Letteratura

 
Dal punto di vista letterario e spirituale il Faust di Goethe è
per l’umanità un’eredità testamentaria del piú alto grado…
…quanto piú lo si penetra, tanto maggiore è la profondità
che vi si scopre, e ci si rende conto allora dell’importanza
che Goethe può assumere per l’umanità.

Rudolf Steiner
(da Gli enigmi nel Faust di Goethe) O.O. 57

Ci sono opere che appartengono a un periodo storico ben definito, altre che rispecchiano istanze e tradizioni proprie di un popolo o di un’etnia, altre ancora che vivono nell’ambito di confessioni religiose delimitate e da quelle non esulano. Soltanto rare testimonianze artistiche, nelle varie espressioni, si rivolgono alla vicenda umana svincolata dalla cornice temporale e spaziale, per divenire messaggi universali diretti agli uomini di tutte le nazioni e di tutti i credi, a qualunque epoca storica essi appartengano. Sono le opere universali, le didattiche globali – come il Vangelo, la Divina Commedia, il teatro di Shakespeare – alle quali gli uomini in ogni periodo e per ogni esigenza possono attingere per specchiarvici e ritrovarvi tutte o in parte le proprie incertezze, problematiche, contingenze, e per attingervi le proprie speranze, le certezze, le illuminazioni.
In piú, il Faust appartiene alla famiglia delle opere che accompagnano per tutta la loro esistenza i sommi artisti che le hanno create, quasi un lavoro quotidiano in divenire, una metamorfosi operativa continua – come fu la Gioconda per Leonardo – intorno alle quali si affatica diuturnamente l’estro dell’autore, quasi che il variare dell’umore, l’accrescersi delle esperienze, la macerazione del dolore, formino dei tasselli che in qualche modo, giorno dopo giorno, possano completare il capolavoro che solo la morte fisica può concludere, in quanto esse stesse, le opere, sono materia vitale inscindibile dall’artista.
Se ci impegniamo a seguire la genesi del Faust, ci accorgiamo che il suo sviluppo tecnico ed esecutivo scandisce tutta la vita del grande tedesco. Ad essa egli interveniva sempre, dopo intervalli piú o meno brevi, aggiungendo, togliendo, variando, cosí come la sua dinamica e inquieta esistenza, mai appagata, tesa nel chiedere e nel trovare, si perfezionava e si sublimava nel crogiolo dell’esperienza inesausta. Tanto che molto del poema venne completato soltanto pochi mesi prima della sua morte.
Ma vediamo le tappe di questa avvincente storia, dove vicenda umana e creativa procedono in simbiosi, in parallelo, intersecandosi, intrecciandosi, spesso evolvendo in un viluppo indistinguibile, in un solo corpo.
Johann Wolfgang von Goethe nasce nel 1749 a Francoforte sul Meno. L’Europa, immersa nel secolo dell’Illuminismo, nelle certezze della razionalità scientifica, sta allevando – nutrendola di concretezze storiche e filosofiche – la giovinetta Dea Ragione che di lí a qualche anno, in Francia, darà prova della sua nefasta vitalità. Ma accanto a queste note degenerative l’Illuminismo forní a spiriti come quello di Goethe uno stimolo per porre alla base della ricerca metafisica ed esoterica il metodo scientifico, la bibliografia doviziosa delle enciclopedie. Il Faust è un prodotto che si è arricchito di queste radici, fuggendo dalle divagazioni mitiche della tradizione medioevale.
Durante la sua prima adolescenza il piccolo Wolfgang, pungolato dalla madre, donna colta e attenta alle vicende esterne del mondo, scrive testi per il teatro delle marionette, molto in voga in quel periodo in Germania e altrove. In questo particolare ambiente egli entra in contatto per la prima volta con la leggenda del dottor Faustus, tema appartenente alla tradizione popolare tedesca e piú ampiamente delle leggende gotiche proprie del mondo anglosassone. Magia, alchimia, esoterismo volto alla bassa speculazione metafisica, costituivano i registri che davano il tono ai racconti di cui si nutrivano i popoli mitteleuropei (vedi il Golem di Praga).
