Letteratura

Cosa cercava Goethe, anche se inconsciamente, in Italia per il suo Faust pagano e dannato, il suo sulfureo poema senza speranza? La cultura mitteleuropea, quella germanica in particolare, era intrisa, in seguito ai radicali mutamenti indotti dalla Riforma, di una pertinace razionalità illuministica sfociata nel positivismo e nel naturalismo scientifico di Darwin, con la teoria dell’evoluzione delle specie implicante una basilare negazione creazionista del mondo. L’uomo era stato posto in una condizione di autonomia operativa e speculativa che, se da un lato ne appagava le tendenze individualistiche, dall’altro lo lasciava in balía di ogni dubbio morale e intellettuale.
La creatura umana aveva nel corso dei secoli intrattenuto con la divinità un rapporto quanto mai diversificato. Agli albori della storia l’uomo dipendeva dal divino in maniera ancillare, subordinata. Le liturgie si esprimevano con atti encomiastici ed elogiativi in cui l’immanenza sovrannaturale, piú che esaltare e trasfigurare, poneva gli officianti in una condizione di smarrimento, se non di terrore. L’uomo si prostrava al simulacro di un’entità giudicatrice e víndice, mai salvifica. Nel Medioevo, con il rapporto mistico, tale atteggiamento di subordinazione passiva si edulcorava sublimandosi, ma il divino comunque sovrastava l’essere, seppure in una forma nobilitante. Non esisteva ancora il concetto, neanche come remota possibilità futura, di simbiosi paritetica tra umano e divino.
L’Umanesimo fu la svolta in tal senso, provocando una rivolta ideale dell’uomo in rapporto con la divinità. L’essere creato, affrancandosi dalla tutela, diventava polo di misura delle cose, era in grado di aprire il proprio spazio interiore al massimo di esperienze e di scoperte, di commozioni e illuminazioni, praticando la naturalità in ogni campo: culturale, artistico nonché scientifico.
Pure, in questo desiderio di svincolamento, la divinità era un elemento imprescindibile dall’uomo, al quale la legava un cordone ombelicale non del tutto reciso. Fu la rivoluzione illuministica del Seicento e del Settecento a compiere la dicotomia finale e in un certo senso fatale. L’uomo dimenticò la divinità, la obliterò dai suoi schemi interiori e prese a camminare da solo, senza timori reverenziali. Lo scientismo preconizzò l’isolamento del naturalista rispetto al filosofo, rinnegando la materia umanistica della ricerca e del sapere scientifico. Si creò una frattura profonda con la visione magica del mondo. Prendeva il sopravvento una concezione razionale e matematica della natura e della storia. La dinamica culturale si avvalse di supporti eminentemente pragmatici e mai metafisici. La razionalità s’impose, figlia di quella metafisica immanentista che rifiutava, secondo le tesi dei riformisti luterani, l’intervento del trascendente in ogni fase della vita umana, fondando le proprie certezze, se mai ne ebbe, sull’esperienza individuale e sul valore della coscienza quale sola etica di condotta.
In Italia Goethe si trovò immerso in una realtà sociale e culturale diversa da quella di Francoforte, Lipsia, Strasburgo e Weimar. La rivoluzione illuministica aveva sí toccato la ristretta famiglia degli intellettuali italiani, ma in definitiva non era riuscita del tutto a scardinare le basi sulle quali poggiava, in particolare nel Meridione, la tradizione scientifica, filosofica e persino letteraria. Anche nei connubi piú stretti con le idee innovatrici che provenivano dai circoli d’Oltralpe, specificamente dalla Francia, il substrato di trascendenza e di metafisica che alimentava gli spiriti pensanti italiani mai venne completamente incrinato dal soffio sovvertitore che infiammava il resto dell’Europa. Cosí come non si era mai completamente spento nei secoli quel sotterraneo legame che univa l’etica sociale e filosofica, l’ideale storico, la ricerca speculativa e scientifica con la classicità greca e romana. Mentre il Cristianesimo, che di quella tradizione era la naturale prosecuzione, restava per lo piú inserito nell’alveo della Chiesa cattolica romana.
