Sociologia


Il problema del lavoro potrà essere avviato a soluzione solo quando verrà posto nel suo significato essenziale. Esso è un atto dello Spirito in quanto la forza che muove le mani, anche nel gesto piú ripetitivo, non è completamente identificabile in nessun meccanismo biochimico e nervoso, cosí come la forza che fa sbocciare un fiore non è stata mai afferrata da nessuna indagine scientifica attuale. Atto dello Spirito è anche la capacità di concentrazione, la dedizione al proprio compito, malgrado il frastuono delle macchine e l’aridità dell’ambiente della fabbrica. Atto dello Spirito sono le doti di ciascuno: manuali, artigianali, intellettive, il saper risolvere un problema in seno alla propria attività, la capacità di intuire una determinata situazione e di rispondere ad essa con i provvedimenti piú opportuni. Per questo il significato ultimo del lavoro può essere compreso nell’ambito di una libera vita spirituale e da questa comprensione possono derivare i giusti provvedimenti per restituire dignità a chi lavora. Proprio in questo ambito l’educazione scolastica, non piú condizionata da un potere pubblico egemone o dagli interessi della produzione, tenderà a realizzare un uomo completo, in grado di esprimere le sue qualità migliori che si riverseranno poi nella società e nelle diverse attività economiche. In altre parole non saranno né il potere politico, né gli interessi produttivi a richiedere alla scuola l’educazione di determinate doti da utilizzare per i loro fini, bensí quanto fiorirà da una libera vita spirituale e quindi da una libera scuola come capacità umane, impronterà tutto il contesto sociale ed economico.
In questo modo le attività umane non saranno piú uno strumento per determinati scopi politici e ideologici o un ottuso mezzo di produzione, qualcosa da irregimentare o da comprare e vendere. Esse riacquisteranno invece la loro essenziale realtà di moto puramente interiore, espressione, anche in quelle che possono sembrare le sue manifestazioni piú umili, di una libera vita spirituale effettivamente operante nella società.
Consegue da tutto ciò che il problema delle retribuzioni, delle normative di lavoro, della sicurezza sociale ecc. non possono essere risolti sulla base di rapporti di forza puramente economici, i quali fanno pendere la bilancia una volta dalla parte del lavoratore, una volta dalla parte dell’imprenditore. Essi vanno interpretati in chiave esclusivamente giuridica, come ferrei rapporti di diritti e di doveri in grado di tutelare la dignità interiore e esteriore di tutti coloro i quali esercitano una qualsiasi attività, a qualsiasi livello. Per raggiungere questo obiettivo, nel quale si concretizza gran parte della giustizia sociale è necessario concepire uno Stato dedito soltanto a svolgere la sua funzione primaria: garantire norme giuridiche, agenti anche nel mondo del lavoro, secondo il principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge.
È chiaro però che se lo Stato dedica le sue energie ai compiti piú diversi, se pretende di essere contemporaneamente farmacista, agricoltore, siderurgico, ferroviere, educatore, perde inevitabilmente la capacità di svolgere bene la sua funzione fondamentale: amministrare la giustizia. Si è venuto infatti in questi decenni, ad alimentare un equivoco che sta conducendo a situazioni sempre piú inestricabili. È la confusione fra giusto diritto all’esistenza, alla pensione, alla salute, alla scuola e l’applicazione pratica di questi diritti. Occorre distinguere, primo fra tutti, il senso di giustizia e di dignità che rende viventi questi princípi, conseguenti pertanto ad un livello morale e quindi ad una fattiva vita spirituale. Poi bisogna riconoscere che non vi può essere scuola, quindi uomini efficienti, senza il contributo di educatori nell’ambito dell’opportuno ambiente spirituale. Non si può negare inoltre che diritti e doveri non saranno mai applicati seriamente senza la tutela di una vigile organizzazione giuridica. Infine non vi potranno mai essere retribuzioni adeguate, pensioni decenti, ospedali funzionanti, edifici scolastici salubri, se non si sarà operato in modo che il contesto economico esprima tutte le sue possibilità potenziali e possa fornire quindi i mezzi per esaudire le giuste esigenze che abbiamo indicato.
Un potere pubblico dedito soltanto all’amministrazione della giustizia, con il necessario corollario di forza di polizia, carceri, legittimi strumenti di difesa ecc., può non solo sperare di prevenire e combattere piú efficacemente i tristi fenomeni delinquenziali, ma può aspirare ad intervenire in tutti i conflitti nel mondo del lavoro, in tutti i problemi di retribuzione intesi come giusto diritto alla vita, in tutte le questioni riguardanti l’ambiente, gli orari di lavoro e le diverse normative. Con questo non voglio certo sostenere che si può stabilire per legge la ricchezza per tutti. Ma dalla insensatezza di distribuire ciò che non si ha, oltretutto disperdendo le risorse nei meandri burocratici di istituti per la sicurezza sociale inefficienti, al mortificare, per le necessità del dio della produzione, le elementari esigenze umane, vi è un ampio spazio di manovra. Spazio oggi troppe volte compromesso dagli effetti negativi della conflittualità esasperata e strumentalizzata per fini di potere, o dalle rapine fiscali conseguenti agli abissali disavanzi pubblici, o da una certa ottusità che ancora sopravvive in alcuni imprenditori, infine dal fatto che la realtà economica è sfuggita di mano a tutti, primariamente agli economisti di professione.
