Metafisica

Luglio volgeva al termine. Da due giorni il segno del Leone governava il cielo. Seduto nella quiete del giardino fiorito, il poeta guardava il vasto scenario urbano ai suoi piedi. La collina di Highgate, pur nella sua brevità morfologica, dominava la città, anzi la solcava: una grande prora verde davanti alla quale i tetti rugginosi di Londra si aprivano come tanti relitti di un continente frantumato da immani cataclismi. Il sole calante di quella giornata di piena estate accendeva riverberi da quei frammenti, suscitava lampi e rossori nelle ardesie, nei cotti delle cortine.
Nuvole pigre scorrevano in cielo, animando inesauribili figurazioni. Pensò a Goethe. Poco prima della morte, avvenuta da due anni, il grande romantico tedesco era stato autore di un trattatello sulla forma delle nuvole. Per amore di una fanciulla diciannovenne, Ulrike, cosí avevano riferito le cronache. Ma lui non credeva che l’olimpica intelligenza di Goethe avesse potuto indulgere in scivolamenti passionali. Si era trattato piuttosto, a suo avviso, dell’ennesima sortita di un genio eclettico, animato da un sapere felice e appagato, teso a riconfermare la presenza di Dio nelle molteplici realtà del mondo creato. Un rapporto col divino, quello dell’Autore del Faust, intrattenuto con continua vigilanza razionale, per evitare i facili abbandoni estatici, le identificazioni passive e non meditate. Goethe aveva trovato il trascendente percorrendo l’arduo cammino della ricerca come un cavaliere del Graal, audace e sicuro; piú che il pagano Sigfrido, egli incarnava Parsifal, armato di coraggio e di fede.
La mente del poeta si spostò sul panorama letterario inglese. Molti uomini di scienza e cultura, come il suo amico De Quincey, cercavano anch’essi il superamento del materico nei fumi dell’oppio o nell’ebbrezza dell’alcool. Ma da quei percorsi ritornavano svuotati e piú dubbiosi e tormentati di prima. Cosí era stato anche per lui, molti anni addietro, finché il suo viaggio non lo aveva fatto approdare alla dimora di Gilman, su quella collina ai margini della grande città.
Qui venivano a lui da ogni dove uomini e donne di varia età e condizione, per chiedergli se e come nelle sue peregrinazioni avesse incontrato la divinità. Questa era la domanda che campeggiava su tutte nella vasta sala degli incontri. Ad essa immancabilmente seguiva la richiesta che dalla viva voce dell’Autore venisse narrata la genesi ispirativa del grande poema che avrebbe tramandato il suo nome alla storia. Perché erano certi, molti degli uditori, che in quella ballata marinaresca, umorata di salsedine e schiume oceaniche, che narrava di un vascello irretito dai ghiacci eterni del polo o insidiato dai sargassi, incalzato da onde immani, visitato da ibride e sovrumane creature, il poeta avesse scorto baluginare la scintilla del divino per illuminare il suo genio creativo.
Allora l’idealismo trascendente tanto caro al suo maestro Cudworth e a Shelling accendeva le sue parole di una luce metafisica, mutandosi in fuoco di affabulazione misterica. E mentre l’instancabile Carlyle infittiva il suo taccuino di appunti per la futura biografia dell’oratore, lui, il poeta, conduceva tutti i presenti, ormai catturati dal potere immaginifico dell’evocazione verbale, in una fumosa taverna di Watchett, sul canale di Bristol.
Era l’autunno del 1797, e la sera incipiente sollevava dalle scure acque, metà marea, metà corrente dei fiumi Severn e Avon, fantasmi di nebbie che i fanali dei battelli trafiggevano a tratti. Nel locale, marinai, tessitori, mercanti e persino negrieri, contrabbandieri e transfughi da paesi lontani. Tutti bevevano birra e rhum, tutti avevano storie prodigiose o terribili da raccontare. Al tavolo dove sedeva il poeta insieme a Wordsworth e alla sorella di questi, Dorothy, li raggiunse un certo Cruikshank, loro vicino di casa. Normalmente riservato e avaro di confidenze, ora l’uomo, disinibito forse per effetto dell’alcool, volle raccontare una storia che conteneva il segreto della sua passata esistenza.
