Storia

L’assedio di Malta non era stato che il prologo, una sorta di prova generale. Iniziato nel maggio del 1565, era terminato l’8 settembre dello stesso anno. Durante l’assalto dei Turchi al Forte Sant’Elmo, il 22 giugno, era stato ferito a morte Dragut Reis, il corsaro, una leggenda del Mediterraneo. Il suo nome ha risuonato per secoli con terrore misto a malía nei racconti della gente del Sud, insieme a quello di Khayr Al Din, Barbarossa, il pirata barbaresco divenuto poi grande ammiraglio di Solimano il Magnifico. Khayr Al Din non fece in tempo ad esserci, a Malta. Morí nell’assedio di Nizza nel 1543. Era stato lui, nel 1522, a cacciare i Cavalieri di San Giovanni da Rodi, obbligandoli a peregrinare tra Francia e Italia, fino al definitivo insediamento a Malta nel 1530. Durante l’assedio, i Cavalieri si riscattarono con una carica risolutiva a M’dina. Ma quello fu il loro canto del cigno. Da allora, si chiusero in un dorato esilio, amministrando l’isola con metodi e criteri spesso lontani dagli ideali di austera sollecitudine cristiana che avevano ispirato i fondatori dell’Ordine a Gerusalemme nel lontano 980.
Ritiratisi da Malta, gli Ottomani, ormai preda di un raptus da cupio dissolvi, decisero di affrontare la Lega voluta da papa Pio V, di cui facevano parte la Spagna e Venezia con l’appoggio di Genova e Savoia. Il figlio di Solimano il Magnifico, Selim II, presago dell’aura crepuscolare che incombeva sulla civiltà mediterranea e sull’impero che egli governava, intendeva uscire di scena come un grande personaggio di un dramma storico, magari a imitazione di Alessandro Magno, che i Turchi avevano divinizzato.
All’alba del 7 ottobre 1571, davanti alla città greca di Naupactos, Lepanto, nel golfo di Patrasso, si affrontarono 245 navi cristiane e 282 navi ottomane, dando vita a una battaglia che doveva segnare il destino del Mediterraneo. Le forze combattenti si equivalevano: 47.000 uomini circa, tra soldati e marinai, per ciascuna delle due armate; la disparità era nella dotazione di artiglieria: 1.800 cannoni dalla parte cristiana, 750 appena per i Turchi. Comandava la flotta cristiana Don Giovanni d’Austria, fratello naturale di Filippo II re di Spagna, coadiuvato dal generale pontificio Marcantonio Colonna e dal veneziano Sebastiano Venier. Il genovese Gian Andrea Doria era a capo della squadra spagnola. In un’armata essenzialmente latina, militavano 1.000 tedeschi, inviati dal banchiere Fugger di Augusta, che aveva un debito di onere e di onore col papa, per via che era il distributore in esclusiva in Germania delle indulgenze pontificie. Latitante la Francia, che sottobanco intratteneva rapporti col sultano turco.
La cristianità era reduce dal Grande Scisma d’Occidente e dalle varie guerre: dei Cent’anni, delle Due Rose, da quella tra Carlo V e Francesco I, ma soprattutto dalle guerre di religione tra cattolici e protestanti, cui aveva dato avvio Martin Lutero, affiggendo il 31 ottobre 1517 sul portale del Duomo di Wittenberg le 95 tesi che proclamavano il dissenso da Roma. E come non giustificare tale iniziativa, considerando che il papato aveva perso ogni prestigio, affetto com’era da smanie mondane, cupidigie e nepotismo, prestando il fianco ad ogni tipo di illazione e critica? Era diventata materia di pettegolezzo la Venere di smalto che Alessandro VI Borgia aveva fatto incrostare sul suo anello di smeraldi.
Con tali esempi anche i poteri laici degeneravano. Alla data della battaglia erano ancora freschi gli echi dei massacri di Wassy (1562), di Nimes (1567), in cui cattolici e protestanti si erano decimati, e già si preparava, sempre in Francia, la Notte di San Bartolomeo, il 24 agosto 1572, ad opera del Duca di Guisa e di Caterina dei Medici, ai danni degli Ugonotti.
Quanto all’Inghilterra, dopo lo scisma di Enrico VIII che oltre alla serie delle mogli aveva fatto giustiziare tra gli altri Tommaso Moro, essa incrementava i propri affari navigando ormai per mari piú grandi e meno sfruttati, lanciando sull’Atlantico i “bucanieri di Stato”: Drake, Raleigh e Hawkins. Quest’ultimo arrotondava i bottini degli arrembaggi a spese di olandesi e spagnoli con la tratta degli schiavi dall’Africa Occidentale alle colonie del Nuovo Mondo, imitando Fenici, Greci e Arabi che quel traffico avevano proficuamente svolto per secoli su altre rotte.