L’affermazione che il capitale è Spirito mi ha procurato, qualche anno fa, le rampogne di alcuni amici molto bene organizzati sul piano intellettuale. Tuttavia una recente inchiesta nel mondo del lavoro ha mostrato che il sessanta per cento degli operai ritiene indispensabile la funzione imprenditoriale, profitto compreso. Ciò sta a dimostrare che chiunque viva quotidianamente una concreta esperienza di lavoro sa bene, anche se la esprime in parole diverse, che questa mia affermazione è profondamente vera.
Molte persone, me compreso, se ricevessero una cospicua eredità, o vincessero una grossa lotteria, o se avessero in dono una azienda, dal punto di vista strettamente economico, non saprebbero che fare. Certo esaudiremmo tutti i nostri sogni e i nostri desideri: dalla poltrona a dondolo nuova per il nonno alla interminabile vacanza nel paradiso tropicale. Economicamente e quindi socialmente, tranne rare eccezioni, non combineremmo però nulla di fattivo e di creativo. Volendo sintetizzare e semplificare al massimo è qui la differenza fra capitalismo e capitale. Per il primo possiamo intendere un accumulo di mezzi finanziari, molte volte derivanti da attività utili, i quali vedono aumentare la loro entità quasi per inerzia: per il sommarsi di profitti su profitti dovuti alla abilità di uno staff dirigenziale che non ha la proprietà dell’azienda, di utili che immediatamente reinvestiti producono quasi automaticamente altro denaro, di rendite talvolta secolari derivanti da proprietà immobiliari, per impieghi speculativi di notevole entità che quando sono veramente enormi arrivano ad influenzare le decisioni politiche sia in Occidente sia negli stessi Paesi socialisti. Il secondo invece, il capitale, è l’espressione della dote di chi lo ha creato, pur con la sua concretizzazione in moneta, in impianti e in merci. Da un carrettino per la vendita delle bibite si è arrivati alla catena di supermercati; da un’azienda paterna artigianale si è creato un complesso produttivo; dai quattro soldi prestati da un amico un po’ incosciente si è costruita un’attività che dà lavoro e benessere a molte persone.
Con questo non voglio certo affermare che sia tutta luce, tutta bontà, ma è evidente che il fatto essenziale del sano fenomeno imprenditoriale è l’esprimersi di doti di ingegno, di creatività, di testardo spirito di sacrificio, di instancabile volontà di realizzazione. Sono questi momenti spirituali che possono trovare il loro terreno di incubazione, per fecondare poi tutta l’economia e tutta la società, in una libera vita spirituale, in una educazione che, attraverso il libero confronto delle idee, aiuti l’uomo a stimolare, nel profondo del suo essere, le sue migliori doti di fattività.
Riconoscere la capacità imprenditoriale come un evento spirituale smorza il contrasto e l’avversione classista. È data l’occasione a chiunque operi sul piano economico di riconoscere l’esistenza di qualcosa che è al principio di ogni attività e che può dare risultati stupendi solo quando trova innanzi a sé un sincero spirito di collaborazione. Infatti se è fondamentale per il prestatore d’opera ammettere l’importanza della dote imprenditoriale, è altrettanto fondamentale, per il datore di lavoro, sapere che il contributo di tutti i suoi collaboratori appartiene, anche se con espressioni diverse, alla stessa fonte spirituale alla quale egli attinge. Riconoscimento questo, non solo sentimentale, quindi effimero, ma sostanziato dalla dinamica presenza di una vita spirituale nella società, la quale, per esempio, dovrebbe alimentare l’idea che il destino ereditario di una azienda importante per la società non può che essere diverso dalle norme giuridiche vigenti per il patrimonio personale, affinché dote imprenditoriale e possesso del capitale coincidano sempre nella stessa persona.
Piú di un lettore, leggendo queste righe, forse penserà: va tutto bene ma resta il fatto che il possessore del capitale, se può, non perde l’occasione per sfruttarmi. Giusta osservazione! Infatti pur con le debite eccezioni non si può certo attendere, per risolvere la questione sociale, che tutti gli imprenditori divengano dei modelli di virtú. Per questo ho già detto che compito dello Stato moderno è assicurare la giustizia e di garantire diritti e doveri, primo fra tutti il diritto ad una dignitosa esistenza, là dove gli egoismi tendono di piú a manifestarsi e gli interessi a scontrarsi: il mondo dell’economia del lavoro. Una apposita magistratura, molto piú efficiente delle attuali sezioni del «lavoro», dovrebbe porsi in grado di affrontare tutte le controversie fra datori di lavoro e lavoratori, non tanto in nome di astratte norme di legge, bensí cercando di penetrare in tutti quei risvolti umani, impliciti a questi contrasti, mediante un autentico e vivo senso di giustizia.
