- Presso i
Romani il termine numen voleva indicare in senso
letterale il cenno di assenso eseguito abbassando la testa,
ma in un’accezione piú vasta era il segno favorevole che
gli Dèi mostravano nei confronti di una richiesta umana.
Era il “fiat” col quale, all’inizio del tempi,
la divinità aveva dato avvio alle cose create, consentendo
loro di esistere, di vivere e di avere quindi una sorte, un
destino.
- Da
questa radice etimologica derivarono le parole nomen,
il nome, che mirava a qualificare le cose indicandone il
valore intrinseco, il quid superiore, e numerus, il
numero, che le ordinava in sequenza, le quantificava
stabilendone il valore materiale, istituzionalizzato nel nummus,
il denaro.
- Dallo
stesso etimo ideale derivò la frase «Nomen est omen», il
nome è destino, volontà divina, potestà di creazione
esercitata attraverso la nominazione, vale a dire una
concessione di identità, di peculiarità animica
sostanziale, per cui il Divino, frammentandosi nel
molteplice delle cose create, materializzandosi nelle forme
reali e animandole, attraverso di esse viveva e si rivelava.
- Le
misteriose potenze che permeavano il tessuto del mondo erano
perciò dette Numina, forze operanti nei minimi
aspetti della vita di tutti i giorni, sia pubblica sia
privata. Nessuna funzione veniva trascurata e su ogni
attività del quotidiano vegliava la tutela di un Nume.
Pronunciando le invocazioni di rito, dette indigitamenta,
i Romani delle origini, dopo aver chiesto il placet a
Giano, la piú antica delle divinà italiche, sollecitavano
una particolare deità ad intervenire per far sí che le
imprese umane avessero un felice esito, dalle piú ampie e
nobili alle piú intime e ordinarie. Ecco allora implorare
Silvanus per la potatura degli alberi, i Semones per la
semina, il dio Messor per la mietitura e Saritor per la
sarchiatura. Persino per il concime esisteva un tutore,
nella figura di Picumnus, mentre Pilumnus proteggeva il
forno e i fornai, dopo che Matura, la dea delle messi, aveva
provveduto a far maturare il grano. La dea della scure,
Intercidona, veniva invocata dai boscaioli, mentre Deverra,
dea della scopa, era venerata dalle ancelle che servivano
nelle famiglie facoltose. La stessa casa fruiva di varie
protezioni divine. Cardea difendeva i cardini delle porte,
in collaborazione con Limentus, il dio della soglia. Per le
partorienti varie divinità intervenivano: la dea Fluonia
arrestava le emorragie, nel caso malaugurato che l’opera
protettrice delle Parche Nona e Decima non fosse bastata a
risolvere positivamente la gestazione. Una volta nato, il
bimbo godeva di sonni tranquilli grazie alla dea Cunina e in
seguito poteva contare sull’aiuto del dio Statulinus per
acquisire la posizione eretta. Questa divinità agiva in
tandem con la dea Ossipagina, tutrice delle ossa. E quando
il piccolo muoveva i primi passi veniva assistito dalla dea
Abeona nel momento in cui si distaccava dalle braccia
materne e dalla consorella divina Adeona allorché, stanco,
ritornava nell’abbraccio rassicurante della madre.
Fabulinus insegnava ai bimbi a parlare, Iterduca e Domiduca
lo accompagnavano mentre usciva di casa e quando vi
ritornava. A scuola era aiutato da varie divinità, tra cui
spiccavano Numeria, che facilitava il far di conto, e
Camèna per le lezioni di canto.
- Ma non
sempre i Numina costituivano entità divine definite
antropomorficamente o in altre forme reali: spesso si
esprimevano in concetti metafisici, capaci comunque di
influenzare le vicende umane e guidarle. Personificazione di
concetti astratti furono divinità come Victoria, Libertas,
Virtus, Concordia, alle quali non di rado venivano dedicati
templi, edicole votive e altari sacrificali. In età
arcaica, presso le popolazioni latine ed etrusche vennero
persino consacrate are al Dio ignoto. Sul Palatino è
tuttora visibile un altare votato al culto di questa
divinità senza nome.
