Ritualità

La folla era enorme, compatta, ondeggiava come un mare silenzioso dalla sommità dell’Arce capitolina, s’insinuava nei fornici della Porta Trigemina, dilagando per la spianata erbosa e umida del Foro Boario, fino alle sponde del fiume. In quel punto il Tevere, superato l’ostacolo dell’isola col sacello del dio Tiberino, placava il suo ribollio di schiume. Non piú costretta, l’acqua finalmente si spandeva per l’ampio greto creando l’unico guado naturale tra la città e il territorio etrusco. Proprio lí, dove brevi onde venivano a frangersi contro la rena dell’argine, doveva svolgersi la “prova dell’acqua” che avrebbe sancito, per iudicium Dei, la colpevolezza o l’innocenza della vestale Tuccia, la sua condanna o la sua salvezza. Morte e vita aleggiavano nell’aria ventilata, si rincorrevano tra le colonne del Tempio di Portuno, danzavano sui marmi dell’Ara Maxima dedicata a Ercole. Quale delle due entità avrebbe prevalso, segnando la sorte della sacerdotessa di Vesta accusata di sacrilegio?
La vergine si mosse dalla Casa delle Vestali, bianca e leggera. Le infule sacre le cingevano il capo. Reggeva con mano ferma il cesto che il Pontefice Massimo le aveva porto. Si incamminò spedita per la via che dal Foro, costeggiando il Palatino e tagliando il Velabro, raggiungeva il fiume. Mille occhi erano puntati sulla fragile sagoma candida che avanzava decisa, il vaglio tra le mani. La videro affrontare con la stessa sicurezza la correntía dorata che stremava le sue onde tra i ciottoli e la sabbia. Tuccia fissò lo sguardo al cielo, invocò la Dea perché le desse forza e tutela: un’ardente ma scarna preghiera, che ebbe però il potere di scuotere le anime degli spettatori e dei giudici. Un fremito percorse la folla, mosse a benevolenza la Dea oggetto della divinatio. Poi lo staccio venne immerso. Per attimi scomparve alla vista, soltanto trattenuto dalle mani della sacerdotessa. Quando riemerse grondante, Tuccia lo tenne alto davanti a sé, cosí che tutti potessero vederlo colmo fino all’orlo. Reggendolo sempre in quella positura, ripercorse la via e lo riportò fino al Foro. Qui ne versò il contenuto intatto ai piedi del Pontefice. La prova era superata, e cosí, con l’aiuto di Vesta, Tuccia fu salva e assolta da ogni sospetto.
Di quale colpa si era macchiata Tuccia? Probabilmente era stata accusata di negligenza, per aver lasciato la custodia del fuoco sacro, o peggio, per aver infranto il voto di castità, che prevedeva la condanna a morte. Ma la vergine non era colpevole di alcuna di queste due trasgressioni: l’unica sua mancanza, agli occhi dei detrattori, era forse il suo anelito alla purezza e alla perfezione, reati gravissimi per chi non è capace di simili slanci interiori. Per questo, le sacerdotesse di Vesta dovevano spesso difendersi da malevole azioni accusatorie e calunnie. In una altra occasione toccò alla vergine Emilia discolparsi. Per la negligenza di una novizia alla quale lo aveva affidato, il fuoco sacro si era spento. Accusata e condannata, provò la sua innocenza invocando la Dea e gettando sulle ceneri ormai fredde del braciere un lembo che aveva strappato dalla sua veste di lino. Dal brandello di stoffa si sprigionò una viva fiamma con la quale il fuoco sacro si riaccese.