Per la verità un Faust era già stato scritto nel 1588 in Inghilterra da un vivace e intemperante scrittore e poeta, Christopher Marlowe (Canterbury 1564-Londra 1593) con il titolo The tragical history of Doctor Faustus, a sua volta ripreso da un precedente dramma tedesco pubblicato un anno prima col titolo Historía von Johann Fausten. Marlowe portava sulla scena, come del resto piú rudimentalmente l’ignoto autore germanico, anticipando di secoli l’ideale romantico, individui isolati dal contesto sociale, pervasi da passioni estreme, assolute, titaniche, ansiosi di infinito, assetati di scienza e di bellezza. Il dramma di Marlowe si esprimeva in un linguaggio vigoroso, ricco, a volte iperbolico. La fantasia, è ovvio, vinceva sulla documentazione storico-filosofica. E inoltre, quello che piú conta ai fini della nostra disamina, il dramma di Marlowe aveva un esito negativo: Faustus si perdeva, nella lotta col Male soccombeva, in quanto la dannazione rappresentava il finale atteso e scontato per tutti coloro che da folli volessero cimentarsi col soprannaturale per trarne vantaggi materiali, anche se di tipo scientifico. L’uomo si trovava ancora al margine del grande cerchio del Cosmo e guardava la Divinità da subordinato, timoroso di sollevare lo sguardo, di chiedere i perché.
Nel 1770 Goethe è a Strasburgo per terminare gli studi. Viene in contatto con l’arte gotica di Shakespeare e di Ossian. Ha una burrascosa relazione sentimentale con Frederike Brion, che alla fine abbandonò. Il senso di colpa che derivò a Goethe da questa azione venne cosí trasposto in quello di Faust verso Margherita.
L’anno seguente, a Francoforte, Goethe scrive il dramma Götz von Berlichingen Cavaliere della Riforma, il cui ribellismo libertario viene preso a modello dai giovani scrittori dello “Sturm und Drang”, il grande e tumultuoso movimento romantico tedesco che diede il la agli altri della stessa ispirazione in tutta Europa. In questo clima di riscoperta della mitologia classica, di recupero dei valori umanistici soffocati o imbavagliati dalla razionalità illuministica, con la nascita di un’illusione umanistica borghese e non accademica, con la relativa nascita dei vari nazionalismi e delle culture popolari (favole e miti), Goethe inizia a scrivere l’Urfaust, la storia dell’Uomo che cerca e soffre, che vive il suo dramma esistenziale attraverso il cuore e la fantasia. Non è da escludere che il suo modello, anche se lontano, sia l’opera seicentesca di Marlowe. E infatti in questa prima versione giovanile del poema la dannazione finale suggella la tematica del dramma in negativo. L’uomo, pur se motivato da giusti stimoli, deve soccombere perché troppo ha osato, e il peccato è ancora uno spauracchio morale che condiziona le coscienze, siano pure quelle di una mente aperta e anticonformistica quale quella di Goethe.
Dopo aver scritto nel 1774 I dolori del giovane Werther, Goethe diventa precettore del duca Karl August a Weimar. In quello stesso anno legge, soprattutto alle dame di corte, il suo dramma Urfaust, per buona parte ancora in prosa, con brevi sezioni in versi; il linguaggio è potente ma rude, spinoso, inquietante. Vi sono già le linee principali della vicenda che corrisponderà alla prima parte del successivo Faust. Si racconta la storia del Mago e la tragedia di Margherita in toni che la critica definirà vibranti ma scabrosi, certo lontani dall’armonia del poema nella sua stesura definitiva. In questa prima versione, il Faust è ancora opera di derivazione pagana, celtica, con tutte le implicazioni e i luoghi comuni cari alla tradizione druidica. Nessun accenno, se pur vago, è fatto alla possibilità umana di riscatto e redenzione. La vena escatologica cristiana non ha ancora toccato il poema. Goethe cerca la sensazione letteraria, l’effetto magico proprio del teatro gotico. Le suggestioni alchèmiche abbondano, senza aggancio al tema della salvezza cristica. Il Bene e il Male si affrontano attraverso l’Uomo, e quest’ultimo, fragile e fallibile, non sorretto dal Cristo, non riesce a competere con il sovrumano e può solo soccombere. Questo Faust venne subito tenuto in odore di eresia e messo al bando dall’autorità ecclesiastica cattolica, cosí come da quella protestante. Di troppa passionalità e di troppo peccato erano intrisi i versi del poema.
