indecifrabile aveva cercato di ricreare, nella sua
perfetta dimora, l’Olimpo sulla terra. Un idealista,
dunque, conquistatore a sua volta conquistato dalle
misteriose dottrine delle province orientali. Come i
neo-pitagorici che lo avevano frequentato e che
attendevano l’alba del Grande Anno, quando la giustizia
avrebbe finalmente trionfato sulla terra e l’agnello e
il lupo si sarebbero addormentati l’uno accanto all’altro
in pace.