Tradizioni

Apprendiamo dalla stampa che Nika, l’ultima cavalla adibita al lavoro in una miniera dell’Alta Slesia, in Polonia, è andata in pensione dopo quasi vent’anni di onorato servizio svolto portando carbone e attrezzi nelle viscere della terra. Le notizie informano che non andrà al macello ma che finirà i suoi giorni in una fattoria nei dintorni di Katowice. Godrà, per il poco tempo che ancora le resta da vivere, di un privilegio enorme: poter vedere la luce dall’alba al tramonto tutti i giorni, sentire il vento dai boschi e dalle brughiere recarle messaggi di ataviche libertà. Il buio e l’afrore del carbone saranno un dolente ma remoto ricordo. Finché è durata l’epopea estrattiva in tutte le regioni minerarie d’Europa, dal Galles alle Asturie, dal Belgio ai Sudeti, con l’arrivo della primavera, e particolarmente in concomitanza della Pasqua, i cavalli delle miniere venivano portati in superficie per un giorno o due e lasciati liberi nella campagna.
Piú anticamente, in un’epoca precedente alla cristianizzazione, presso le popolazioni celtiche l’usanza coincideva con la festa di “Beltane”, celebrata in onore del dio della luce Bel e della sua sposa Belisama: i due solcavano il cielo boreale insieme a Taranis, dio della folgore, che risveglia la vita, e di Cernunnus, che la rigenera e la protegge. Era il Calendimaggio celtico, e per ogni dove si levavano alte nella notte le fiamme dei tain (falò) che illuminavano i riti sacrificali officiati dai druidi nei cromlech megalitici e presso i nemeton dei boschi sacri.
Col passare dei secoli, il Beltane è diventato May-day, i tain vengono chiamati bonfire e la memoria dei riti silvestri si esprime nelle danze intorno all’Albero di Maggio, che viene avvolto da nastri multicolori nelle evoluzioni degli horn-dancers, ballerini che, reggendo corna finte, vogliono ricordare il dio Cernunnus dall’aspetto di cervo. Accompagnano le ridde e i canti l’arpa celtica clàrsach o talvolta la “cetra inglese”, una sorta di liuto a fondo piatto munito di quattordici corde di metallo. Nelle regioni dedite alla pastorizia, con il May-day inizia la transumanza del bestiame verso i pascoli estivi, mentre le ragazze scelte la sera precedente da un giovane nel corso del babbity bowster, un ballo di corteggiamento, cercano di trasformare in fidanzamento ufficiale quella preferenza sollecitata dall’euforia coreutica alla luce dei falò.
A memoria delle antiche usanze celtiche, poco distante da Tintagel, in Cornovaglia, culla della leggenda di Artú, nel villaggio di Padstow, ogni anno tuttora si rinnova un rituale il cui significato sfugge agli stessi figuranti che lo celebrano. Il May-day vede le strade del borgo animarsi al passaggio dell’Hobby Horse o, come vuole il gergo locale, l’Oss, un uomo-cavallo che esegue una strana pantomima reminiscente di gestualità magiche e propiziatorie: di fertilità, di fede nelle forze della natura, di devozione verso l’onnipresente divinità.
Ed è un residuo di liturgie dismesse nella pratica, bensí fervide nelle sedimentazioni animiche, l’immagine altamente stilizzata di un cavallo che antiche mani ignote hanno tracciato nel calcare di un poggio nei dintorni di Uffingtonnel Berkshire, a marcare forse il sito di un altare sacrificale per la dea Epona, protettrice dei cavalieri, o un’area magneticamente attiva e quindi con esiti nel metafisico. Del resto, il cavallo è indicato come simbolo sacro per eccellenza dall’India del Rigveda alla Persia, dalle tribú del Sahara ai popoli neolitici della penisola iberica e dei Pirenei. Grotte e rocce ne recano le tracce in graffiti e dipinti. Al termine del Kali-Yuga sarà infatti un cavallo bianco, Kalki, l’ultimo avatar di Visnu, che verrà, galoppando, a distruggere il vecchio ordine cosmico per crearne uno nuovo, piú armonioso e anelante al divino. Come per la cavalla Nika, rappresenterà l’uscita dell’uomo alla radiosità del giorno dopo lunghi anni trascorsi nel buio della miniera, dove ha scavato le inutili ricchezze della materialità. Sarà il Beltane del dio solare, la Pasqua dello Spirito finalmente riconquistato.

Leonida I. Elliot