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Chi guardi la filosofia occidentale non semplicemente per apprezzarne lo svolgersi teoretico, ma per intendere che cosa significhi in quanto storia dello spirito, trova che essa tende alla conquista di una dimensione nuova del pensiero: il “pensiero puro”. È una via che attraverso Kant, Hegel, Fichte, Schelling, e l’idealismo italiano da Vico a Gentile, si scioglie dai vincoli dell’antica logica per esprimere un valore essenziale: la virtú sintetica del pensiero, condizione di ogni logica. Si può dire che si esce dal dominio dell’antica metafisica platonico-aristotelica, per operare ad una nuova metafisica: che si è iniziata, ma non si è fatta. Ed è stato come se un’alta impresa dello spirito fosse fallita.
Già Kant, malgrado il suo essersi arrestato alla “sintesi a priori” e alle “categorie” nella ricerca delle fonti prime del conoscere, intuí la possibilità di una percezione sovrasensibile. Svolgendo l’Analitica del Sublime egli osserva: «Sublime è ciò che, per il fatto di poterlo anche solo pensare, attesta una facoltà dell’anima superiore ad ogni misura dei sensi»(1).
Nell’idealismo germanico, come in quello italiano, che ha una sua inconfondibile originalità, l’esigenza del pensiero puro è di continuo correlata alla visione di fondo di un puro essere in cui va a estinguersi ogni determinazione e sorge l’idea di vuoto, o di “indeterminazione” in cui il pensare stesso ha la sua sorgente: ma non il pensare ordinario, bensí il pensiero-essenza, o pensiero puro: il cui svolgimento non può essere piú la logica formale, ma la logica dell’essenza.
Il risalire dalle determinazioni concettuali, dai giudizi sintetici e dalle categorie al “pensiero puro”, o pensiero-essenza, che già contiene in sé ogni sintesi, mentre in sede filosofica è stato veduto come la possibilità della “ragion pura” o del “logo concreto”, dal punto di vista della storia dello spirito, invece, risulta ciò a cui tendeva effettivamente il processo della filosofia occidentale. Il confronto con un’analoga possibilità che l’Oriente, sia pure in altra forma, ha realizzato, può illuminare il senso di quella che è ancora la piú elevata possibilità del pensiero in un momento in cui si dà il pericolo, per la filosofia, di ricadere non soltanto in una logica “realistica”, ma nella forma ancora piú astratta quale la “logica del discorso” o logica simbolica: che non è soltanto la crisi della filosofia, ma quella stessa dell’umano pensiero in senso universale, di quello che, malgrado il suo tirocinio scientifico, diviene ogni giorno di piú formalismo verbale e retoricamente sistematico, che afferra dell’esperienza soltanto peso misura e movimento, e a tali termini tende a ridurre l’universo(2).
Avendo come pietra di paragone la nozione del vuoto data in forma d’imagini nel Taoismo, ma anche come dottrina articolata in pura forma intellettuale nel Buddhismo mahayanico, si potrebbe non soltanto guardare a quel valore metafisico a cui veramente tendeva il processo del pensiero occidentale, ma altresí intendere di che cosa dovrebbe liberarsi la coscienza dell’uomo della presente civiltà ove intendesse ritrovare quello stato di purezza, o di relazione essenziale con l’essere, vagheggiato per esempio da E. Husserl nella sua “fenomenologia”, ma prospettato in termini di una precisa ascesi da J. Krishnamurti e ultimamente da E. Jünger.
Dovrebbe essere compreso quello che voleva essere effettivamente la filosofia europea. Si guardi, per esempio, al “puro essere” di Hegel. Un pensatore italiano, Bertrando Spaventa, si può annoverare tra i pochi che ne abbiano afferrato il senso: dopo aver osservato come la ricerca dell’“essere veramente esistente” già presente nell’immagine del congressus in Protagora, divenga l’esigenza dell’“essenza” del conoscere in Trendelenburg, Herbart, Kant, Rosmini, egli cosí si esprime: «Hegel crede di dover andare piú indietro ancora, piú in fondo, al vero originario, a quello che non presuppone niente dietro o sotto di sé e che è presupposto da tutto, e che moto, enti, sintesi, presuppongono: all’assoluto minimum, a quello, tolto il quale, non rimane piú nulla, cade ogni cosa: eccetto – e questa è la necessità del pensare – quello che ha tolto tutto ciò”(3).
In effetti tutta la Wissenschaft der Logik di Hegel si può riassumere in un’unica idea: che il pensare sorgivo, il pensare ancora non determinato in concetti, o pensiero puro, presuppone il vuoto. Non è la logica il punto di arrivo di Hegel, come troppo si è creduto, ma ciò che essa presuppone. Si ricordi, ad esempio, il tema dell’essere come “immediato indeterminato”: «Essere, puro essere, senza alcuna altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza, esso è simile soltanto a se stesso ed anche non dissimile di fronte ad altro: non ha alcuna diversità né dentro di sé né all’esterno. Con qualche determinazione o contenuto che fosse diverso in esso, o per cui esso fosse posto come diverso da un altro, l’essere non sarebbe fissato nella sua purezza. Esso è la pura indeterminazione e il puro vuoto»(4). Identica è l’indeterminazione del nulla: «Nulla, il puro nulla. È semplice somiglianza con sé, completa vuotezza, essenza di determinazione e di contenuto: indistinzione in se stesso». Cosí che può giungere all’affermazione che ci interessa riguardo al tema da noi trattato: «Il nulla è cosí la stessa indeterminazione o meglio assenza di determinazione, epperò in generale lo stesso che il puro essere»(5).