«Siete gente di lettere – disse – e ne potreste ricavare lo spunto per un racconto».
Cruikshank era stato secondo ufficiale sui mercantili in partenza da Bristol per le Indie. Thè, cotone, spezie, tessuti, tabacco, ceramiche e porcellane, questi i carichi usuali in una ininterrotta spola tra l’Europa e l’Oriente, sulle rotte ormai battute da centinaia di vascelli. Quasi una routine. Poi capitò l’episodio che doveva mutare la sua vita. Durante un viaggio di ritorno, la nave aveva dovuto raccogliere da un porto di Ceylon una ciurma di fiocinatori sopravvissuti al naufragio della loro baleniera, che incrociava nell’Oceano Indiano. Con quei marinai salirono a bordo violenza e brutalità. Uccidere, piú che una necessità di sopravvivenza o una fonte di reddito, era diventata una sadica manía, una libidine che ormai piú nulla riusciva a saziare.
Un avvenimento inusuale doveva mettere in luce questa loro degenerata indole assassina. Avevano da poco doppiato il Capo di Buona Speranza quando un branco di albatros, stanchi e affamati, venne a posarsi sulla nave. Senza motivo e con inaudita ferocia i fiocinatori, seguíti da tutta la ciurma, e nonostante il tentativo di opposizione di Cruikshank, si accanirono contro i miti e fiduciosi volatili, facendone strage. Egli giunse ad affrontare fisicamente gli scalmanati, ma venne tramortito e gettato nella stiva. La segregazione gli risparmiò la vista del comandante gettato fuoribordo e dell’atto sacrilego col quale l’equipaggio, preda della frenesia scatenata dai fiocinatori, concluse la terribile mattanza: uno degli uccelli piú maestosi del branco, crocefisso all’albero di maestra, era stato poi trafitto dalle picche e dalle lance dei carnefici.
Quell’inutile eccidio contro le creature amiche dei marinai aprí il varco alla maledizione e alla follia. Sangue chiamava sangue. Scoppiarono risse a bordo, che da semplici scaramucce rapidamente si trasformarono in una vera e propria battaglia. Al termine dei violenti scontri, morti e feriti ingombravano ponti e boccaporti. Nella disperazione Cruikshank riuscí a forzare la botola della stiva e a ritornare sul ponte. Qui, dopo aver vinto l’orrore di quanto si presentava ai suoi occhi, tentò di riprendere il governo della nave e di soccorrere i feriti, ma inutilmente. In breve tempo si trovò unico superstite in uno scenario di morte e con l’imbarcazione ormai presa nella scia di forti correnti. Da solo non poteva contrastare le forze della natura e quelle piú occulte che sembravano essersi accanite contro i suoi sacrileghi compagni e contro il naviglio che ne trasportava adesso i corpi senza vita. Un’angoscia mortale gli penetrò nel sangue come un deliquio. Si abbandonò al destino, mentre la nave col suo macabro carico navigava verso l’ignoto.
Quanto durò il viaggio non riuscí a registrare. Un solo ricordo: quando, in un momento di lucidità, si prostrò in ginocchio presso la barra, invocando Cristo e gli angeli del cielo. E questi giunsero, leggeri, bianchi, luminosi e silenti, aliando sui corpi freddi e rigidi, ne raccolsero le anime. Gli sfiorarono la fronte restituendogli l’energia necessaria ad impugnare la ruota del timone e riprendere il governo del vascello. Vele, corde, sartíe, obbedivano a invisibili mani, veloce la chiglia solcava le onde, la polena danzava tra le spume. Vennero incontro al veliero le prime isole, le spiagge dorate del tropico, la salvezza.
