Siti e Miti


Tra le ipotesi piú verosimili formulate dagli storici circa la derivazione etimologica del mese di giugno, c’è quella collegata alla figura di Giunio Bruto. Secondo la tradizione, fu lui a cacciare da Roma Tarquinio il Superbo, alle Calende di giugno dell’anno 509 a.C., diventando Primo Console e istituendo la Repubblica. Per onorarlo, i Romani diedero il suo nome al mese.
Ma una leggenda vuole che il re etrusco non lasciasse l’Urbe senza reagire. Ordinò che tutto il grano da poco mietuto nell’Agro regio, tra i colli Quirinale e Pincio e gli argini del fiume, venisse gettato nel Tevere. Tanto era il frumento raccolto che il fiume ne divenne ingombro, formando al centro del suo corso l’Isola Tiberina.
Dopo la cacciata dei Tarquini, l’Agro reale divenne pubblico e votato ad area sacra prendendo il nome di Campo Marzio. Vi furono edificati vari templi: quello ipogeo a Dite e Proserpina (Tarentum), e quelli a Marte, a Giunone e a Iside.
Il mese di giugno è legato anche alla figura di Giovanni Battista. Egli rappresenta il Sole declinante del solstizio estivo, quando l’astro abbandona l’apogeo dello Zodiaco celeste e inizia la sua fase calante che avrà termine col solstizio d’inverno: a quel punto il Sol Invictus inizierà la sua ascesa sulla linea dell’orizzonte astrale. «Io devo scendere e lui deve salire» cosí il Battista disse ai discepoli che gli chiedevano perché dovessero abbandonarlo per seguire l’Uomo che li avrebbe battezzati con lo Spirito Santo e col fuoco e non piú con l’acqua.
La parabola discendente del Battista si esaurì sotto il colpo di spada che gli recise la testa per ordine di Erode Antipa, irretito dagli intrighi di Erodiade e dalle grazie lussuriose di Salomè. Ora quella testa è venerata nella chiesa di San Silvestro a Roma, detta appunto “in Capite” perché conserva la sublime reliquia portata a Roma nel 1135 e destinata a quella chiesa da papa Innocenzo II.
Per strana coincidenza, ma poi non tanto per chi è aperto alle combinazioni trascendenti, San Silvestro in Capite segna anche il punto dove sorgeva l’ingresso del tempio dedicato al Sol Invictus, fatto costruire dall’imperatore Lucio Domizio Aureliano nel 274 d.C., che da Palmira, in Siria, aveva fatto portare a Roma la statua di Helios Belos, divinità venerata in quella città.
Chi fa shopping nelle strade che ospitano le boutique piú esclusive e trendy del mondo, forse ignora di calpestare quella che fu una delle aree sacre per eccellenza dell’Urbe. Il naos, la cella del Tempio Solare, dovrebbe trovarsi piú o meno all’incrocio tra le vie Borgognona, Bocca di Leone e Condotti. E deviando per San Lorenzo in Lucina, si giunge esattamente sul luogo dove Augusto fece erigere l’Ara Pacis, promettendo ai sudditi, che l’avevano investito del potere assoluto, pace e prosperità. Nel 1938 il monumento, che era inglobato quasi per intero nelle fondamenta del Palazzo Fiano-Perelli-Almagià, fu recuperato con una sofisticata operazione d’ingegneria archeologica e ricostruito nell’attuale ubicazione sul Lungotevere.
L’Ara Pacis fu, in ordine di tempo, l’ultimo dei monumenti inaugurati da Augusto. Votato dal Senato nel 13 a.C., venne dedicato con una solenne cerimonia officiata dallo stesso Imperatore nel 9 a.C. Sorgeva accanto all’Horologium, la grande meridiana che Augusto aveva inaugurato l’anno prima adoperando come gnomone l’obelisco fatto venire da Heliopolis, in Egitto, ora in Piazza di Montecitorio. La sagoma del monolito proiettava l’ombra che tangeva esattamente il centro dell’Ara nel giorno del genetliaco dell’Imperatore.
Nei fregi e rilievi in marmo di Carrara scolpiti all’interno e all’esterno del recinto che chiude l’Ara, Augusto viene raffigurato al centro di una processione rituale. Con lui sono effigiati i membri della famiglia imperiale, secondo un ordine di priorità dinastica, e personaggi importanti del governo e della corte.
