Sociologia


La maggior parte degli uomini aspira alla soluzione del problema sociale. Sia gli impegnati ideologicamente e sindacalmente, sia coloro i quali vivono fra infinite difficoltà o patiscono ingiustizie, sia le nobili figure che fanno professione di altruismo, persino quelli che potrebbero sembrare gretti e indifferenti; tutti sentono nel profondo l’importanza di affrontare e risolvere la questione di una civile convivenza fra gli uomini.
L’uomo, nella sua aspirazione alla socialità, manifesta la sua parte migliore: è disposto a rinunciare a qualcosa di sé, a qualche vantaggio materiale, in sostanza ad una parte della sua egoità, per realizzare una certa armonia con i suoi simili, per conquistare una giustizia valida per tutti, per difendere se stesso e gli altri dall’inevitabile presenza del male. Sino ad oggi però molti hanno identificato lo sfruttamento, la prepotenza, l’origine dell’alienazione, in una particolare classe, in una certa categoria esprimentesi nel “sistema”; oppure hanno attribuito tutto il male ad un determinato partito o ad un determinato tipo di Stato, ai conservatori o ai sovversivi. Ma dopo anni e anni di moti, di rivoluzioni, di riforme, di mutamenti istituzionali o di restaurazioni, di partiti che giunti al potere hanno spazzato via il partito che li precedeva, di processi, di espropri, di controrivoluzioni, di scioperi e qualche volta di serrate, di ideologie, di teorie, di filosofie che hanno ispirato pagine e pagine di libri, di opuscoli e di manifesti ed hanno fornito il pretesto per un infinito oceano di parole pronunciate in un indefinito numero di comizi e riunioni, chi può affermare che la soluzione del problema sia stata realizzata in qualche luogo della Terra?
 
L’aver voluto dividere la società in una classe di sfruttati e in una classe di sfruttatori è stata la conseguenza di una verità solo parziale, esaltata per appagare provvisoriamente l’esigenza di superare le innegabili ingiustizie sociali mediante un sistema dialettico in sintonia con la condizione dell’uomo attuale. Inoltre questa interpretazione ha consentito di rivestire con un moto sentimentale il desiderio profondo di una piú elevata dimensione umana, di sventolare una bandiera per la quale molti hanno lottato sino ad offrire in sacrificio se stessi. Ma tutto ciò ha rappresentato anche la spinta per giungere alla conquista del potere, per imporre un partito unico, per dare luogo a forme durissime di dittatura.
Una verità incompleta non può che estrinsecarsi in realizzazioni sociali contraddittorie. All’atto pratico il dogma dell’ineluttabilità della lotta di classe ha mostrato tutta la sua parzialità. Non si può costruire una società nuova eliminando fisicamente o emarginando intere categorie di cittadini. Da qui una serie di correzioni alla dottrina, continui compromessi, il tutto fondato però sul condizionamento ideologico: sulla sottomissione e sulla acquiescenza perlomeno formale. Si è aperta cosí la strada ai profittatori, ai furbi, ai pavidi, i quali si sono presi cura di sostenere dottrinariamente la crescita dell’apparato burocratico, nel quale si sono poi facilmente inseriti ricreando una nuova aristocrazia intellettuale e manageriale, in pratica molto piú forte della vecchia classe dominante, potendo ora contare sul partito, sullo Stato e sul potere economico assoluto. Rendendo in tal modo la vita molto difficile – addirittura imprigionandoli – a quegli esseri piú nobili che avevano creduto e combattuto sinceramente per la rivoluzione. Contemporaneamente la necessità di conservare l’“apparato” a qualsiasi costo ha anche favorito l’ascesa ai fanatici piú lucidi, a terribili intelligenze mono-ideative, ad esseri capaci di concepire qualsiasi cosa pur di conquistare il potere e in grado di ordinare qualsiasi crudeltà per mantenerlo. Con il risultato che si sono venute a creare forme di sfruttamento ancora piú dure di quelle precedenti.