Dal 1776 al 1786 Goethe trascorre il decennio dorato a Weimar, alla corte di Karl August, in compagnia di celebri scienziati e letterati che si erano stabiliti nella piccola città ducale, in particolare di Schiller, con il quale intrattiene rapporti di amicizia e collaborazione letteraria. In questi dieci anni Goethe si dedica agli studi approfonditi di svariati argomenti: ottica, botanica, scienza, mineralogia. Scrive la famosa Teoria dei colori, in polemica col britannico Newton. Si lega sentimentalmente a Charlotte von Stein, scambiando con lei un memorabile carteggio. Scrive la prima versione del Wilhelm Meister, dal titolo Wilhelm Meisters theatralische Sendung. In questo fecondo periodo di studi e ricerche, indirizzate per lo piú agli àmbiti scientifici, il Faust non viene mai abbandonato. Goethe lo rifinisce, lo varia, lo riscrive, operando sul poema quel lavoro di lima e revisione che doveva produrre il finale capolavoro al quale il movimento romantico e lo stesso poeta dovevano legare il proprio destino e gli ideali.
Il 3 settembre del 1786, improvvisamente, senza avvisare nessuno, neppure l’amica del cuore Charlotte von Stein, Goethe fugge in Italia. Una topica liturgica dei seguaci ed epigoni dello Sturm und Drang era il Grand Tour d’Europa, ma soprattutto l’appendice mediterranea che trovava in Italia la sua degna conclusione, il suo apice. Le tradizioni elleniche, romane, medievali e rinascimentali facevano del nostro Paese un archivio della memoria storica, culturale e mitica ineguagliabile. Le varie civiltà stratificate rappresentavano quanto di meglio gli uomini mediterranei avevano espresso in secoli di civiltà, l’alchimia dei vari elementi mitici, storici e misterici dai quali ricavare la pietra filosofale capace di far accedere un’anima volta al sublime a una nuova dimensione spirituale.
Ai progressi europei della scienza, della filosofia, della ricerca enciclopedica, che verso la metà del secolo XVIII si erano resi pressanti diffondendo un sapere moderno, Roma opponeva la conservazione del passato, della tradizione, dei vincoli del dogma nell’ambito religioso, il che voleva dire nella piú vasta area del panorama sociale del tempo. La città, e la regione che la racchiudeva in un’enclave di estrema reclusione, si presentavano, a chi vi arrivasse per visitarla, sovraccarica di simboli e di storia; una sorgente di acque perenni, di aure antiche, magiche. Atmosfere di emozioni raffinate, celate sotto la coltre muschiosa dei ruderi che in quello scorcio di secolo la scuola archeologica internazionale, di cui Winckelmann rappresentava la punta di diamante, iniziava a riportare alla luce secondo criteri innovativi e con tecnologie inedite, in maniera organica. Occorreva lo stesso lavoro di paziente dissotterramento in ogni campo dello scibile e dell’arte. Valori e tempi storici diversi s’intrecciavano, cristallizzati da un conservatorismo insanabile.