- A
interpretare i segni che tali Numina manifestavano
agli uomini erano deputati in origine i re, specie se
iniziati come Numa, o altri personaggi a seconda dell’epoca
o dell’occorrenza, come piú tardi furono il Rex
sacrorum e il Pontifex maximus, coadiuvati da
àuguri ed aruspici, individui dotati di facoltà
divinatorie. Col tempo, l’organizzazione religiosa romana,
improntata a un rigido formalismo e nutrita dei contenuti
magico-spirituali e metafisici delle origini, si snaturò,
venendo in contatto con i culti greco-orientali che
prevedevano rapporti emozionali con gli Dei e le loro
personificazioni, fino a scadere nei riti orgiastici. Le
istituzioni religiose che incarnavano l’anima stessa della
prima romanità subirono quindi l’infiltrazione di culti e
di pratiche liturgiche straniere, perdendo gran parte del
loro carisma, anche per la concomitanza del degrado dei
costumi e con la grave crisi politica dello Stato romano,
soprattutto a causa delle guerre civili del I secolo a.C.
Gli stessi Cesare e Antonio non seppero sottrarsi al fascino
ambiguo delle concezioni religiose di stampo egizio ed
ellenistico, contribuendo non poco alla dequalificazione
degli antichi valori sacrali romani di cui Numa, grande
Iniziato, deteneva i segreti in un’epoca in cui non erano
ancora stati eretti il Partenone di Atene e la Basilica di
Paestum per mano dei Dori.
- Per
volere di Ottaviano Augusto venne ristabilito l’ordine
tradizionale romano, con il ripristino delle antiche
credenze e pratiche rituali e la restaurazioni dei valori
morali che da esse derivavano, con il benestare del popolo e
delle classi dirigenti. Grazie a lui, la religione romana
tornò per un breve periodo al rispetto degli antichi
ideali, rivestendo il ruolo di forza unificante dell’Impero,
senza tuttavia soffocare, com’è proprio delle dottrine
ispirate, le molte forme religiose osservate dai singoli
popoli assoggettati al governo di Roma.
- Spesso
dagli studiosi viene oggi ridotto al dominio delle credenze
animistiche questo concetto basilare della spiritualità
romana, senza considerare che esso rappresenta invece la
chiave di volta di ogni civiltà che intenda crescere e dare
luce vera al mondo e alla storia.
- E
parlando di civiltà, la nostra tende ormai a insegnare a
morire piú che a vivere. Vige il culto apologetico delle
armi, degli strumenti e dei personaggi che hanno fatto della
distruzione il loro credo e la loro ragione di essere e di
agire. Vengono persino eretti monumenti alla loro memoria.
Ci sono Paesi che hanno tuttora bisogno di giustiziare i
propri sudditi trasgressivi per difendere, dicono, i valori
della giustizia e della moralità civile. Si tratta di
amputazioni crudeli e vistose del male, e non rimedi atti a
estirparne le cause alla radice. Cosí che il male rinasce
e, come un tumore reciso ma non annientato, piú forte si
diffonde.
- Dice il
Poeta Mario Luzi: «È, questo della nominazione, un potere
trasmesso, una traccia appunto della genesi e del suo autore
e, per quanto sia quasi irrisorio parlarne a questo livello
di disumanizzazione, un barlume di divinità.
Paradossalmente, lo richiamano tutte le rivolte, anche le
piú efferate, della insubordinazione moderna; …anche
quelle delle armi che nei nostri anni si sono sostituite
mostruosamente alla lingua ritenuta inservibile».
- Ed ecco
quindi che la parola civiltà ha perduto col tempo il suo
significato archetipico, che era quello di creare
istituzioni capaci di perpetuare la vita e una dignità
delle pratiche esistenziali umane. Essa è ormai soltanto
sinonimo e valenza di puro artificio tecnologico.
- Cosí
assistiamo a Roma, ad esempio, alle interminabili file di
visitatori al Colosseo, l’immenso mattatoio di uomini e
animali, mentre in solitudine reietta resta la Casa delle
Vestali, dove la virtú muliebre ardeva nel fuoco perenne
della verginità consacrata al divino. Si sono aperte scuole
dove vengono insegnate con dovizia di particolari le
tecniche sanguinarie dei ludi gladiatori, e non
piuttosto quelle dove si insegna a riscoprire il rispetto e
la sacralità del corpo, veste dell’interiorità.