L’esasperazione della dialettica della lotta di classe ha reso piú difficile la realizzazione di una autentica socialità anche nei paesi democratici. Non si può certo negare il contributo positivo dei sindacati al superamento delle condizioni terribili patite dai lavoratori all’inizio dello sviluppo industriale e la loro lotta contro le grettezze che sopravvivono ancora oggi. Tuttavia è ormai chiaro che la contrapposizione esasperata fra capitale e lavoro impedisce una valutazione oggettiva della realtà economica e sociale e quindi compromette il concreto dispiegarsi delle forze produttive, il quale, se alterato, non potrà alla fine che danneggiare il benessere dei prestatori d’opera. Quei sindacati che continuano ad optare per la conflittualità permanente, in un’epoca come la nostra ove la capacità produttiva ha dimostrato essere possibile la diffusione di un benessere maggiore, hanno in pratica posto il veto alla realizzazione di una migliore armonia sociale. Alcuni esponenti sindacali continuano a credere che una distruzione dell’economia, una spinta verso l’impoverimento della classe operaia potrebbero affrettare la conquista del potere per il partito in cui militano, convinti che ai disagi, alle sofferenze, seguirà poi la realizzazione della società perfetta, il paradiso in terra. L’esigenza di giustizia sociale che ha animato i piú onesti aderenti al movimento sindacale è cosí soffocata dalla volontà di potere di alcuni partiti, oppure dalle esigenze tattiche di altri, dalle stesse necessità organizzative e dalle velleità di molti sindacati trasformati ormai in oligopoli, non molto distanti dallo stesso fenomeno espresso dal mondo capitalistico.
 
Chi ha veramente a cuore la questione sociale non può non chiedersi se il godere solo di un maggior benessere economico è di per sé sufficiente a garantire una migliore convivenza fra gli uomini. Indubbiamente chiacchierare di fratellanza e di collaborazione fra le parti quando vi sono persone che vivono nell’indigenza, oppure non avendo un salario non sanno come nutrirsi e vestirsi decentemente, o come reperire un alloggio, è un assurdo! Inoltre che vale aver inventato l’automobile, gli elettrodomestici e tutte le altre infinite comodità che la tecnologia ci offre, se tutto ciò non fosse – certo con gradualità e buon senso – a disposizione di tutti?
Le democrazie occidentali industrializzate hanno saputo elevare il tenore di vita di gran parte della popolazione, anche se permangono ancora sacche di sottosviluppo e persistono contraddizioni talvolta clamorose. In questi paesi le differenze nella disponibilità di beni fra le diverse categorie sono ormai irrilevanti: parlare di borghesi e di proletari dal punto di vista economico è una astrazione. Qualcuno sostiene che il prezzo pagato dall’uomo per questo benessere è enorme: estromissione dalle decisioni, alienazione conseguente ad una spinta esasperata della produttività, una sempre minore capacità di scelta conseguente al condizionamento pubblicitario, emarginazione in un certo livello di benessere che, per quanto elevato, sarebbe sempre inferiore a quello ottenibile con la collettivizzazione dei mezzi di produzione. In altre parole, il consumismo imporrebbe all’uomo sempre nuovi bisogni che lo legherebbero ancor di piú al suo stato di alienazione. Basta mettersi però alla porta di un supermercato per constatare che, se pur vi è una parte di vero nelle affermazioni sopracitate, contemporaneamente l’uomo attuale è molto contento di consumare, di acquistare; lo si vede dall’aria soddisfatta mentre trascina il suo carrello pieno di ogni ben di Dio verso la macchina al parcheggio. Mi colpí, anni fa, il vedere a Mosca diecine di persone guardare e riguardare con ammirazione l’auto parcheggiata di uno straniero, una compact americana, già vecchiotta per i gusti