Piú il Settecento si dispiegava come età dei Lumi, della Ragione e del Progresso, piú Roma si chiudeva su se stessa. Pure, nonostante quella gelosia retriva, per chi sapeva scoprirla e cantarla, essa, come del resto gran parte dello scenario classico, sapeva spargere umori e profumi inebrianti, dispensare misteri e gioie nascoste. Un rinnovato culto dell’antico, che doveva sfociare nelle tendenze neoclassiche di Canova e David, chiamava verso l’Italia, e verso Roma in particolare, l’Alma Mater universale, schiere di giovani rampolli dell’alta società europea, facendone la meta di un vero e proprio pellegrinaggio verso una patria ideale di cui si sentono cittadini di elezione al di là di ogni appartenenza nazionale. È la nascita della cosiddetta “Repubblica delle Arti e delle Scienze”, formata da spiriti e anime volte alla ricerca del Bello e del Sublime. «Roma è la grande Scuola Universale» sentenziava appunto il Winkelmann, padre riconosciuto della nouvelle vague romantica animata da fervori e propositi etici ed estetici.
Goethe si era unito al coro degli apologeti del mondo greco-latino che sopiva da secoli nel grembo torpido del suolo italico, soffocato dai manierismi patetici del barocco e del rococò. Nel suo Diario dall’Italia scriveva: «Roma incatena con la sua magia e aura sacrale. Qui sto avendo la mia rinascita e ritrovo il vero me stesso».
Tutti questi ardenti cantori della classicità si dedicavano dunque a un’archeologia tendente non soltanto alla riscoperta di colonne trionfali, catacombe, obelischi, statue e palazzi, anfiteatri e templi, ma altresí, e forse con maggiore impegno, a disseppellire memorie, tradizioni, usanze e umori che l’Italia e Roma, sotto una scorza di apatia e disinteresse, avevano conservato a uso dei “romei” assetati di mito, bellezza e sacralità.
Sappiamo per certo che, quale viatico carissimo per il suo itinerario lungo i paesaggi della nostra terra, Goethe portò con sé, come il reliquiario di re Luigi il Santo alle Crociate, la stesura del Faust, quella che aveva letto alle gentili dame della corte di Weimar. Aveva sentito necessario di portare il Faust in Italia, cosí come Manzoni, a un certo punto della sua vicenda letteraria, dovette portare il suo Fermo e Lucia a “sciacquare i panni in Arno”, a Firenze, per sfrondarne gli orpelli retorici e farne un monumento a un secolo, a una terra, quella lombarda, a un popolo, a una casta, quella dei prevaricati di sempre: un’apologia della Provvidenza che immane nelle vicende umane volgendole al bene.
L’Urfaust, mistione di brani prosastici e dialogati alternati a poesia, è un’opera meramente pagana, magica e non misterica, passionale e non sublimale, votata a un unico esito, come il suo protagonista inappagato, Faust, destinato alla perdizione nel rispetto dei ruoli e dell’etica. Ma di quale etica possiamo parlare? Certamente non di un’etica cristiana nel senso di salvazione, redenzione, riscatto umano, e neppure in un senso piú dogmatico nella sfera del credo cattolico, che quel Faust sconfessò e scomunicò.
Il Faust che dilettò, mentre le atterriva e sconvolgeva, le damigelle di Karl August, era un’opera che sentiva il lezzo delle taverne e dei postriboli mischiato al tanfo di zolfo che vi spargeva Mefistofele, il quale, socio e compagno di gozzoviglie del vecchio scienziato e mago Faust, ne aveva già in pugno la sorte prima ancora che l’epilogo arrivasse.
Troviamo sia nel Faust di Marlowe sia nell’Urfaust di Goethe tutti i postulati dell’eresia calvinista e luterana: negazione della Trinità, della Vergine, del libero arbitrio capace di condurre l’uomo lungo il sentiero scelto e non quello prestabilito dalla divinità. Faust è un uomo solo, colto ma deluso della sua scienza, che non gli ha fatto conoscere nella vita che aride formule, senza mai il sollievo di un amore. Di qui i suoi appetiti, che Mefistofele sfrutta come debolezze da appagare con i ritrovati della magia nera e del sortilegio stregonesco. Mai che si avverta nelle parole, nelle frasi, nei versi, la vena della presenza divina, la garanzia del riscatto finale per chi cerchi veramente l’assoluto.

Leonida I. Elliot
(1. continua)