Il Faust della prima versione inneggiava all’uomo affrancato dalla sudditanza filiale della divinità, che aveva sperimentato l’alchimia, la scienza agnostica, l’astronomia, l’anatomia e la chimica, che ripeteva in laboratorio con storte e provette quanto si era in precedenza ritenuto prerogativa dell’Ente Supremo. Ma, alla stregua di Faust, anche quel tipo d’uomo, indagatore razionale e freddo, a un certo punto si era trovato solo: Dio era stato allontanato dalla vita sociale, dalle liturgie collettive, il religioso si sostituiva al sacro in un paganesimo di nuovo conio, ma che ricalcava gli errori umani di sempre: del vitello d’oro, delle idolatrie e del feticismo ateo e superstizioso. Soppiantato dalla Dea Ragione dei rivoluzionari giacobini, dalle certezze positivistiche, Dio disertava la scenografia umana lasciando la creatura smarrita, preda di ogni dubbio e dei fallimenti che la nuova etica secolare faceva registrare in ogni campo delle attività culturali e scientifiche. L’industrializzazione massiccia, il pragmatismo esasperato nell’economia a nella politica e l’ateismo istituzionalizzato si risolvevano in rimedi che, lungi dallo sciogliere i nodi sociali e storici, ne creavano di peggiori e piú intricati. Ci si rendeva conto, e il movimento romantico ne fu il primo segnale d’allarme, che l’uomo dell’umanesimo e del razionalismo non bastava a se stesso, rischiava la dannazione in senso morale e pratico. A meno che non riscoprisse i legami antichi con la mitologia, il misticismo, l’escatologia gnostica, e infine non riprendesse l’etica cristiana per farne un supporto alla pratica esistenziale.
Queste istanze, anche se a livello inconscio, Goethe dovette avvertire con molta probabilità quando quel 3 settembre dell’anno 1786 prese la via dell’Italia, quasi furtivamente, da transfuga, clandestino, insalutato. Come viatico recava il manoscritto del Faust: una materia viva da plasmare e rimodellare secondo l’estro del tempo e del luogo. Veniva a immergere un’opera malata di materialismo razionale, di paganesimo magico e agnostico, di metafisica immanentistica, nel fiume benefico della metafisica creativista, della classicità mitologica, nel battistero salvifico dei valori cristiani.
E infatti, il Faust che dopo due anni, dal 1786 al 1788, Goethe riportò a Weimar, era un poema che, cosí trasformato, si presentava imbevuto di tutti i valori, gli umori, le sensazioni, i misteri e le trasfigurazioni di cui l’atmosfera italiana ferveva, specialmente per uno spirito attento ed elevato quale quello di Goethe. Tanto che riuscí a scoprire nell’orto botanico di Palermo la stupefacente teoria dell’archetipo vegetale, secondo cui dentro ogni pianta vive un prototipo genetico che ha uguale configurazione morfologica e biologica per tutte le specie botaniche, pur se in apparenza differenti l’una dall’altra.
Possiamo affermare che il soggiorno italiano permise a Goethe di operare vari innesti sul corpo del suo sapere razionale. Ma ne permise anche nel corpus letterario, e in particolare in quello del poema che stava lentamente e soffertamente rielaborando. Dalla prima stesura letta alle dame di Weimar a quella risultante dopo il Grand Tour italiano, si avverte chiara la metamorfosi evolutiva della trattazione da una drammaturgia magica a un apparato didascalico, mitologico, misterico e via via fino alla configurazione terminale in un poema di sublime esegesi escatologica ed esoterica. Da pièce teatrale limitata al quadro della società tedesca riformata, a opera dai contenuti e valori etici universali adatta agli uomini di ogni epoca e luogo.
A supporto di questa tesi potremmo portare la scena del miracolo di Pasqua, inesistente nella prima stesura del poema, dove il suono delle campane, unito ai cori angelici diffusi nell’aria primaverile e alla grande luce che piove dall’alto, richiama il protagonista, già quasi preda della morte, al recupero della realtà e della salvezza, dopo che, deluso dai suoi insuccessi di scienziato e di alchimista, ha deciso di porre fine ai suoi giorni. Prova questa che Goethe adduce a supporto della tesi secondo cui la scienza umana non basta a sorreggere il desiderio di assoluto insito in ogni creatura pensante.
