Sociologia


Il dramma, le sofferenze, il montare del caos, il male, le stesse calamità naturali sono di fronte a noi per rammentarci che la soluzione dei problemi attuali, primariamente della questione sociale, non può che conseguire alla soluzione del problema “uomo”. Questo non significa invocare masochisticamente il male come mezzo purificatore; tanto meno accettarlo supinamente quale castigo di un Fato ineluttabile. Piuttosto vuol essere una presa di coscienza di fronte ad un panorama storico che mostra una esasperazione di tutti gli aspetti negativi già presenti nell’umanità. Non ci si può consolare affermando che guerre, stragi, terremoti vi sono sempre stati. È vero ma diluiti nel tempo, coinvolgendo territori limitati, mentre oggi sentiamo montare intorno a noi la marea della distruzione: da quella totale, nucleare, alla improvvisa follia del vicino di casa, dal succedersi incessante delle calamità naturali, al diffondersi del terrorismo e della delinquenza comune. Chi ha a cuore le sorti dell’uomo, chi sente suo dovere assumere un impegno di socialità non può non chiedersi quali siano le cause del disordine esteriore e interiore che ci coinvolge tutti, e non può non paventare la peggiore delle ipotesi: che tutto questo male, tutto questo dolore, tutti questi sacrifici ci investano inutilmente perché non abbiamo saputo comprenderne il significato.
L’uomo, nel corso della storia, ha perso gradatamente il sostegno che gli derivava dall’ordine e dalle gerarchie conseguenti ad una ispirazione religiosa che compenetrava tutta la vita, tutte le relazioni sociali, lo svolgersi stesso delle diverse attività lavorative. Il discendere dall’età dell’Oro all’età del Ferro è uno dei tanti miti che accennano a questo processo. L’uomo, sacerdote, re, guerriero, contadino, sentiva di essere inserito in un ordine divino, il quale poteva anche essere trasgredito ma che per la sua peculiarità non veniva mai compromesso nella sua stabilità essenziale.
La casta, la tribú, il regno, la città-Stato, lo stesso feudo, la corporazione rappresentano la collocazione dell’individuo, a seconda delle sue capacità e del particolare momento storico, nell’ordinamento collettivo civile e religioso del quale egli si sentiva un arto, un membro, e dal quale riceveva sostegno ed equilibrio, mentre, nel corso dei secoli, egli, da una condizione felice, simile al sogno, veniva lentamente inserito nel mondo fisico. Questa discesa gli era necessaria perché nascesse in lui l’impulso all’individualità; da stirpe, da casta, da classe, da vassallo, doveva iniziare a nascere come personalità. Cosí ognuno di noi ha sentito sorgere in se stesso l’impulso all’individualità, esprimentesi mediante la possibilità dell’atto arbitrario quale inizio di una potenziale libertà. Questa vera e propria nascita dell’uomo, che tutti sentiamo come qualcosa di grandioso se ci fermiamo un attimo ad ascoltare noi stessi, non poteva che realizzarsi mediante la perdita degli antichi sostegni, degli antichi ordinamenti sociali e religiosi, mediante una serie infinita di ostacoli interiori ed esteriori, affinché tutto questo non fosse una legge evolutiva estranea all’uomo, un processo gratuito, bensí una sua conquista cosciente.
Può questa conquista identificarsi con il solo benessere materiale? Può essere solo una questione normativa, di statuti, di decreti legge, di rappresentanze sindacali, di partecipazione alla gestione, anche se queste cose hanno la loro importanza? Può trattarsi soltanto dell’avvicendarsi di una classe all’altra, di un partito all’altro? Il vero uomo che nel profondo aspira all’autocoscienza, che sente essere giunto il tempo in cui può iniziare a prendere in mano le redini del proprio destino non subendo piú il predominio delle apparenze esteriori e dei propri istinti inferiori, può appagarsi di una opaca sistemazione esteriore della società, di uno Stato sopravvissuto agli antichi ordinamenti e che pertanto, con mentalità antica, vuole condurre per mano il cittadino tutta la vita? Può essere soddisfatto di un collettivismo economico il quale, in sostanza, lo sospinge verso l’anima di gruppo, verso la classe o la casta, interpretate con le ideologie moderne, senza nemmeno il sostegno e il conforto della religiosità del passato? No di certo!
