Tradizioni

Correva l’anno 1818, ma questo il giovane Petalesharo, valoroso guerriero della tribú dei Pawnee, lo ignorava. Per lui il tempo era fatto di tante lune, di albe e tramonti, e il suo futuro un puntino tra i molti astri e pianeti che decoravano la mappa cosmica, gelosamente custodita dall’Uomo-della-Medicina nel sacro tepee al centro del villaggio.
Lí accanto sorgeva anche la tenda dove era tenuta prigioniera da quattro mesi una squaw appartenente alla tribú degli Hidatsa, catturata nel corso di una razzia che egli stesso aveva capeggiato, ricavandone molti fregi d’onore da appendere all’esterno della sua tenda.
Tutto era iniziato in primavera, quando una cometa lucentissima aveva attraversato il cielo sopra le Grandi Praterie, scomparendo a Occidente, oltre le Montagne Rocciose. Il prodigio era stato interpretato dagli anziani come un segno divino, rivelatore di grandi fenomeni e cambiamenti. Il piú reale era che i visi pallidi, in lunghe carovane, venivano da Oriente sui loro strani carri coperti, poggiati su cerchi dai molti raggi. Scivolavano con fragore lungo i sentieri che costeggiavano il Missouri, diretti al Grande Lago Salato, e piú a settentrione, nelle regioni fredde, dove i fiumi e le rocce contenevano il ferro giallo, tanto ricercato dagli invasori stranieri. Molti carri si dirigevano invece al mare, al vasto oceano dalle onde piú alte degli abeti che popolavano le foreste del Nord, dove vivevano alci, orsi e volpi. I vecchi favoleggiavano di quel mare senza fine, e si sapeva delle città che i visi pallidi stavano costruendo lungo la costa, dove le sequoie gigantesche fronteggiavano con uguale possanza quello spazio ignoto, sempre mosso dai venti, battuto da piogge e offuscato da brume in inverno.
Sí, forse era la venuta degli stranieri da Est l’evento che la cometa annunciava, e che aveva consigliato ai capi della sua tribú di organizzare una spedizione al campo degli Hidatsa per rapire una vergine da immolare alla Dea del Mattino, l’astro che brillava come una gemma cristallina mentre si librava sulla pianura a Levante, annunciando l’arrivo del sole. Mai come in quei giorni d’estate la stella aveva palpitato lucente e inquieta. Da anni, a memoria dei piú anziani del clan, non si era visto un simile prodigio. La Dea chiedeva un sacrificio.
E ora la ragazza era lí, nel candido tepee senza fregi né trofei, nutrita con miele e frutti di bosco, venerata alla stregua di una divinità della natura, lei stessa ormai compresa del supremo destino cui era votata per volere degli Dei. Tutti i giorni l’Uomo-della-Medicina lo informava delle congiunzioni delle stelle: solo quando la Stella del Mattino si fosse trovata in una certa posizione nel cielo, la fanciulla avrebbe dovuto essere immolata. E sarebbe toccato a lui, a Petalesharo, il piú valoroso dei guerrieri, tendere l’arco di corna di muflone, rinforzato con tendini di bisonte, e scoccare la freccia di selce aguzza che in un colpo solo avrebbe trapassato il cuore della squaw. Un unico colpo, una sola freccia, pena l’ira della Dea e la sfortuna per il villaggio e la tribú.
Perché quel sacrificio? Il giovane lo aveva chiesto all’Uomo-della-Medicina, ottenendone questa spiegazione:
«È un rito antico. Viene dalle tribú che abitano oltre il deserto del Sud, e prima ancora dai popoli che migrarono dal continente perduto, la terra inghiottita dal mare d’Oriente. Ma questo avvenne in un tempo remoto, molto remoto… Da allora si offre il sangue agli Dei per renderli favorevoli quando lo richiedono gli eventi. Ora tocca a noi farlo, perché gli invasori stanno prendendo le nostre terre e ci minacciano. Per questo tu scaglierai quella freccia senza esitare, senza ripensamenti né dubbi. La Dea lucente dell’alba ti guarderà e ti giudicherà. Nella tua mano, Petalesharo, è la sorte di tutti noi. Non ci deludere!».
Ma la squaw era bella, e il giovane guerriero se ne era innamorato durante il viaggio dal territorio degli Hidatsa al suo villaggio. Anche la ragazza lo aveva osservato piú volte con uno sguardo che non supplicava pietà, ma chiedeva al suo cuore una risposta. In quei mesi, da quando l’avevano rinchiusa nel bianco tepee, era entrato spesso a vederla insieme alle donne che le portavano il cibo, o quando l’Uomo-della-Medicina andava a recitare le formule di scongiuro, girando intorno alla fanciulla che, a testa bassa, i lunghi capelli neri sciolti dalle trecce, ascoltava le litanie del vecchio stregone senza fiatare, gli occhi chiusi, già lontana dal mondo, oltre la soglia della vita, piegata al volere del Grande Spirito.
Petalesharo non vedeva nulla di sacro e giusto in quelle funzioni che evocavano il sangue, preparavano alla morte una squaw che non aveva ancora conosciuto la vita. Chiese conforto ai suoi avi defunti, e una notte volle dormire tra i giacigli funebri dove i morti si consumavano al sole e al vento, poco fuori del villaggio. Sognò il suo wakonda, lo Spirito protettore, che gli parlava. Aveva assunto la forma di un alce bianco, e Alce-Bianco era il nome di un suo antenato, che era stato uno dei piú valorosi guerrieri del clan.