- Cos’è
che affascina tanto del Colosseo? Charles Dickens, che lo
visitò nel 1846, lo definí «La piú straordinaria,
solenne, gigantesca e luttuosa visione di rovine che occhio
umano possa ammirare. Grazie a Dio, rovine!» Ma non tutti
la pensavano e la pensano come l’autore di Davide
Copperfield. La maggior parte dei visitatori sviluppa una
incontenibile ammirazione sia per la cospicuità
architettonica di questo monumento, sia per il formidabile e
oliato congegno tecnico e l’efficiente apparato logistico
che lo facevano funzionare per le spettacolari carneficine
che vi si allestivano, intervallate da fantasiose
scenografie allegoriche.
- Allora
come oggi la civiltà è nella sua parabola calante. È
stanca, demotivata, cinica. I delitti impietosi e immotivati
che la cronaca sciorina con martellante frequenza si nutrono
quasi certamente degli stessi veleni morali, anzi amorali e
immorali, del tardo Impero. Il pollice verso e il grido
unanime della folla che con l’imperativo «Iugula!»
comminava la sentenza capitale per il gladiatore sconfitto,
non sono dissimili da certe disumane condanne che votano all’emarginazione
sociale, al fallimento e alla rovina i milioni di perdenti
nella feroce competizione gladiatoria dei giochi finanziari
e di borsa, delle scalate e cordate a società e patrimoni,
veri e propri arrembaggi da ciurma piratesca alla ricchezza
comune, che per tali combine e strategie diventa appannaggio
di pochi, e quindi strumento di ricatto e prevaricazione.
- Custodire
il sacro fuoco della virtú: Numa Pompilio ne aveva fatto un
cardine della pratica religiosa dei Romani della prima ora.
Quasi cinquant’anni senza una guerra non è poco. Vuol
dire che il sistema adottato dal secondo re di Roma
funzionava. Era, la sua, una dottrina che si collocava al
polo opposto delle regole che governano il mondo attuale.
Oggi tutto è laico, per Numa tutto era sacro, divino,
trascendenza e mistero. Ogni moto dell’anima vi si
confaceva. Ogni azione pubblica e privata vi si ispirava,
trasformandosi in rito. Le pietre liminari, i cippi di
confine delle terre, diventavano edicole, are; gli abitanti
dei pagi, i borghi rurali di quei tempi arcaici,
tutti officianti, ministri di liturgie, ierofanti. Quegli
uomini erano convinti e consapevoli della presenza del Numen
in ogni manifestazione della natura: era il nous dei
primi Greci, l’atman degli antichi Indiani, motore
che animava ogni elemento e fenomeno. Era
l’Unico che si divideva nel molteplice, il mistero che si
dissociava in atomi perché si aggregassero in forme dalla
precipua identità. Era il Verbo, che si differenziava in
innumerevoli espressioni e lemmi, affinché l’uomo ne
facesse il proprio linguaggio e alla fine dei tempi,
ricomponendoli, concretasse il Nome dei nomi, il vocabolo da
cui tutto era iniziato.
- Questa
è la rivelazione alla quale noi tutti lavoriamo sin dall’attimo
del nostro primo balbettío intelligibile, sin da quando,
all’alba della civiltà che rispettava il Numen,
riuscivamo a cogliere l’essenza e l’immanenza dello
spirito dei luoghi: il genius loci. Soltanto dove
tale presenza era avvertita, la vita era possibile e
consentita, perché lí il Dio respirava e ispirava,
manifestandosi in varie epifanie.
- Tornati
consci di questa verità e di questo soffio vivificante,
incessantemente ne ricercheremo la scaturigine, tentando, a
imitazione del divino, di dare attraverso la denominazione
identità e vita a quel che ci circonda e a quel che
scopriamo dentro di noi: l’Io che ci definisce e ci
connota. Ritrovare l’essenza delle creature per
raggiungere l’unione perfetta con il Creatore, in cui
confonderci, annullarci, per risorgere in Lui divinizzati.