All’epoca dello scontro navale regnava Elisabetta I, che seguiva l’impronta paterna iniziando a sua volta la serie delle decapitazioni, come quella del Duca di Norfolk, poi di Maria Stuarda, quindi del Conte di Essex. Con l’Atto di uniformità, nel 1564 aveva messo fuori legge i cattolici, i quali a centinaia erano stati gettati nell’acqua bollente o impiccati. La Regina Vergine aveva cosí pareggiato il conto delle vittime protestanti della persecuzione scatenata dalla sua sorellastra Maria I Tudor, detta La Cattolica o la Sanguinaria (Bloody Mary). Col suo dispotismo Elisabetta preparava inesorabilmente il suo regno alla dittatura di Cromwell.
Agli Spagnoli invece non bastarono i carichi d’argento che dopo la scoperta di Colombo, 12 ottobre 1492, i galeoni riportavano dal Nuovo Mondo. Filippo II fu costretto a dichiarare bancarotta nel 1557, imitato dal suo omologo francese Enrico II, che dovette dichiararsi insolvibile due anni dopo.
A una compagine europea e cristiana fallimentare, discorde, scismatica, rapace e lussuriosa, si contrapponeva la Sublime Porta di Costantinopoli, con gli intrighi di Palazzo, gli omicidi dinastici e politici, non meno efferati di quelli che si commettevano nelle corti della cristianità occidentale. Selim I aveva fatto avvelenare il padre. Lo definivano l’Inflessibile. Parco di modi e appetiti, consumava un solo pasto quotidiano in una ciotola di legno. Si rifece ampiamente suo figlio, Solimano I, che per la sua munificenza e l’esibizione di sfarzo e ricchezza della sua corte acquisí l’appellativo di Magnifico. Per questo venne immortalato da Paolo Veronese nel celebre dipinto Le Nozze di Cana; e Michelangelo stava per accettare una commessa, poi sfumata, per la costruzione di un ponte sul Bosforo. Eppure, alla sua magnificenza si accompagnava una crudeltà senza pari. Per compiacere la sua favorita, la bella Rosselana dagli occhi di gatta siamese, fece giustiziare il figlio Mustafà e il gran visir Ibrahim. Ciononostante, Solimano fu dai Turchi definito Qânûnî, ovvero il Legislatore. Non fece in tempo a vedere la disfatta di Lepanto. Morí a 72 anni, nel 1566, combattendo sotto le mura di Szigetvar. Fu suo figlio Selim II, detto Mast, l’Ubriaco, a dirigere le operazioni della battaglia.
In realtà Lepanto sancí la morte del Mediterraneo, del sogno incompiuto di Federico II, che aveva vagheggiato la centralità del mare nostrum quale faro e polo di riferimento per tutto l’Occidente. Con il rimpianto dell’occasione mancata dalle Repubbliche marinare, incapaci di cooperare per fare del Mediterraneo, in sintonia con i Paesi che vi si affacciavano, in particolare quelli islamici, un’area di raccordo e scambio tra l’Europa e l’Oriente prossimo ed estremo. Si erano logorate invece in furiose quanto sterili diatribe intestine. La manovra evasiva della squadra del Doria a Lepanto, che permise alla flotta turca di infiltrare il centro dello schieramento cristiano e su cui per un certo tempo aleggiò l’ombra del tradimento, fu probabilmente l’ultimo sussulto della rivalità che aveva contraddistinto i rapporti tra le due maggiori potenze marinare, Genova e Venezia, padrone per anni del Mediterraneo.
Se il tradimento attribuito al Doria fu solo un sospetto, peraltro mai provato, esso fu una certezza esibita e pugnace nel caso di Occhiali, un calabrese rinnegato che, abbracciando l’Islam, era diventato pascià di Algeri, col nome di Uluds Alí. Agli ordini del Grand’Ammiraglio Muesinsade Alí e accanto al governatore di Alessandria Mohammed Saulak, Occhiali comandò l’ala sinistra della flotta ottomana. Fu lui ad aggirare la squadra comandata da Gian Andrea Doria.

Andrea Michieli, detto il Vicentino «La battaglia di Lepanto» 1571 Venezia, Palazzo Ducale

 
Come ogni battaglia della storia umana, Lepanto procurò danni sia ai vincitori, la Lega cristiana, che ebbe 7.500 morti, sia agli sconfitti della Sublime Porta, che ne registrarono 8.000. E poiché alla fine sono le vite umane quelle che contano, si trattò di un no contest amaro per entrambi i contendenti. Ai quali dovette sfuggire il vero significato dello scontro, che arrossò di sangue il golfo di Patrasso. Avevano recitato, senza saperlo, la fine del Mediterraneo e l’imbalsamazione delle sue glorie.
Una mummificazione politica e storica cui non sfuggirono Filippo II, autoreclusosi fino alla morte (1598) nella tetraggine claustrale dell’Escorial, e Venezia, che si rifugiò in un’altezzosa autosegregazione, con le sue botteghe del caffè, tra le ciacole goldoniane e le recitate allegrie dei suoi carnevali.
