Tempi di guerra

Luigi finí il disegno: una casetta tra gli alberi sotto un cielo azzurro, con un comignolo fumante, vicino a una chiesetta con un alto campanile su cui brillava una grande stella con la coda, cosí come la ricordava appesa alla carta-montagna e al sughero della capanna nel presepe di casa sua. Colorò alla meglio lo schizzo, usando dei mozziconi di matita superstiti nel corredo di cancelleria della Compagnia. Vergò due parole di augurio, senza lasciarsi andare alle solite lamentele sul clima russo, ai rimpianti per le serene atmosfere di casa, come aveva fatto anche nell’ultima lettera alla moglie. Non voleva rischiare che quella cartolina di Natale, diretta in particolare ai figli, venisse censurata. Inoltre al rigore dei controlli del suo comando si aggiungevano le maglie serrate dell’esercito nemico. I russi si trovavano ormai a pochi chilometri, chi diceva sessanta chi meno. Stavano chiudendo il cerchio intorno all’Armata Orientale italo-tedesca sul fronte del Don. Chissà se quella cartolina sarebbe mai riuscita a passare.
Magro Natale si preparava. Avevano terminato tutto, perché ormai i rifornimenti non riuscivano piú a forzare il blocco e spesso venivano catturati dal nemico, il quale in cambio mandava senza sosta obici e razzi che cadevano dopo sibili interminabili, squassando gli accampamenti e seminando morte e rovina. Di tanto in tanto venivano ordini di rispondere al fuoco. I pochi proiettili rimasti dovevano essere manipolati con la massima attenzione, a mani coperte, perché se per distrazione o incuria uno poggiava la mano nuda sul metallo ghiacciato, rischiava di lasciarci sopra un pezzo di carne. Il dolore non lo avvertiva subito, ma dopo, al caldo, la ferita si apriva e cominciava a sanguinare. Il gelo non perdonava. E non era il freddo degli inverni italiani. Dalle parti di casa sua, la neve non l’aveva mai vista se non qualche spruzzata sulle montagne piú alte del golfo, nei giorni di tramontana a febbraio. E non era neppure la neve ovattata e mite delle Alpi bellunesi, dove lo avevano mandato a fare le esercitazioni prima della partenza per il fronte russo. Le montagne del Trentino erano umane, addomesticate. Anche quando faceva freddo, si poteva contare su lunghe schiarite di sole che scaldava, illuminando il mondo.
L’inverno russo era una cosa diversa: una condanna per la natura e per gli uomini. La terra spariva sotto metri di ghiaccio, il vento non smetteva mai di soffiare sempre dalla stessa direzione, dal Nord-Est, dalla steppa siberiana, e ululava come un branco di lupi affamati. Poiché legna e petrolio erano ormai razionati al massimo, lo Stato Maggiore aveva stabilito che l’unica stufa che poteva venir alimentata fosse quella della baracca comune, dove accedevano a turno anche i soldati, specie quelli che montavano la guardia, per scaldarsi prima e dopo l’impatto con il gelo esterno. Chi non riusciva a godere di quel privilegio doveva stare attento a non addormentarsi per un troppo lungo lasso di tempo: durante la notte il freddo era tale che un corpo immobile poteva anche non sopportare il calo di temperatura e non risvegliarsi piú. Oppure si rischiava il congelamento dei piedi o delle mani.
Luigi stava consumando il suo turno alla stufa, un enorme aggeggio di maiolica e ferro confiscato in un’isba durante l’offensiva di ottobre, quando il fango non aveva ancora bloccato l’esercito, consegnandolo poi al ghiaccio dell’incipiente inverno. Si era messo a sedere al tavolo di legno scuro e godeva di quel tepore che le sue ossa parevano voler assorbire per non perderlo piú, almeno per la durata del turno di guardia che stava per iniziare. Mentre rigirava la cartolina fra le mani, immaginò di viaggiare con lei verso l’Italia e di giungere a casa sua proprio la vigilia di Natale. I bambini, dopo la gioia del suo ritorno, avrebbero cominciato a disputarsi l’onore di portare il piccolo Gesú di creta nella mangiatoia del presepe, e suo padre a mezzanotte avrebbe intonato il Te Deum, seguito dagli altri. Sua moglie, dopo il primo tenero abbraccio, l’avrebbe forse rimproverato per il lungo periodo di lontananza, come faceva nelle lettere, dalle quali si capiva che non si rendeva conto della sua reale situazione: che lui stava al fronte, immerso nel ghiaccio, e già tanti erano morti, sepolti in tombe di fortuna scavate nella dura terra, lungo la strada dell’avanzata prima e della ritirata dopo, quando la controffensiva russa li aveva ricacciati, pesti e affamati, sulla riva del grande fiume.