Un uomo che aspiri veramente alle sue responsabilità coscienti, alla sua libertà interiore – senza la quale quella esteriore non ha significato in quanto facilmente dominata dalle brame e dagli istinti – deve gradualmente raggiungere la consapevolezza che socialità, ordine, equilibrio economico, giustizia sociale, possono venire soltanto dalla estrinsecazione delle forze spirituali profonde celate nella sua interiorità. Non possono che essere il frutto della conquista di una superiore umanità, l’unica che contenga in sé i princípi di socialità e di fratellanza autentici. In altre parole la realizzazione di una vera spiritualità nell’individualità, mediante la libertà e l’autocoscienza, al fine di riconquistare, per autonoma decisione, quei valori che in passato gli erano stati donati e che doveva provvisoriamente prendere per iniziare a realizzare l’uomo del futuro.
Il vero “sole dell’avvenire” è in sostanza la luce che ogni uomo è capace di accendere in se stesso.
Il piú grande inganno, che sta patendo il proletariato nella nostra epoca, è quello di non essere aiutato a riconoscere la sua aspirazione piú profonda, ma non ancora cosciente: la nascita dell’uomo interiormente libero.
Oggi, specialmente in Occidente, il proletariato tende a vivere esteriormente da borghese: la macchina, le ferie, la stessa casa o quasi, facilitato in ciò dal migliore livello retributivo e dalla maggiore disponibilità dei beni di consumo. Contemporaneamente egli respinge il pensiero borghese, la cultura, l’arte, le manifestazioni religiose; sente che appartengono al passato e che non contengono piú nulla di vivente: sono solo l’eco di una indubbia grandezza, impotente però a risolvere sino in fondo i problemi attuali, sia morali sia economici. All’origine di tutti i moti sociali della nostra epoca, di tutte le contestazioni, di tutte le rivoluzioni, di tutte le caotiche rivolte dei popoli meno sviluppati, di molte nevrosi collettive, del riproporsi continuo dell’insoddisfazione, possono esservi sí componenti sociali, politiche, economiche obiettive ma soprattutto vi è, inconosciuta, una profonda aspirazione ad un sostanziale mutamento spirituale.
Gli intellettuali, da piú di un secolo, stanno offrendo agli uomini considerati come sfruttati, una giustificazione dottrinaria alla loro rivolta. Una giustificazione in linea con il pensiero analitico-razionale, rispondente pertanto a quella dimensione priva di vita che il proletariato respinge, ma che lo coinvolge in superficie con la sua dialettica brillante richiamantesi ad indubbie ingiustizie ancora esistenti. Essa oltretutto è in sintonia con quella dimensione materialistica, che oggi tutti subiamo, come tappa intermedia per la nostra evoluzione. Da qui il successo della teorizzazione della lotta di classe e dell’assalto al sistema di potere capitalistico e borghese. Teorizzazione sistemata e propagandata, persino imposta, però da “borghesi”, i quali non avendo sentore del moto profondo, dell’esigenza di una spiritualità nuova che vive nel proletariato, lo risospingono verso l’alienazione, verso una sterile lotta politica e sindacale; stimolano in lui la parte inferiore, il mondo degli istinti e della paura, dell’avversione e dell’odio. Lo costringono a rimanere “proletariato” nel momento storico in cui egli sente nel profondo che è giunto il tempo di trasformarsi da classe in uomo.
