Costume


Crollate le Twin Towers già progettano
di erigerne di nuove ma piú alte,
con una guglia di seicento metri
a svettare nel cielo di Manhattan,
un’Araba Fenice ricomposta
usando i resti delle vecchie torri
che l’umana follia ha raso al suolo,
provando che un delirio di potenza
ne chiama un altro ma di conio avverso
e distruttivo. Il seme di Babele
non è mai morto, e non è morto il caos
che viene dal volere a tutti i costi
emulare gli Dei con arroganza
e forzare le leggi di natura
oltre un segnato limite, una certa
misura coniugante l’armonia
delle sfere con la pratica valenza
utile al quotidiano. Dispersiva,
centrifuga è la smania di cui vive
l’odierna civiltà che privilegia
l’enfasi, il colossale, l’espansivo.
E non si ferma ai grattacieli, applica
la stessa megalomane iattanza
nell’allestire navi gigantesche,
le cosiddette “floating islands”, vere
comunità vaganti per gli oceani
in sempiterni peripli, godendo
le amenità di feste e passatempi,
argonauti edonistici impegnati
non tanto a ritrovare il Vello d’Oro
quanto a spendere l’oro depredato
a chi rimane sulla terraferma.
E che dire dei superreattori
che, spingendo per l’aria i supersonici
capaci di portare quasi mille
viaggiatori di tutti i continenti
da un lato all’altro del pianeta, rendono
i cieli saturati dai miasmi
dei propellenti ad alta combustione!
In questa insana corsa al mastodontico
Dio e natura vengono sfidati
dall’uomo insuperbito dal suo ego
come fossero acerrimi nemici
e non sodali con cui porre mano
alle sorti del mondo e farne un Eden.
L’uomo s’associa invece al Tentatore
e non percorre piú la via di mezzo,
quella della virtú, ma va agli estremi
e confeziona pentole smaglianti
dimenticando che quell’Artigiano,
maldestro e malandrino, non le termina,
lasciandole private dei coperchi:
basta una distrazione o negligenza,
un controllo mancato o un incidente
ed ecco l’ascensore mal tenuto
precipitare seminando morte,
o perdere potenza le turbine
per un fringuello che vi si è infilato,
un blackout oscurare una metropoli
se un roditore mastica un relais,
o l’astronave deflagrare a causa
di qualche guarnizione difettosa.
Si deduce che quanto piú è complessa
e gigantesca l’opera imbastita
tanto piú alto è il rischio che il fattore
umano non riesca a governarla
con poca spesa e limitando i danni.
Dovrebbe invece espandersi all’interno
del suo labile corpo, l’uomo, e scendere
nel profondo dell’anima, elevando
se stesso alla potenza delle stelle.
L’unica opzione di salvezza è questa.
Altrimenti finisce come il rospo
dell’esopica favola che volle
del bue per superare la grandezza
gonfiare la sua pelle oltre il possibile
facendo della gara una sconfitta
e di se stesso vittima risibile.

Il cronista