Gli episodi, tra storia e leggenda, sulle gesta delle vestali innocenti descrivono due tipi di ordalia, il giudizio di Dio che gli antichi praticavano per stabilire la colpevolezza o l’innocenza di soggetti incriminati per sospetti indiziari e non in base a prove certe. Pur variando nelle liturgie rituali e nei procedimenti esecutivi, le ordalie, dal sassone Ordal o dal germanico Urtheil, venivano praticate mediante l’uso di elementi naturali direttamente o indirettamente collegati all’acqua o al fuoco. Nel caso del fuoco, camminare sui carboni ardenti, afferrare lame di metallo incandescente, passare in mezzo a roghi o pire ardenti senza bruciarsi. Nel Ramayana, l’eroina Sita, per fugare le gelosie e i sospetti di Rama, affronta la prova del fuoco e ne esce indenne e riscattata nell’onorabilità. Nel caso dell’acqua, poteva trattarsi di acqua bollente messa in un recipiente in cui il “prevenuto”, come veniva chiamato l’accusato, doveva immergere la mano per trarvi fuori un oggetto senza presentare segni evidenti di scottatura. Trattandosi di acqua ghiacciata, il prevenuto doveva esservi immerso e uscirne indenne, senza mostrare segni di congelamento.
L’acqua, di un lago o di un fiume, veniva adoperata in epoca medievale anche per i sospetti di stregoneria: l’accusato, col pollice della mano destra legato all’alluce del piede sinistro, veniva immerso nudo. Se affondava, come normalmente doveva avvenire, era segno di innocenza, e veniva quindi ripescato, se invece galleggiava, la sua colpevolezza era provata.
Accanto alle ordalie per acqua e per fuoco, ve n’erano altre che utilizzavano oggetti probanti, come la bilancia, che rappresentava una variante della prova di galleggiamento in acqua. Se il peso del sospettato si rivelava inferiore a quello che aveva prima della recitazione delle formule di scongiuro rituali, era colpevole. A volte, per fare da contrappeso, si usava la Bibbia. Se il reo era piú leggero del libro, la sua condanna era certa. Infatti, secondo la tradizione esorcistica, la mancanza o la riduzione di peso denunciavano l’appartenenza del prevenuto a una setta satanica, o lo dichiaravano praticante di stregonerie e malefíci.
Spesso l’acqua si prestava piú semplicemente alla preparazione di infusi o decotti a base di aconito e di altre piante velenose. Si otteneva la cosiddetta “acqua amara”. Era innocente chi la ingeriva senza riportarne conseguenze letali.
In altri casi, l’ordalia avveniva per inibizione psichica. Quella per giuramento (purgatio canonica) si applicava per lo piú nel caso di ecclesiastici accusati di simonía o sacrilegio. Si chiedeva loro di recitare l’incipit del Pater, del Gloria o del Vangelo di Giovanni, dopo aver giurato. Se l’accusato non riusciva a proseguire nell’enunciazione, la sua colpevolezza era sicura. In altri casi gli si chiedeva di inghiottire l’ostia consacrata. Il blocco della deglutizione costituiva un’altra prova di reità. In questa linea, gli anglosassoni praticavano l’ordalia detta corsnaed, derivante da un procedimento similare usato dagli Egizi di Alessandria. Dopo aver benedetto con apposite formule un pezzo di pane misto a formaggio caprino, si chiedeva al reo sospetto di ingoiarlo. Se gli riusciva impossibile deglutire, veniva condannato.
Come spesso accade, quello che in tempi remoti derivava dalla vera conoscenza, si degradava in forme di bassa superstizione, pallidamente reminiscenti delle alte scaturigini dei riti. A meno che, come nel caso del sangue, tali contaminazioni venissero interdette dalla potenza stessa dell’elemento. Vale qui ricordare la peculiarità del sangue: un misto di acqua e fuoco, liquido di coltura dell’Io, identità a sé stante, sospesa in una dimensione tra l’uomo e la divinità. Quasi una sorta di interfaccia che rende possibile scambi ed empatie tra immanenza e trascendenza, fisicità e soprannaturale, materia e spirito.
Famoso è il giudizio del sangue di cui ci parlano due testi della tradizione letteraria anglo-germanica. Nella Canzone dei Nibelunghi viene riportato il fenomeno prodigioso che riguarda il cadavere di Sigfrido. All’avvicinarsi del traditore Hagen, autore dell’assassinio dell’eroe della saga, le ferite emettono sangue vivo, come volessero gridare un’accusa dolente e terribile.
Lo stesso evento viene descritto da Shakespeare nel secondo Atto del Riccardo III, quando il protagonista si trova davanti alla salma di Enrico VI da lui trucidato:

Lady Anna:

«Oh, miei signori, guardate, guardate!