Al termine del suo portentoso racconto, Cruikshank si fece promettere dai tre che mai dalle loro bocche sarebbe uscita parola sul protagonista di quell’avventura. E ciò perché, come bene questi sapevano, i sopravvissuti ai naufragi e ai disastri marittimi erano valutati alla stregua dei ciechi, dei suonatori ambulanti, dei disertori e dei riscattati dalle mani dei Turchi. Raccomandazione superflua. Wordsworth e Dorothy non credettero a quella storia. Soltanto Charles Lamb, al quale il poeta la raccontò in seguito, la trovò affascinante.
«Fanne tu un poema, Coleridge, che possa dare speranza all’uomo, perduto nell’oceano dei suoi peccati. Una testimonianza poetica del Fato che inesorabilmente colpisce chi infrange la legge naturale, e della misericordia divina che soccorre chi a lei si affida. E anche per manifestare agli uomini che esistono quelle tante cose che, come Amleto dice a Orazio, “sono tra cielo e terra e che i nostri sistemi filosofici mai riusciranno a concepire”».
Si chiedeva spesso se il suo poema, quella Ballata del vecchio marinaio, intrisa di salsedine e mistero, avesse raggiunto lo scopo che il suo amico Lamb gli aveva indicato. Perché, quando terminava il suo racconto nella grande sala degli incontri, molti tacevano presi dall’emozione, altri invece ponevano domande insidiose se non improntate allo scetticismo. Ma egli, il poeta, sapeva che cosí doveva essere, perché cosí era stato dall’inizio del mondo, con una parte dell’umanità che lavorava per dimostrare l’esistenza del soprannaturale, l’altra per negarla. Al cospetto del creato, la filosofia si chiedeva il perché delle cose, la poesia le esaltava, ritenendole emanazione del divino.
Il sole era ormai prossimo al tramonto, ma un diffuso chiarore dorato permetteva ancora di scorgere i contorni del paesaggio, di notare le forme umane che lo animavano. In una casa a mezza costa, poco distante dal suo punto di osservazione, davano una festa. Si udivano lievi i rumori della convivialità: il vociare allegro, le risa discrete, i suoni di strumenti. Affluivano gli invitati, molti di essi giovani, vestiti con abiti variopinti e fantasiosi. Fu forse un gioco della fantasia a riproporgli la scena di inizio della sua Ballata: gli sembrò di vedere un vecchio, dimesso nel vestire ma eretto in una composta solennità, fermare uno di quei convitati e parlargli, per renderlo partecipe di chissà quale prodigioso segreto. Qualunque fosse la storia che quel vecchio, a mezzo tra il pellegrino e l’eremita, volesse raccontare al giovane, di certo questi non sarebbe stato piú lo stesso al termine della narrazione. Il suo mondo tranquillo, votato a una razionale, simmetrica realtà, alla rassicurante quotidianità, si sarebbe aperto su un universo governato da leggi stabilite da una piú alta Ragione, dalla pura Immaginazione, ed egli avrebbe da quel momento navigato in un oceano di essenze ineffabili, un mare sconosciuto ma esaltante, visitando regioni ignote dalle quali non gli sarebbe stato piú possibile ritornare se non radicalmente trasformato nel cuore e nella mente. Avrebbe riportato da quel viaggio la conoscenza che vi sono piú esseri invisibili che visibili nell’universo, sul quale la divinità veglia, cosí come veglia sull’uomo in ogni istante. Basta ben pregare e amare in egual misura gli esseri umani, gli animali e le cose, siano essi belli o brutti, grandi o piccoli, miseri o risplendenti. «Perché quel Dio d’amore che ci assiste fece ogni cosa e l’ama».
La luce stava ormai cedendo all’oscurità e il caldo giorno di luglio languiva verso la fine. A un tratto il poeta vide le candide nuvole randagie nel cielo crepuscolare assumere forme diafane, stringersi in schiere palpitanti d’ali e di bagliori iridescenti. Poi i bianchi sciami angelici si diressero con un volo frusciante verso la collina di Highgate. Era pronto. Da anni li attendeva.

Leonida I. Elliot

Immagini:
Gustave Doré «Il vascello tra i ghiacci» – «Il superstite»