Eppure, quella terra che ora dormiva sotto metri di neve rassodata e tagliente, era apparsa, quando erano arrivati nel mese di luglio, rigogliosa e provvida come una matrona. Mèssi ovunque, a perdita d’occhio. La tradotta era partita da Belluno, aveva attraversato il confine dopo Gorizia, era entrata per un breve tratto in Jugoslavia e poi in Austria. Il treno su quel percorso correva spedito. La guerra non si faceva ancora sentire. Avevano attraversato tutto il territorio che era nelle mani degli alleati tedeschi. A Vienna era previsto il congiungimento con l’armata del Reich, che insieme all’italiana avrebbe dovuto piegare, in pochi mesi di campagna, al massimo all’arrivo dell’autunno, la potente armata sovietica. Sicuramente, contro le forze dell’Asse a poco sarebbero valsi gli sforzi dei mugiki russi, che la propaganda voleva male armati e mal guidati. E inoltre, amavano poco il regime che li teneva sottomessi.
E invece, era arrivato l’autunno col fango e la neve dell’imminente inverno; presto sarebbe giunto il Natale, che avrebbero trascorso in quella terra senza montagne, dai lunghi orizzonti.
Una voce alle sue spalle disse: «Bravo, Di Filippo, pensi alla famiglia. Bravo, mi complimento!».
«Signor tenente – rispose Luigi scattando sull’attenti – non l’avevo sentita entrare. Stavo scrivendo una cartolina a casa per Natale…».
«Bello questo disegno, pieno di poesia – L’ufficiale esaminò lo schizzo, sorrise. Poi, dopo un sospiro, riprese: – Eh, questa guerra! Ci tiene lontani dagli affetti. È la rinuncia piú grande. Ma il premio sarà altrettanto grande. È solo questione di giorni. Arriveranno i rinforzi dalla Germania. L’accerchiamento verrà rotto e noi passeremo al contrattacco. Vinceremo, bisogna crederci».
L’ufficiale se ne andò e Luigi si rimise a sedere, stringendosi ancor piú alla stufa. Quella specie di macchina di calore era l’unica certezza in quella confusa situazione. Tutti parlavano dei soccorsi dalla Germania, dei viveri e dei medicinali che dovevano essere paracadutati o che dovevano raggiungere il fronte con convogli speciali di carri blindati scortati da panzer. Ma era una vaga speranza. La stufa, invece, era una garanzia: dava un calore immediato, non una promessa per un tempo di là da venire. Vicino a lei si riceveva subito il premio della sua amicizia gratificante. Le parole del tenente, un giovane toscano, non bastavano a riparare le suole delle scarpe, che si erano rivelate di cartone pressato.
«Mi sentiranno!» aveva tuonato il generale, quando due settimane prima aveva passato in rassegna gli organici e la truppa. Aveva promesso di scrivere a Roma, di punire i responsabili. Poi, pochi giorni dopo, una granata lo aveva ucciso durante un’azione di ripiegamento. E la sua lettera chissà dov’era finita. O forse non aveva neppure avuto il tempo di scriverla.
Ad un tratto Luigi pensò che anche quella sua cartolina avrebbe potuto non arrivare mai nelle mani dei suoi figli, nemmeno partire dall’accampamento. I proiettili russi colpivano alla cieca, tutto e tutti. Frugavano nel buio del cielo e poi toccavano l’obiettivo, polverizzandolo. Di un pezzetto di carta cosí non sarebbe rimasto neanche un brandello. La ripose gelosamente in tasca. L’avrebbe spedita l’indomani. Ma per quella notte che avrebbe dovuto passare di guardia, voleva tenersela addosso. Era come se i suoi figli e sua moglie l’avessero già toccata, guardata, baciata.
Entrò, con una folata di vento ghiacciato, il piantone che lo aveva preceduto nel turno.
«Fuori è un inferno – si lamentò cadendo pesantemente sulla panca presso la stufa. – Se non ci fosse questa, mi sarei buttato contro gli obici che cadevano tutt’intorno. Almeno sono caldi, quelli!».
«Mi sembra che un poco ti hanno scaldato!» osservò Luigi, notando che il commilitone portava sulle tempie i segni di schegge che gli avevano lacerato la pelle, facendolo sanguinare.
L’altro non ci fece molto caso. Si era letteralmente addossato al corpo della stufa e godeva di quel calore, chiudendo gli occhi per sentirlo piú intensamente.
«Di Filippo! – la voce del capoposto chiamò dall’esterno della baracca. – È ora!».
Luigi si alzò dalla sua comoda posizione, avviandosi verso la porta. Aveva già varcato la soglia quando il capoposto gli gridò, con voce preoccupata:
«Occhi aperti, e mantieniti a ridosso dei camminamenti, senza esporti troppo!».
Ma Luigi era già fuori nella tormenta e non udí le raccomandazioni del commilitone. Affondò nella neve, il vento lo investí con una folata violenta che lo fece traballare. Strinse il punto dove aveva riposto la cartolina. In quel momento un proiettile tracciante illuminò il cielo, dove turbinavano fiocchi e aghi di ghiaccio, delineando una striscia di fuoco dorato. Per un attimo somigliò alla cometa che aveva disegnato con il pastello sulla chiesetta. Ma fu un segno rapido, effimero, crudele. La stella di Natale annunciava una vita che nasceva, questa voleva dire morte. Si tirò su il bavero del pastrano, duro come una pietra. E pensò che se tutto fosse andato bene, se una di quelle comete assassine non lo avesse baciato, sarebbe tornato dopo le ore di guardia all’abbraccio della stufa, nella baracca.

Ovidio Tufelli