Le ferite del morto re Enrico
riaprono le bocche coagulate
e come fresche sanguinano…
E tu, deforme sconcezza, arrossisci,
poiché è a causa della tua presenza
che nuovamente questo sangue sgorga!»
Acqua e fuoco costituivano quindi gli elementi base della maggior parte delle antiche ordalie. In essi sono latenti forze sorgive e cosmiche, capaci di veicolare con efficacia e chiarezza i messaggi evocativi dall’uomo alla divinità o, come presso le popolazioni melanesiane e polinesiane, sollecitare l’intervento del mana, lo spirito immanente nella natura e nei suoi oggetti e fenomeni.
Fede o magia che fosse, l’ispirazione a monte dell’atto divinatorio scaturiva da un forte convincimento dell’esistenza del divino, del metafisico, o semplicemente del sovrannaturale, cui si demandava l’autorità piena del giudizio. Proprio perché esulanti dal limite delle leggi fisiche, tali forze agivano da segnali del mondo ultraterreno quali testimonianza ineccepibile della verità o della menzogna. Benché, al pari di tutte le azioni umane, si prestasse ad arbitri e forzature, l’ordalia, nelle sue varie forme, ha rappresentato quindi la necessità dell’uomo di avere una “giustizia vera”, affidabile, equa. Delegandone la potestà al Mondo spirituale, agli spiriti, alle forze occulte della natura, ai mana o alla semplice suggestione per arcani e misteri, egli ha cercato di garantirne la qualità e l’imparzialità, oltre a conferirle il crisma del sacro perché s’imponesse al rispetto delle comunità umane prescindendo dalle condizioni politiche e culturali vigenti in un particolare momento della loro storia.
Lo stesso Dante, nel De Monarchia, riconosce la validità dell’ordalia quale strumento per invocare il giudizio di Dio: «…ogniqualvolta il giudizio umano viene meno, o perché le tenebre dell’ignoranza nascondono la verità o perché manca un giudice autorevole, si deve ricorrere, se non si vuole che la giustizia resti negletta, a Colui che tanto l’amò da rispondere col proprio sangue alle sue esigenze» (Libro II, IX-1).
Fu con l’avvento dell’Illuminismo e con Montesquieu in particolare (Lo spirito delle leggi), che l’opzione trascendente della giustizia venne relegata tra le anticaglie delle umane credulità. Il positivismo logico poneva le basi delle scienze sociali ed economiche moderne, stabilendo che soltanto la Dea Ragione dovesse occuparsi degli ordinamenti giudiziari, oltre ad impartire le direttive per le scelte morali e civili dei popoli. L’indirizzo razionalistico sembrò allora quello giusto, e cosí giudici e avvocati hanno sostituito maestri e ierofanti.
Ma ciò non ha costruito quel paradiso che il materialismo agnostico prometteva, sottraendo l’umanità alle fumerie d’oppio delle religioni e del sovrannaturale. E la giustizia non è migliorata. Molti popoli tuttora applicano la legge del taglione, eseguono condanne capitali, sottopongono i rei, o ritenuti tali, a detenzioni oltraggiose della dignità umana. E non è detto che tali deterrenti servano a scoraggiare il crimine, il quale non solo non è diminuito, ma si è connotato di un cinismo e di un’abiezione sconosciuti ai rei delle antiche ordalie.
L’uomo della terra, avendo abbandonato Dio, è solo, perduto in un territorio senza riferimenti affidabili, pur se con infiniti e sempre nuovi miraggi. Era previsto che ciò avvenisse. Egli doveva stabilire un nuovo rapporto con la Divinità, perché la ricercasse non nelle forme esteriori, bensí in se stesso. Doveva capire che il mirabile oggetto di sublimazione non è nel feticcio, ma nel segreto tabernacolo dell’Io. Comprendere infine che non sono le leggi contenute nei codici, che servono solo a punire o a coartare, a poter realizzare l’essere morale. L’uomo eticamente e spiritualmente compiuto avrà come polo di riferimento la propria interiorità, unica forza da chiamare in causa a testimonianza e tutela del vero e del giusto. Essendo in lui da sempre, trascurata ma viva, l’alta legge del cuore.

Leonida I. Elliot