L’intellettuale “impegnato” critica il sistema, con tutti i suoi evidenti errori, si getta contro il potere, giustificando in qualche caso persino la violenza, confuta qualche volta lo stesso marxismo, ma in fondo sente se stesso come il privilegiato che ha compreso tutto e che pertanto può anche vivere non di certezze ma di dubbi, perché in sostanza è appagato dalla sua attività artistica o culturale, dai suoi libri, dal conforto che trae dai concerti, dal teatro, da una contemplazione estetica della natura. Egli critica e disprezza ma con la stessa dimensione razionale che ha prodotto gli errori posti sotto accusa, non esce dai limiti provenienti dal passato, percepiti invece inconsapevolmente dal proletariato come qualcosa di definitivamente morto. Anche il piú sincero, il piú disinteressato, il piú buono degli uomini di cultura “impegnati” è vittima di questa contraddizione. Cosí come i “conservatori”, coloro i quali, con altrettanta buona fede e buona volontà, vogliono difendere gli antichi valori, resuscitare l’antica moralità, ridare forza alle leggi, non si rendono conto che tutte queste aspirazioni, se hanno un significato per loro, come ultimi bagliori di una luce che si va spegnendo, non possono che essere ben poca cosa per chi attende una nuova moralità creata coscientemente, un nuovo senso di giustizia adeguato agli attuali problemi della coesistenza sociale, un nuovo ordine che rappresenti l’aiuto per tutti a realizzare una umanità piú elevata.
Di fronte al fallimento di tutti i sentimentalismi religiosi e sociali, di fronte al crollo di tutte le concezioni ideologiche o pragmatiche, è giunto il momento di prendere in considerazione l’ipotesi che l’uomo aspiri ad una dimensione piú profonda, ad una spiritualità nuova. Lo dimostra il rinnovarsi continuo dell’impulso di rivolta sociale, esprimentesi nelle forme piú diverse anche quando si è raggiunto il benessere economico, anche quando si vive nei paesi del socialismo reale. Lo dimostra l’insoddisfazione dell’intellettuale che, nei momenti di sincerità, sente tutta l’impotenza della sua cultura e per questo trasmigra da una moda all’altra, cercando di nascondere molte volte la propria angoscia dietro il successo mondano.
Urge, piú di quanto non appaia, piú di quanto non si creda, nell’uomo attuale una richiesta di dignità. Una parte dell’uomo sa, nel profondo, che solo da una dimensione spirituale piú elevata può costruire nuovi rapporti sociali, piú evolute soluzioni economiche, una cultura piú nobile. Ma vi è un’altra parte che tenta di appagarsi mediante il benessere esteriore, mediante mitologie politiche esprimenti solo vortici di parole, mediante stati d’animo e istinti che si scatenano in lui facendolo girare per le piazze con un mitra o una spranga di ferro in mano, convinto di essere il duro che schiaccia l’avversario ma in fondo cercando di sfuggire alla paura che lo travolge dall’interno: paura di se stesso, paura di guardare ciò che veramente è, paura di perdere quei pochi labili sostegni che gli sono rimasti. La stessa paura che spinge altri verso l’alcool e la droga.
Questa tragica contrapposizione sta ad indicare che è giunto il tempo delle scelte. Ogni uomo, ricco o povero, borghese o proletario, raffinato intellettuale o persona di modesta cultura, essendo un essere potenzialmente libero, è posto di fronte ad una scelta. Può decidere per l’ovvio, per la prepotenza del solo apparire fisico, per l’abbandono totale ai propri istinti inferiori ed ai propri comodi. Può accontentarsi del benessere afferrato con una serie interminabile di compromessi; può sentirsi buono perché obbedisce a tutti i canoni moralistici o alle direttive del partito, mentre in sostanza ha venduto la sua anima come Faust; può rinunciare alla sua personalità per divenire massa, gregge, affinché il mito della materia, il mito della ideologia, il mito confessionale sembrino pensare per lui. Oppure può scegliere la via della dignità. È una scelta che non può piú essere mediata dalla classe, dalla categoria, dal partito. È la decisione dell’uomo, qualunque attività o lavoro svolga. Certo non è una scelta facile e comoda, ma è un atto di coraggio per il quale non vi è bisogno di essere mostri di cultura o professionisti dell’impegno politico, non vi è bisogno di fuggire dalla città per ritornare allo stato di natura o mettersi a fare l’eremita in cima ad un monte, non vi è bisogno di divenire buddisti o induisti o altre cose del genere.