L’Ara Pacis non è soltanto un monumento celebrativo della gens Iulia e dell’oligarchia dominante a Roma. Trascendendo le intenzioni dello stesso Augusto, essa incarna il simbolo del potere umano che, avendo tutto conquistato e realizzato nell’ambito materiale, si volge al sacro. E meno che mai vuole essere un messaggio teocratico o ierocratico. Intende piuttosto stabilire agli occhi della storia la sintesi dei poteri politico e religioso nella figura del sovrano, operante nel rispetto delle leggi naturali, umane e divine. Nella descrizione realistica del paesaggio, nel naturalismo con il quale vengono resi i particolari di animali, piante e infiorescenze, attraverso l’illustrazione solenne e al tempo stesso condiscendente dei personaggi dediti alla celebrazione liturgica, cogliamo in forma palese, quasi calligrafica, l’allegoria dei tre ordini, naturale, umano e divino, ai quali dovrebbe rispetto chiunque si impegni nell’esercizio di ogni attività, da quella politica all’economica, alla creativa.
Augusto ne era consapevole. Nella temperie neopitagorica dell’epoca, vibravano aneliti di giustizia, di moralità pubblica e privata, e soprattutto di riacquisto di un nuovo rapporto tra l’uomo – realizzato socialmente, intellettualmente ed eticamente – e la divinità. Una divinità anch’essa rinnovata nella sua essenza suprema e nelle manifestazioni immanenti, secondo le aspettative messianiche ed escatologiche che quegli anni nutrivano: l’alba del Grande Anno, segnata dal ritorno della costellazione della Vergine nella sua posizione originaria nell’ètere celeste, e l’avvento del Puer, il divino fanciullo che avrebbe riscattato l’umanità. Forse non è del tutto inventata la leggenda che vuole Augusto testimone di un evento prodigioso: l’apparizione sull’arce capitolina di una donna splendente che, librata su un altare votivo, reggeva tra le braccia un fanciullo, mentre una voce arcana diceva: «Haec ara filii Dei est». Su quel sito Augusto, turbato da quella visione, fece erigere un tempio, diventato poi l’Ara Cœli.
Ottaviano rappresentava l’apogeo solare della romanità. Dopo di lui i fasti dell’Urbe e dei suoi valori si avviarono al declino, come l’astro solstiziale del Battista. Ma iniziava con la nascita di un fanciullo solare, in uno sperduto villaggio di una provincia dell’Impero, la parabola ascendente del Logos imperituro, il Cristo, che doveva rivelare agli uomini di essere Dei in potenza, destinati a realizzare il Regno dei Cieli sulla terra redenta. Quella Saturnia Tellus scolpita in uno dei fregi dell’Ara Pacis, che, proprio per la sua complessa simbologia esoterica, travalica la contingenza storica e culturale che la produsse, per assurgere a voto sacrale di tutta l’umanità, nella sua essenza universale.
Per questo forse le si accaniscono contro ambigui progetti di restauro e trasformazione, che, a ben giudicare, sembrano piuttosto l’ennesimo tentativo di damnatio memoriæ perpetrato non per obliterazione ma per deturpazione e stravolgimento dei singoli valori che l’Ara intende consegnare agli uomini di tutte le etnie e religioni del mondo.
Accanto alla famigerata “sindrome di Stendhal”, che colpisce chi esagera con la visione di opere d’arte e siti archeologici, da secoli subdolamente serpeggia, tra le pieghe della storia, quella che potremmo definire “sindrome di Cartesio”, in cui il razionalismo scientista tenta di dannare nell’inferno dell’oblio storico e culturale i segni e i reperti che palesemente inneggiano al divino, al sacro e al trascendente, e che sono presenti nelle vicende e nelle opere umane. Ma sono, queste, strategie destinate a fallire. Il seme del sacro veleggia nell’anemocoro del grande soffio universale, e feconda il cuore degli uomini giorno per giorno, stagione dopo stagione, contro ogni avversità e inganno.
Finché la materia non sarà Spirito, e l’uomo Angelo.

Ovidio Tufelli