Per questo ritengo che di fronte all’attuale complessità dei problemi del lavoro i sindacati siano ormai inadeguati. Pur con tutte le buone intenzioni riformiste, pur con tutta la buona volontà, pur con i loro meriti passati, essi non possono piú assicurare una concreta tutela del prestatore d’opera. Essi infatti, per la loro intrinseca natura, concepiscono solo il gruppo, la categoria, finendo per imporre quindi l’appiattimento, l’anonimato, quando poi non pretendono una disciplina di partito o di classe per i loro fini di potere, non sempre in armonia con le esigenze dell’economia e della società. Si va invece delineando sempre piú l’aspirazione, per l’uomo che lavora, ad essere il protagonista della sua vicenda. L’uomo desidera nel profondo di discutere sempre piú personalmente i suoi diritti e i suoi doveri e vuole che sia valutato oggettivamente il suo contributo singolo. I diritti di categoria o di classe appartengono al passato della civiltà industriale. Oggi, con la mano d’opera sempre piú specializzata e coinvolta in responsabilità tecnologiche maggiori a causa dell’automazione, non possono che esistere diritti e doveri dell’uomo inteso come entità singola. Si va facendo strada sempre piú la consapevolezza, anche nel mondo del lavoro e delle cosiddette “masse”, che ogni uomo è diverso dall’altro, ha capacità e desideri diversi, è in sostanza una personalità a sé. Solo quindi rapporti sempre piú personalizzati, tutelati però da una organizzazione giuridica dinamica, possono far sbocciare, nel prestatore d’opera, la coscienza di realizzarsi come vero uomo offrendo il suo contributo alla società. È l’affrancamento quindi da ogni contrasto di classe e l’inizio del superamento, nella sua interiorità, di quelle frustrazioni e di quelle alienazioni derivanti dalla sensazione di essere un numero nella categoria e dalle quali discendono tutte le forme di disaffezione e di assenteismo, aggravate dall’immersione nell’arido mondo della produzione meccanica.
Per gli stessi motivi diffido anche delle diverse proposte di partecipazione alla gestione dell’azienda. Se si guarda bene, cosí come sono concepite, non sono che uno strumento o in mano sindacale o in mano al Consiglio di Amministrazione, senza che venga mai presa in considerazione l’ipotesi di un colloquio diretto fra uomo e uomo. Mi sembra inoltre lesivo alla sua libertà, obbligare un dipendente a devolvere una parte della sua retribuzione all’acquisto di azioni dell’azienda, quando forse preferirebbe, con gli stessi soldi, comprare qualcosa che appaga di piú i suoi desideri. Tanto all’atto pratico non sarà mai comproprietario dell’azienda, tutt’al piú avrà eletto l’ennesimo rappresentante che farà poi quello che gli pare. Lo spirito di vera collaborazione, di autentica partecipazione non nascono da atti economici o da norme statutarie ma sono solo il frutto di una effettiva evoluzione spirituale. Solo partendo da questo presupposto, da questa azione interiore che riguarda sia il prestatore d’opera sia il datore di lavoro, può effettivamente mutare il rapporto fra uomini che collaborano ad uno stesso fine economico e quindi sociale.
È strano come non ci si renda ben conto oggi che tutto quanto è norma, legge, codificazione, schema, pur esprimendo legittime esigenze, non risolve mai nulla in profondità, quando addirittura per sanare un’ingiustizia non crea altre ingiustizie. Siamo circondati, assillati da questa triste realtà ma non sappiamo uscirne, mentre quelle poche volte che si realizza un incontro diretto fra uomini, fondato solo sul reciproco rispetto e sulla reciproca fiducia, e quando si dà respiro alla libera iniziativa, alla fantasia, alla buona volontà, raccogliamo frutti meravigliosi.
Credere di restituire dignità al lavoratore concedendogli di divenire un piccolo azionista è un inganno. Come è un inganno concepire delle forme di cogestione in mano alle rappresentanze sindacali, le quali non potranno che trasferire i difetti della politicizzazione in seno all’azienda. Un salto qualitativo, a favore dell’uomo, sarebbe invece rappresentato dall’istituzione di incontri fra tutti i protagonisti di un complesso produttivo, ove senza schemi, né aziendali né sindacali, ogni partecipante possa essere informato, nel modo piú completo, nei riguardi della situazione in cui opera e possa quindi divenire cosciente del suo contributo e del fine al quale partecipa. Contemporaneamente ogni partecipante dovrebbe poter esprimere liberamente il contributo della sua esperienza e della sua intelligenza. Solo quando chi è in alto riconosce che può sempre imparare qualcosa da chiunque, e chi è sottoposto ammette la validità del contributo di chi lo guida, solo allora si può creare quella atmosfera di autentica collaborazione fondata sulla dignità, la quale poi consente la realizzazione di veri e propri miracoli produttivi. A ben guardare è in questa direzione che va ricercata la forza che muove gli eventi economici.

Argo Villella (4. continua)

Edito a cura di G. Simoncini per la Cooperativa Pico della Mirandola, Bologna 1986