Non è raro sentirsi interiormente indeboliti,
svuotati al punto che persino la Concentrazione
risulta simile ad un involucro vuoto dal principio
alla fine.
Di solito questa condizione
di abulia animica passa col tempo.
È possibile intervenire
subito e capovolgere la situazione.
Parliamo troppo. Dalla
nostra bocca escono giornalmente fiumi e mari di
parole inutili, insignificanti o sciocche, di certo
superflue. Questa pessima ma naturale abitudine
corrisponde occultamente ad una sorta di
dissanguamento progressivo. Sentirsi poi esauriti è
il meno che ci possa succedere.
Per quanto possibile, non
parlare. Se interpellati, rispondere alla domanda
proibendosi con lucido rigore qualsiasi altra parola
che sia espressione di una nostra iniziativa. Dire
solo ciò che è necessario. Se la nostra opinione
viene richiesta, esprimere parcamente solo ciò che ha
valore.
La pratica di questa
disciplina che verrà svolta durante il giorno per il
tempo corrispondente alla durata della voluta
consapevolezza dell’esercizio, ci restituirà in
cambio di ogni parola futile non detta una
corrispettiva quantità di energia interiore. In poco
tempo si diventa accumulatori viventi di forza, si
sente come l’interiorità va saturandosi sino a
determinare speciali sentimenti di raccolta potenza.
Vi sono persone che con questo esercizio hanno
cancellato condizioni somatizzate di ansia e
nervosismo.
Se le vicende della vita hanno preparato per noi un
duro lavoro fisico o un estenuante lavoro d’ufficio
di carattere ripetitivo, al termine della giornata la
stanchezza fisica o la risonanza nervosa eccedente non
lasciano in molti casi spazio per una vivace attività
animica e per rinnovati slanci interiori, ma piuttosto
ci trascinano in una sorta di intorpidimento.
È possibile limitare di
molto la stanchezza procurataci dalla fatica fisica e
mentale in eccesso, liberandosi dal corpo o liberando
il corpo dalla psiche.
Si inizi l’esercizio in
ore libere, durante brevi passeggiate in luoghi
tranquilli e deserti.
Immaginarsi di guardare
il proprio corpo da dietro, mezzo metro al di sopra
della testa e ad una distanza di circa due metri.
Portarsi immaginativamente in quel punto cercando
successivamente di vedere il proprio corpo che
continua a camminare con spontaneità.
Esercitarsi all’inizio due
o tre volte per pochi minuti. Dopo alcuni giorni di
pratica esercitarsi piú a lungo e in condizioni
diverse: ad esempio su una strada affollata o seduti
in poltrona. Quando la pratica è divenuta familiare
la si esegua sul posto di lavoro (il lavoro deve avere
le caratteristiche dell’automatismo. Non fare
assolutamente esperimenti di distacco dal corpo stando
alla guida di automezzi o in genere di mezzi
meccanici). Se il lavoro non è automatico, la
disciplina potrà venire soddisfatta nelle piccole
pause tra attività diverse.
I momenti anche brevi di
realizzazione dell’esercizio permettono al corpo di
attingere alla sua profonda forza e saggezza mentre lo
sperimentatore potrà avvertire un rigenerante senso
di liberazione all’interno di sé (corpo sottile). L’esercizio
si rivela utile anche nella seconda metà della vita,
quando l’entità animica sprofonda nella sensazione
corporea oltre il necessario. Secondo alcuni, questa
disciplina favorisce al termine dei nostri giorni
terreni un piú facile e sereno distacco.
Nella vita di tutti i giorni si rimane spesso
interdetti davanti alle occasioni di scelta offerte
dalla simultanea possibilità di agire verso due
diverse mete che magari paiono di equivalente
importanza. Entriamo allora nell’incertezza, non
sappiamo cosa scegliere. A questo punto permettiamo
che dal subcosciente salgano nella coscienza alcune
rappresentazioni di cui le piú attraenti possano
proporsi come motivi, trascinandoci verso una delle
due azioni possibili.
Possiamo interrompere questa
passiva abitudine dell’anima,
la nefasta incertezza, rafforzare la volontà
cosciente ed apprendere alcuni aspetti occulti del
nostro essere con un semplicissimo esercizio.
Rifiutare ogni decisione
suggerita dalle zone passive e oscure dell’anima,
affidare la scelta dell’agire all’indicazione
esterna che ci procureremo attribuendo ad ogni azione
una faccia di una moneta che lanciata in aria e
lasciata cadere indicherà con la superficie visibile
l’atto da compiere. Proprio il vecchio “testa o
croce”.
In genere siamo molto
orgogliosi (specie se occultisti) e perciò ubbidire
all’indicazione casuale della faccia visibile della
moneta può diventare un atto alquanto sofferto.
Si adempia a ciò che dall’esterno
della nostra anima è stato stabilito.
Lo sperimentatore si accorge
subito di come sia stata illusoria la sua precedente
equanimità o indifferenza. Nella possibile scelta tra
due azioni diverse e se attua il silenzio interiore
può avvertire, nell’ubbidire all’indicazione
della moneta, come un elemento animico urti da dentro
contro i confini del corpo che sta realizzando l’azione
non dettata da rappresentazioni interiori: è la prima
esperienza dell’“uomo lunare”, assolutamente
celato alla coscienza diurna.
E se, dopo aver accettato la
prova insita in questo piccolo esercizio, un
battaglione di ragionevolissimi pensieri indurranno
qualcuno a fare esattamente l’opposto, questo
qualcuno almeno sospetti di venire mosso all’azione
da fili sconosciuti e invisibili piuttosto che dal
proprio Principio Cosciente.
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