Quanto all’Impero ottomano, elefantiaco e retrivo, esso si chiuse a riccio sulle proprie congiure di palazzo tramate dagli eunuchi, incapace di effondere alcun barbaglio di civiltà, come invece avevano fatto nei secoli precedenti i califfati arabi. Tormentato come un pachiderma in cancrena dai tafani del banditismo e delle rivolte locali, neutralizzate con feroci quanto inutili repressioni, dovette attendere fino al 1924 perché Mustafà Kemal, Atatürk, il Padre dei Turchi, dichiarando decaduto il califfato ottomano e instaurando la Repubblica, ne decretasse la fine.
Che senso ha riproporre alla nostra memoria un evento storico cosí lontano come la battaglia di Lepanto? Quali rapporti può avere con la realtà del mondo attuale? Nel suo Vangelo, Maître Philippe ha parlato di cliché che riproducono a distanza di tempo e in luoghi diversi condizioni uguali per incidenze e valori. Giambattista Vico diceva piú o meno lo stesso, citando i corsi e i ricorsi storici. Ebbene, se osserviamo lo stato presente della nostra, oggi come allora, cosiddetta civiltà, ci accorgiamo delle contraddizioni che la connotano: molto denaro molti poveri; tante case tanti senzatetto; molte medicine troppi malati; molte automobili tanti ingorghi; tanta scienza e tecnologia troppi guasti alla natura; molta cultura e filosofia tanto smarrimento animico e mentale; tanto cibo e molte carestie; tante religioni e poca fede. Inoltre, popoli maestri d’economia si scoprono a falsificare i bilanci per evitare la bancarotta; quelli maniaci dell’igiene diventare vittime di insidiose epidemie; etnie celebrate per la loro precisione fornire dalle torri di controllo indicazioni errate agli aerei in transito nei loro cieli; e società portate a esempio per la loro indole incline al vivi e lascia vivere si ritrovano ad avere in seno serial killer, madri infanticide, figli parricidi, e tutti ci sentiamo piú colpevoli ed immeritevoli di qualunque alibi e attenuante, poiché questo si verifica nonostante i milioni di libri scritti, gli insegnamenti di Maestri e Iniziati, la predicazione e gli esempi di profeti e santi, l’olocausto di martiri ed eroi.
Il motivo risiede forse nel fatto che la civiltà umana soffre di uno stato di saturazione karmica, dovuto a scelte materialistiche che hanno portato al fallimento dichiarato e tangibile in ogni campo, da quello economico a quello ideologico. Il Vangelo insegna: cercate lo Spirito e otterrete tutto, compresa la materia; cercate solo la materia e perderete tutto, anche voi stessi.
Ma chi ha mai veramente ascoltato ammonimenti tanto chiari, e chi mai si è curato di tener conto delle lezioni impartiteci dalla storia? Lepanto si ripete. Allora come adesso, in uno scenario allargato alle dimensioni globali del mondo, una civiltà, quella cosiddetta occidentale, se non tutta fallimentare in gran parte manchevole e imperfetta, incapace di autodenunciarsi e prendere atto delle proprie inadempienze etiche e politiche, inventa i mostri di turno da additare e sui quali scaricare la colpa dei mali che ci affliggono. E allora come oggi, l’Islam viene fatto oggetto di tale demonizzazione, diventa il nemico che attenta alla nostra identità culturale e religiosa. Mentre invece tutti, in segreto, ma poi non tanto, sanno che la lotta vera è tra lobby e cartelli sopranazionali, per la gestione delle risorse energetiche, per l’acquisizione di territori spesso motivata non da necessità vitali ma da pertinaci ossequi a utopie palingenetiche, messianiche o semplicemente demagogiche, che appartengono ai sogni della ragione piuttosto che ai dettami etici. Vengono omesse a tale proposito le motivazioni all’origine del conflitto col mondo arabo, che oltre ad essere di natura essenzialmente economica e politica, come si diceva, trovano materia per alimentarsi nella guerra tra israeliani e palestinesi.
A questo punto, il rischio maggiore che corre l’attuale civiltà, ingorgata da troppe contraddizioni e frustrazioni, è quello di tentare di smaltirle inscenando un’altra Lepanto, nella quale cercare la morte fisica dopo aver subíto quella morale e spirituale. I segni già corrono nell’aria.
Ma siamo in tempo per fermarci. Basta vedere in tutti gli uomini della Terra non dei soggetti politici, economici o semplici strumenti militari da sacrificare alle perduranti follie materialistiche, bensí dei portatori di segreti tabernacoli, dove il Verbo, unico per tutti gli uomini, vibra e respira, attende di parlare e splendere. Sta a noi operare perché ciò avvenga.

Leonida I. Elliot