di un occidentale! Oggi siamo tutti condizionati dal mondo esteriore, dalla brama di possedere beni di consumo. Infatti viviamo tutti in una dimensione di estrema immersione nella fisicità e di conseguenza la spinta pubblicitaria, il consumismo, sembrano pervenire dal di fuori, dal predominio capitalistico ma in sostanza sono espressione di un ben preciso momento interiore. Per questo viviamo in un continuo contrasto: da una parte siamo coinvolti in tutti i vantaggi economici che il mondo industrializzato ci offre, sino a credere che piú benessere equivalga a piú socialità; dall’altra sentiamo in noi stessi una continua insoddisfazione per la nostra pochezza, che ci rende incapaci di creare una umanità autentica e quindi una autentica socialità.La libera iniziativa ha dimostrato, nei confronti dell’accentramento statale, di saper produrre e distribuire piú ricchezza. I rapporti fra gli uomini, l’armonizzazione fra i loro diritti e i loro doveri, lo spazio da concedere a ciascuno affinché possa manifestare il meglio di sé, il riconoscimento dell’umanità piú elevata in se stessi e negli altri, vanno molto al di là della questione economica. Il limitarsi alle sole esigenze esteriori incomincia a non appagare piú, anche se ancora inconsapevolmente, molti uomini d’oggi. Da qui la ricerca di soluzioni, di ideologie, di rivelazioni mistico-religiose, di sogni rivoluzionari, di utopie. Un nobile moto profondo che, privo ancora di sufficiente coscienza, è afferrato da quel groviglio di impulsi e di istinti causa della nostra soggezione alla fisicità. In fondo, quando contestiamo subiamo purtroppo stati d’animo molto vicini alla faccia soddisfatta di quando spingiamo il carrello del supermercato!
Chiunque abbia un minimo di rispetto per se stesso non può non paventare l’ipotesi di un uomo ben nutrito, circondato di elettrodomestici, assistito prima dai computer e poi da un altrettanto inumano servizio sanitario, suddito felice dei suoi istinti e di uno Stato onnipresente, che aspira ad avere a che fare non con personalità libere e coscienti, ma con efficienti automi o con semi-animali. È chiaro che andare a sfogarsi la sera in una sezione di un qualsiasi partito, ascoltare un comizio o partecipare ad un bel festival, votare di qua o di là, peggio ancora pretendere di risolvere tutto uccidendo o distruggendo, oggi non serve assolutamente a nulla. Fermo restando il rispetto per chi ha perlomeno il coraggio di credere in qualcosa.
 
Se esaminiamo i presupposti sui quali si fonda la dialettica della lotta di classe, ci rendiamo conto che vengono considerati primariamente gli aspetti economici; soprattutto il passaggio della proprietà dei mezzi di produzione dalla borghesia al proletariato. Trasferito il possesso del capitale da una classe all’altra si eliminerebbe lo sfruttamento, e di conseguenza tutte le questioni morali, culturali, giuridiche si avvierebbero automaticamente a soluzione. Identificati tutti gli errori, tutte le degenerazioni, tutte le brame di potere, in sostanza tutti i mali del mondo, in una determinata categoria economica, se ne deduce che gli altri, gli sfruttati, riflettendo nei loro pensieri e nei loro sentimenti la loro condizione di classe emergente e quindi libera da ogni tentazione di sfruttamento, non possono che essere buoni, non possono che esprimere la giusta arte e la giusta cultura.
Parimenti il sistema democratico riconosce teoricamente l’importanza di certi valori come la libertà, la religione, il diritto, ma ritiene che sia fondamentale dedicare prima ogni sforzo a risolvere le questioni economiche, aumentare la produttività e quindi il benessere, esportare sempre di piú, poi la giustizia sociale, i valori morali, la tutela assistenziale dalla culla alla tomba, potranno essere gestiti agevolmente da uno Stato dalle casse piene.