Come realizzare dunque una autentica dignità? Ponendosi di fronte a se stessi per riconoscersi in ciò che è in grado di non subire le suggestioni e le apparenze, in ciò che è capace di iniziare a identificare la validità e la sostanza delle cose e degli eventi. Alimentando in se stessi la volontà di pervenire ad un pensare autonomo dalle mode, dai dettami dei mass-media, dall’imperio degli istinti, dalle stratificazioni conseguenti alla propria razza, alla propria nazionalità, alla propria posizione sociale. Imponendosi di far procedere ogni azione dalla riflessione di ciò che è giusto, obbedendo prima ad un proprio codice interiore e poi naturalmente alle comuni leggi vigenti, sforzandosi di immaginare le conseguenze delle nostre decisioni sugli altri. Assumendo una posizione cosciente nella propria attività per agire secondo l’oggettività, secondo l’obiettività dettata dalla realtà, controllando le nostre velleità, le nostre vanità, i nostri rancori, la nostra inclinazione a pretendere tanti diritti in cambio di pochi doveri; evitando infine di togliere agli altri quello spazio, quella possibilità di espressione che soffriamo quando non sono concessi a noi. Questo non deve certo significare il condizionamento assoluto al proprio lavoro e la rinuncia ai giusti vantaggi materiali. Si tratta piuttosto di comprendere che armonia, benessere, pace sociale, possono conseguire soltanto se si riconosce l’importanza di saper donare le proprie capacità serenamente, dal momento che l’uomo comincia a realizzarsi esercitando seriamente la funzione che il destino lo ha chiamato a svolgere, anche se questa può essere quanto mai ingrata. Tanto piú che tutto quello che gli serve per vivere, per muoversi, per svagarsi, per educare il suo spirito egli lo riceve dagli altri e quindi non può sottrarsi al compito di restituire loro, senza riserve, quanto le sue doti personali gli consentono di attuare.
Tutto ciò non vuol essere un appello moralistico, un proclama ad un superficiale “volemose bene” e ad una generica fratellanza. Piuttosto un invito a comprendere che non vi sarà mai giustizia sociale e una giusta convivenza, se prima l’uomo non restituirà dignità a se stesso, identificando la sua parte piú elevata e assumendo coscientemente e liberamente la responsabilità del proprio destino. A ben guardare non vi è vicenda familiare, non vi è difficoltà o contrasto nel luogo di lavoro, non vi è ostacolo, evento tragico, malattia che non rappresentino, nell’essenza, una richiesta di scelta, una occasione di sostanziale evoluzione per l’uomo. Per questo è inutile scagliarsi contro lo Stato, contro l’inefficienza delle leggi, contro il padrone o il dirigente o il sottoposto. Il livello di conoscenza, le istituzioni, le vicende economiche attuali sono lo specchio della nostra caduta, della nostra provvisoria involuzione: esse hanno il compito di distruggere il passato affinché l’uomo realizzi in se stesso le forze piú elevate della sua personalità per libera decisione, e da queste forze poi sappia trarre gli impulsi per creare una società nuova.
Siamo dunque di fronte ad un compito che non è precluso a nessuno. Qualsiasi uomo oggi, qualunque sia la sua posizione, può contribuire, dal posto che occupa, alla costruzione di una nuova società. È urgente ormai essere convinti che non esiste uomo inutile sulla Terra; non esiste essere umano che non sia posto di fronte alla sua occasione di scelta. Sentirsi alienati, emarginati, esclusi dalle grandi decisioni, avere l’impressione di essere una marionetta nelle mani del potere politico o del potere economico, ritenere di essere disprezzati perché si lavora con le mani, rappresentano prima di tutto una condizione interiore che sta a noi superare. Non aver ancora compreso il senso profondo delle vicende sociali e umane, ci respinge, ci comprime in una situazione negativa, certamente reale, ma della quale siamo noi stessi gli artefici e dalla quale potremo cominciare ad uscire assumendoci la responsabilità completa degli avvenimenti che sembrano investirci dal di fuori e che sono invece la nostra richiesta profonda di prove da superare, affinché si realizzi la dignità umana.

Argo Villella (2. continua)

Edito a cura di G. Simoncini per la Cooperativa Pico della Mirandola, Bologna 1986