Risalendo la corrente del filosofare occidentale, cosí come della letteratura mistica, si potrebbe trovare in diverse espressioni la stessa idea del vuoto. Si guardi, per esempio, l’aphele panta di Plotino o il vacare Deo di San Bernardo; si ricordi il «non pensare ad alcunché e neppure a Dio» di San Bonaventura [Non ibi oportet cogitare res de creaturis, nec de Angelis, nec de Trinitate(6)]: tanto per accennare ad esperienze distinte, ma analoghe, riguardo alla esigenza di uno “svuotamento” dell’anima.
Non intendiamo soffermarci su analogie metafisiche tra Oriente e Occidente già sufficientemente rilevate. [Cfr. lo studio comparativo di Swami Siddheswarananda su La notte oscura di San Giovanni della Croce e l’Astamgayoga di Patñjali(7)]. Ci interessa piuttosto, ai fini del presente articolo, rilevare la forma precisa con cui dall’XI al XII e al XIII secolo A.D. una esperienza del genere viene riproposta dalla Scuola di Chartres attraverso il mirabile insegnamento di Pietro di Compostella e di grandiose figure come Bernardus di Chartres, Alanus ab Insulis, Bernardus Sylvestris e Giovanni Salisbury, il cui livello metafisico viene conseguito in Italia da quel luminoso asceta pensatore che è Gioacchino da Fiore. Essi fondano la loro visione della “natura vivente” sulla percezione interiore dell’essenza vuota dell’essere. Il vuoto viene veduto dai Maestri di Chartres come il “superceleste”. Alanus ab Insulis, riprendendo il motivo di Eriugena della Superessentialis Usia, cosí si esprime nella Regula II: «In supercaelesti unitas, in caelesti alteritas, in subcaelesti pluralitas». La forza autentica della Scuola di Chartres è in effetti Alano da Lilla, doctor universalis, il cui sforzo consiste nell’esprimere in forma nuova l’antica saggezza: che non è solo Platonismo, ma dottrina misterica di origine pre-platonica, cui tuttavia la dottrina del “Logos incarnato” e la dialettica aristotelica danno evidentemente nuova forza(8).
Una immagine la cui contemplazione avvia il discepolo a trasferire gradualmente il centro di sé nell’essere indipendente dal corpo, viene data ai discepoli di Chartres nella seguente espressione: “la Quiete delle Gerarchie”. Le Gerarchie operano nei diversi gradi della manifestazione, traendosi da un fondamento che è l’Assoluto: proprio nell’essere se stesse, esse sono l’Assoluto, non in quanto siano identiche ad esso, ma in quanto lo esprimono senza mediazione, come principio di continuo attuato in relazione alla loro funzione. In tal senso il loro operare ha il carattere della sicurezza assoluta: esse riposano nel profondo di sé, congiunte con il fondamento. Ma appunto il loro operare, il loro fluire come forza metafisica dell’essere, sorge da una quiete senza fine: ignota all’uomo.
La meditazione dà modo di cogliere il “senso” della “quiete profonda”, permanente nel tessuto dell’azione di questi esseri che reggono il moto dei mondi. Nell’esprimere se stessi, in sostanza, esprimono il loro principio: che è l’Assoluto. Perciò il loro movimento sorge dalla quiete profonda: è inalterabilità nella creazione, istantaneità nell’atto e in pari tempo immobilità trascendente: riposo segreto nella essenza. Si dovrebbe imaginare l’erompere della folgore come manifestazione di tale immobilità.
L’imagine suscita nel meditante la pura vita del volere, attiva di là dalla coscienza nell’àmbito della coscienza, non voluta, ma indirettamente evocata. L’essenza del volere è identica a quella basilare alla “Quiete delle Gerarchie”: potenza della immobilità che motiva ogni processo in cui non si alieni. È possibile, infatti, un identificarsi trascendente che è essere uno con l’ente che si conosce rimanendo inalterati e identici a sé, e v’è un identificarsi inferiore che è unificarsi con un oscuro divenire in cui si perde coscienza del principio e si altera la propria natura. Quest’ultimo è il caso dell’esperienza umana nella veste corporea: le forze interiori vengono assorbite dalla vita fisica, affinché l’uomo possa affacciarsi nel mondo esteriore: ma questo assorbimento è perdita della coscienza; dimenticanza, sino a un limite, che è il sorgere della coscienza individua.
Se si guarda l’uomo, perciò, la sua contraddizione è riconoscibile nella assenza di fondamento, in quanto egli appare dinamicamente fondato sull’essere fisico: che non è il fondamento, ma il riflesso dello spirituale nel corporeo. È il fondamento illusorio che viene meno ogni volta che si cerchi veramente: portativi dalla meditazione o dal dolore. Deve venir meno l’illusorio, perché possa esser trovato il vero.

Massimo Scaligero (1.)

da: East and West, anno 1960 pagg. 249-257, in inglese, e da Vie della Tradizione, anno III, Vol. III, N. 11, in italiano.

(1)I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1960, pag. 99.
(2)O. Hamelin, Le système du savoir, Presses Universitaires de France, Parigi 1956, pag. 85 e segg.
(3)B. Spaventa, Frammenti inediti in G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze 1954, pag. 42.
(4)G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, I, 72.
(5)Ibidem I, 74.
(6)San Bonaventura, Mystica Theologica, p. II, pag. 685.
(7)Swami Siddhesswarananda, Le Raja-yoga de Saint Jean de la Croix, in «Yoga, Science de l’Homme intégral»,
Les Cahiers du Sud, Parigi 1953.
(8)G. Raynaud de Lage, Alain de Lille, poète du XII siècle, Montreal-Parigi 1951, pag. 112 e segg.