Reazione e rivoluzione; destra, centro e sinistra; capitalismo e masse popolari, si scontrano, si lottano e si uccidono ma in sostanza professano una identica fede, sublimano lo stesso principio: quello che conta è il mondo della produzione e del consumo, il mondo dei profitti pubblici e privati e della egemonia economica. Questo vero e proprio dogma è osannato come l’unico problema da affrontare e risolvere, come il fine piú importante di una società gestita dallo Stato, sia esso democratico o totalitario. Raggiunto dunque un elevato livello di benessere per tutti (a ciascuno secondo le sue necessità e i suoi meriti) non vi saranno piú classi o, nei regimi democratici, non vi saranno piú contrasti, perché esisterà, in entrambi i sistemi, una unica enorme categoria livellata, identica, omogenea nelle sue inclinazioni, nelle sue aspirazioni, nei suoi comportamenti.
In sostanza tutte le concezioni attuali, senza confessarlo apertamente, prediligono l’uomo-massa. Sognano una società livellata in basso ove nessuno protesta, ove tutti professano lo stesso credo, accettando una sola cultura e una sola arte. Oppure uno spazio sociale ove il pluralismo è tollerato purché non superi mai certi limiti; ove la diversità è ammessa, la protesta è tollerata; l’originalità, la stravaganza e l’avanguardia sono persino ammirate e sovvenzionate: una bella vasca nella quale i pesci possono agitarsi quanto vogliono, ma se coloro i quali aspirano a nuotare in un immenso lago azzurro tentano di uscire, o sono immediatamente ributtati dentro o muoiono asfissiati.
Contro l’appiattimento, contro la banalizzazione, contro l’oppressione, contro la rinuncia a lottare si ergono, nel mondo attuale, il dolore, il dramma continuo, il montare del caos. Essi tentano di insegnare ad un essere umano, mai come ora cosí vicino alla ottusità, che tutte le filosofie, tutte le antiche confessioni, tutte le ideologie, tutte le scienze naturali e sociali sono ormai impotenti, pur nella loro innegabile grandezza, a risolvere alle radici gli enormi problemi dell’umanità. La medicina ha dinanzi a sé la barriera invalicabile delle malattie piú gravi. La pedagogia non ha piú forza per educare concretamente. L’arte si è frantumata in una serie interminabile di balbettii. La scienza economica non domina l’economia, la quale vive ancora sulle spinte produttive provenienti dal principio del secolo, cosí come la ricerca scientifica non crea piú, sviluppa solo tecnologicamente a velocità rapidissima il suo patrimonio ereditato dal passato.
Tutti gli organismi statali sono ormai impotenti a fronteggiare l’enorme numero di questioni che hanno voluto assumersi, cosí diritto ed esercizio della giustizia – rappresentanti la loro piú civile e autentica conquista – sono oggi piú o meno alla mercé di camarille, di oscuri interessi, di prepotenze ideologiche e dello strapotere della partitocrazia. Dalla fine della Seconda Guerra mondiale non vi è stato giorno in cui le armi non abbiano crepitato in una serie interminabile di conflitti locali. Chi giustifica la sua presenza al potere con il bene del proletariato schiaccia interi popoli in una morsa agghiacciante. La solidarietà degli oppressi è ormai solo un mito: intere nazioni del socialismo reale si combattono in Asia con una nuova spaventosa ferocia. L’Occidente ha lasciato il suo impero coloniale, dopo la concessione dell’indipendenza, nel caos. Ha saputo esportare solo un certo modello di cultura devitalizzata, solo istituzioni incomplete e non sempre inseribili nella realtà locale, ma non ha saputo donare idee veramente costruttive che esso stesso non possiede. In pratica ha trovato piú comodo sostituire il vecchio colonialismo delle cannoniere e dei corpi di spedizione con un “colonialismo culturale”, imponendo indirizzi gnoseologici, dottrine democratiche o socialiste, tutte impotenti ad entrare nel vivo della realtà; oppure un “colonialismo economico” che ha aperto in un primo tempo nuovi mercati, ma che oggi gli si ritorce contro con gli enormi debiti e con le sacche di miseria del Terzo Mondo.

Argo Villella (1. continua)

Edito a cura di G. Simoncini per la Cooperativa Pico della Mirandola, Bologna 1986