Lungo l’incedere della materia poetica si notano nel Faust, reduce dal lavaggio nelle acque della classicità mediterranea e cristiana, mutamenti sostanziali ed evidenti. La stessa figura di Mefistofele non conserva piú i connotati di elemento tentatore fine a se stesso, che esaurisce cioè il proprio operare nel progetto di perdizione ai danni dell’uomo. Al contrario, il compagno di Faust è arguto, a tratti persino garbato e umano, risolvendosi con l’essere un tutore e uno zelante mèntore piú che un subdolo consigliere del Male. È lui infatti che rivela a Faust, nella parte ambientata nella Grecia classica e mitologica, come sia in realtà l’uomo il solo elemento capace di realizzare il prodotto creativo, in quanto emanazione diretta del divino e quindi creatura di elezione nella vasta cosmogonia naturale e universale. È l’uomo, secondo quanto Mefistofele riferisce in piú tratti della trama, l’unico artefice del progetto finale divino: l’amore della creatura verso il suo Creatore. L’entità demoniaca è soltanto un agente che opera di riflesso alle azioni umane, ai dubbi e ai tradimenti morali: essa non può mai agire autonomamente, senza che l’uomo predisponga i termini e le condizioni oggettive perché il diabolico entri in azione. Soltanto Faust infatti è in grado di scendere al Regno delle Madri, dove è custodito il tripode con il quale sarà possibile evocare lo spirito di Elena: Mefistofele può solo munire il suo protetto di una chiave, simbolicamente indicante l’apporto materiale che le forze dell’Ostacolatore sono in grado di fornire all’uomo che ha deciso di agire.
Troviamo inoltre l’innesto della redenzione cristica e della salvezza universale del mondo, e infine della grazia che giunge a coronare una ricerca umana della perfezione (e non come asserivano i riformisti per sola predestinazione). Faust viene recuperato in extremis dagli Angeli che ne trasportano l’anima in Cielo, sottraendola al Maligno che già la riteneva sua per diritto del patto stipulato col sangue nella prima parte del poema: ipoteca del Male sul Bene tolta appunto dai nuovi contenuti del dramma goethiano, uniformati alla visione cristiana di salvezza per volontà dell’uomo e grazie al suo operato. Una redenzione, quella di Faust, al termine della sua travagliata esistenza governata dalla ricerca dell’assoluto, che certifica, al di là del valore poetico del dramma, come durante il suo viaggio in Italia Goethe abbia trovato la soluzione salvifica per la sua grande opera.
Oggi si va affermando, accanto a queste interpretazioni, l’innovativa tesi della reintegrazione che concerne i rapporti tra il Bene e il Male, tra Dio e Satana. Per la verità essa non è del tutto nuova: altre concezioni spiritualistiche l’hanno formulata in passato, pur se sotto diverse espressioni. La piú notevole è quella induista: la Trinità, ovvero la Trimurti, è composta da Brahma, che crea le cose, da Vishnu, che le conserva e le difende, e infine da Shiva che le distrugge. Le funzioni dei tre sono cicliche, consequenziali, sinergetiche: ognuno agisce di concerto con l’altro, intervenendo quasi per stimolo reattivo all’opera degli altri due, e tutto ciò in definitiva per attivare la Ruota della Vita, il grande Cerchio di Luce che altrimenti si spegnerebbe, lasciando il Cosmo nel tenebrore precedente la Creazione.
Questa concezione del sinergismo tra le varie forme e manifestazioni della divinità, e tra la divinità e il suo rovescio negativo, non dovette sfuggire a un attento e poliedrico indagatore qual era il grande studioso tedesco. La cronistoria della sua fertile e dinamica vita ci parla della scena aggiunta all’inizio del poema dopo il suo rientro dall’Italia: siamo nel 1800, e Goethe è sempre piú impegnato al recupero della sua opera in chiave romantica e teologica, innestando alla struttura gotica primitiva le risultanze delle esperienze interiori ed estetiche maturate nel corso della sua randonnée del Grand Tour. Si tratta del celebre “Prologo in Cielo”, in cui il poeta immagina che il Creatore – definito dal suo antagonista infero, con una vena di insospettata ossequiosità, come “il Buon Vecchio Signore” – abbia invitato Mefistofele per chiedergli qualcosa, dunque perché ha bisogno della sua opera. Il Buon Padre pare smentire il tono dei rapporti che sono tradizionalmente immaginati tra le due parti avverse: usa infatti con Mefistofele toni pacati, bonari, mentre lo accoglie nell’Empireo. «In fondo – dice – non ho mai odiato quelli della tua specie».
Perché questo abboccamento? Dio chiede al “Beffardo”, come Goethe lo definisce, una collaborazione: si tratta di mettere alla prova un’anima, quella di Faust, a lui molto cara, per provare se l’uomo, di fronte alle profferte materiali, arrivi a contentarsene pronunciando la fatidica frase: «Fermati attimo, sei bello!». Quel «Verweile, doch!» che suonerebbe allora come dichiarazione di resa, piuttosto che di ineffabile felicità raggiunta. Mefistofele diviene in questo modo, pur se tentatore, stimolo per l’uomo alla ricerca di una verità oltre gli umani errori e debolezze. Il Male, necessario fermento del Bene, renderà l’uomo, che tende verso l’Assoluto, degno della redenzione finale.

Leonida I. Elliot
(2. Fine)