«Difendi quello che ami!». Queste furono le parole che pronunciò l’apparizione.
Ma quando il mattino seguente si recò dall’Uomo-della-Medicina per farsi interpretare quel sogno e ottenerne un responso, lo stregone, appena lo vide apparire all’ingresso del tepee sacro, gli disse: «Domani!».
Era dunque deciso. Il giorno dopo lei avrebbe lasciato le verdi praterie terrestri per vagare in quelle del Grande Spirito, e lui, Petalesharo, avrebbe arrestato quel cuore al quale sentiva il proprio legato per sempre. Non doveva accadere. Il sogno, anche senza l’aiuto dello sciamano, era chiaro. Avrebbe difeso quello che amava.
L’indomani, la Stella del Mattino brillava come non mai sulla distesa della pianura solcata dal fiume lento, dal quale vaporavano nebbie sottili. La squaw era nuda. I suoi capelli si agitavano alla brezza mattutina. Alcuni guerrieri, tra i piú nobili, recarono a Petalesharo l’arco scelto per la cerimonia, sottoposto anch’esso agli scongiuri e alle benedizioni nel tepee sacro dall’Uomo-della-Medicina, il quale ora, eretto al centro dello spiazzo tra le tende, gettava erbe magiche nel fuoco, recitando formule.
Mentre la legavano con piú giri di corda, la vittima ebbe un attimo di ribellione, implorando con lo sguardo il suo giustiziere pronto a tendere l’arco. E quando lo stregone, interrompendo il suo rito col fuoco, diede con voce stentorea l’ordine di lanciare la freccia, la ragazza alzò gli occhi verso il cielo che rischiarava, quasi volesse berne la dolcezza per l’ultima volta. Fu allora che Petalesharo gridò forte: un urlo prolungato, come se stesse per ingaggiare un duello mortale. Insieme a quell’erompere di fiato represso dalla sua gola, ci fu lo scatto ferino verso il palo del sacrificio. Tagliò di netto con un fendente di coltello le funi, strappò la squaw da quell’intrico e sollevandola la portò fino ai cavalli poco distanti. In un lampo furono in groppa, e il giovane incitò gli animali, che presero un galoppo sfrenato verso il fiume.
Nessuno ebbe l’ardire e la prontezza di intervenire e di inseguirli. Lo stupore vinse su ogni altro sentimento. Petalesharo riportò la fanciulla al suo villaggio, poi da coraggioso ritornò, per affrontare il giudizio dei suoi e la punizione che gli toccava. Ma quando fu di nuovo nel clan venne a sapere che il consiglio degli anziani aveva letto nel suo gesto un segno del Grande Spirito, e che la Dea del Mattino, la grande stella foriera del giorno, aveva gradito quell’atto d’amore piú di ogni altro dono.
Da allora i Pawnee delle Grandi Pianure non fecero piú sacrifici cruenti, e tutte le altre tribú li imitarono. Petalesharo tornò al campo degli Hidatsa per riprendersi la squaw, che divenne sua sposa. I suoi le avevano dato un nuovo nome, come era costume quando il destino di una persona mutava per un evento prodigioso: ora si chiamava Stella-che-non-tramonta.
I due innamorati decisero di andare verso Ovest, seguendo il fiume, oltre le montagne e il Grande Lago Salato, verso il mare che non avevano mai veduto se non in sogno. La cometa era nel giusto: i tempi cambiavano. Da Est le carovane di cercatori e coloni dai visi pallidi aumentavano ogni giorno. I solchi dei carri incidevano sempre piú in profondità i sentieri lungo il Grande Fiume. Sorgevano fortini con alte palizzate in cui si arroccavano guerrieri vestiti di blu, che avevano lunghi coltelli e fumavano non dai calumet, ma da corti cilindri di foglie arrotolate. Non ci si poteva fidare di chi non fumava in comune.
Prima di lasciare il villaggio, Petalesharo era entrato nel tepee sacro per salutare l’Uomo-della-Medicina.
«Tieni, porta con te questo amuleto!» gli aveva detto lo stregone, porgendogli un sacchetto contenente erbe magiche e denti di cuccioli di alce.
Poi il vecchio aveva proseguito in tono grave, indicando con le dita un punto sulla mappa del cielo: «Qui è mutata la storia dei Pawnee. Questa è la Grande Cometa, e accanto ecco la stella del Mattino. Mai dall’inizio dei tempi si erano incontrate. Tu hai soltanto obbedito al volere del Grande Spirito. Ora tu camminerai per vie nuove, ma uguale è il soffio che ti spinge. Difendi quello che ami!».
Petalesharo riconobbe con meraviglia, nelle ultime parole del vecchio sciamano, le stesse udite pronunciare nel sogno dal suo wakonda. Cavalcando verso Ovest, lungo il fiume e sui monti, diretto al mare lontano insieme a Stella-che-non-tramonta, sentiva di essere avvolto da quel soffio divino, di farne parte, e insieme a lui la donna che amava, e le pietre, e gli alberi, e la volta del cielo, e gli astri che la percorrevano, segnando il destino degli uomini.

Leonida I. Elliot


Immagini:
La Mappa del Cielo dei Pawnee conservata nel Museo di Storia Naturale di Chicago. In base alla esatta disposizione di stelle e pianeti, gli astronomi hanno potuto calcolare che essa fu stilata ai tempi della scoperta dell’America.
W. Langdon Kihn «Il sacrificio alla Stella del Mattino» – olio su tela